Lotta Continua e il materialismo

La concezione materialistica della realtà e della storia deve costituire il fondamento teorico della nostra politica e la base della formazione di ognuno di noi. Solo così noi potremo...

La concezione materialistica della realtà e della storia deve costituire il fondamento teorico della nostra politica e la base della formazione di ognuno di noi. Solo così noi potremo garantire al tempo stesso un criterio di verifica non empirico alla nostra linea e una autonomia di giudizio in tutti i campi ai militanti di Lotta Continua.

Il materialismo volgare

Quando parliamo di materialismo, non dobbiamo pensare che il fondamento di una concezione materialistica del mondo debba venirci dalla fisica, dalla chimica, dalla biologia o dalle altre scienze che si riferiscono a ciò che comunemente si chiama materia.
Queste scienze non solo sono, come tutte le scienze moderne, un prodotto della divisione della società in classi; esse si sono sviluppate come strumenti di questa divisione, cioè come strumenti del dominio della borghesia sul proletariato, di cui sono, insieme alla « tecnica » che le incorpora nelle macchine e nella organizzazione capitalistica del lavoro, una delle principali manifestazioni.
Perciò una visione del mondo che si fondi su queste scienze è necessariamente influenzata dal modo in cui esse sono nate e si sono sviluppate e, proprio per questo, non può che essere quella che Marx chiamava « ideologia », cioè giustificazione della divisione della società in classi.
Questo non significa assolutamente che l’intero contenuto di queste scienze sia falso; cioè che non esista alcun rapporto tra il loro contenuto e la realtà, come pretendono certe forme di idealismo. Attraverso queste scienze il dominio dell’uomo sulla natura, cioè il dominio del genere umano sul resto del mondo, si è esteso enormemente, e questa è una conquista irreversibile. Ma il genere umano è diviso in classi, e questo dominio dell’uomo sulla natura si è realizzato finora attraverso la divisione della società in classi. Per capirlo, basta pensare a come avvengono praticamente i processi di appropriazione della natura da parte dell’uomo, cioè i pro-cessi di produzione, nel sistema sociale in cui viviamo, cioè nella società capitalistica.
Le scienze della natura recano in sé, indelebilmente, questo tratto connaturato alla loro origine e al loro sviluppo.
Qualsiasi tentativo di metterle a fondamento di una concezione generale del mondo è, proprio per questo, necessariamente classista e borghese. In questa impostazione rientrano sia le influenze positiviste e meccaniciste (che presentano cioè lo sviluppo storico come un processo naturale e automatico) che hanno finito per dominare la evoluzione del marxismo nell’ambito della Seconda Internazionale, sia la definitiva imbalsamazione che esso ha subito in URSS, sull’onda di una concezione che tende a presentare il marxismo come una branca di una teoria generale dell’evoluzione.
Qualsiasi tentativo di « rovesciare » la natura delle scienze borghesi senza aver prima rovesciato i rapporti sociali che le hanno create, è utopistico e astratto. Rientra in questa impostazione l’illusione che intellettuali scienziati possano costruire una « cultura alternativa » a quella esistente, sulla base di una semplice e isolata contestazione del proprio ruolo. Una illusione ampiamente diffusa nel campo delle « scienze sociali » e delle discipline storiche ed umanistiche, ma che torna spesso a riproporsi anche nel campo delle scienze naturali.
Infine, qualsiasi tentativo di identificare i limiti conoscitivi di queste scienze, connaturati al modo in cui esse sono nate e si sono sviluppate, con un limite della conoscenza umana in assoluto, è un tentativo di limitare il potere conoscitivo dell’umanità e di abbandonare la conoscenza dei rapporti sociali al regno dell’arbitrio e della irrazionalità. Questo è, in fine dei conti, l’ultimo rifugio dell’ideologia borghese, che non riesce più a giustificare lo stato di cose esistente, cioè la società capitalistica, cerca solo più di contestare ogni legittimità scientifica e teorica a chi lo vuole rovesciare, cioè al comunismo, ed alla sua espressione teorica, che è il marxismo.

Il marxismo

Per avere una conoscenza effettiva del mondo e della storia noi dobbiamo partire da quella scienza che non solo presuppone la divisione della società in classi, ma che è il prodotto della lotta per superare questa divisione. Questa scienza è il marxismo, come insieme di conoscenze che il proletariato ha accumulato e verificato nel corso della sua lotta per il comunismo.
Appare subito chiaro qual’è il rapporto tra il marxismo e le altre scienze: senza il marxismo esse non forniscono che una visione distorta ideologica della realtà. Con il marxismo, anche esse possono diventare terreno della lotta per rovesciare questa società. Ma questo è un legame pratico e non astratto: è dato cioè dalla lotta reale del proletariato per conquistare un diverso rapporto con la natura e un diverso rapporto tra gli uomini.
Avere una concezione materialistica del mondo significa dunque fondare scientificamente — cioè spiegare razionalmente — non solo la lotta di classe in generale, ma la possibilità che la lotta di classe nella nostra epoca, cioè la lotta tra proletariato e borghesia, porti al comunismo, cioè al superamento della divisione della società in classi. Si tratta cioè di analizzare la natura della contraddizione tra proletariato e borghesia.
Più precisamente, la questione può essere posta in questi termini: esiste la possibilità di definire il proletariato, i suoi interessi di classe, i suoi bisogni, la sua condizione materiale, in maniera non empirica ma scientifica? Esiste la possibilità di definire il proletariato, non con un semplice elenco di bisogni, individuati non si sa bene a partire da quale punto di vista, ma facendo invece riferimento al modo in cui il capitalismo ne determina l’esistenza? Esiste, cioè, una « teoria » dei bisogni del proletariato in grado di dare un fondamento razionale alla prospettiva del superamento della divisione della società in classi?
Secondo noi sì; essa è il nocciolo del pensiero di Marx ed è inscindibile dai termini in cui Marx aveva condotto la critica della forma più evoluta di ideologia borghese del suo tempo: l’economia politica.

La teoria del valore-lavoro…

L’economia politica, in tutte le sue versioni, presenta il modo di produzione capitalistico come un tutto armonico — capace cioè di garantirsi uno sviluppo equilibrato e ininterrotto attraverso le proprie leggi naturali o « armonizzabile » — capace cioè di trovare nell’intervento dall’esterno del potere politico un correttivo alle tendenze aberranti del mercato. La critica di Marx esclude sia l’una che l’altra cosa e presenta la crisi, cioè la tendenza del sistema alla distruzione delle forze produttive che esso stesso ha creato, come un dato permanente del capitalismo.
Il nocciolo di questa critica sta nella dimostrazione che il capitalismo non può trovare al suo interno, cioè nel mercato, uno sbocco al valore creato dalle forze produttive della cooperazione sociale (cioè dalla produzione organizzata secondo i criteri di una divisione del lavoro sempre più estesa e pronunciata) che esso stesso ha messo in moto.
Questa spiegazione della crisi si fonda interamente sulla teoria di Marx del valore-lavoro. Che cosa dice questa teoria? Essa spiega come il rapporto secondo cui le diverse merci, compresa la forza lavoro, si scambiano tra di loro sul mercato, cioè il loro prezzo tende a coincidere con il tempo di lavoro socialmente necessario a produrre ciascuna di esse.
Questa regola, valida — come tendenza generale — solo nel capitalismo e non nelle formazioni sociali che hanno preceduto il modo di produzione capitalistico, deriva dal fatto che il capitalismo riduce il lavoro umano a lavoro astratto, tendenzialmente svincolato da qualsiasi contenuto specifico, e quindi universalmente intercambiabile: rende cioè paragonabili fra loro i prodotti del lavoro di uomini e di « unità produttive », cioè di imprese, diverse, sulla semplice base della quantità del lavoro erogato; e non, come accadeva nelle formazioni sociali precedenti, anche della qualità di questo lavoro.
Il processo che mette capo a forme di lavoro sempre più astratte e quindi potenzialmente intercambiabili coincide tanto con quello che in genere viene chiamato sviluppo capitalistico — meglio sarebbe chiamarlo, come faceva Marx, accumulazione del capitale — quanto con il processo di proletarizzazione della società. Si tratta di un processo che liberando progressivamente il lavoro umano dalle sue determinazioni specifiche, continua durante tutta la storia del capitalismo, ben oltre la fase di trapasso dalle formazioni sociali precedenti al modo di produzione capitalistico.
L’analisi di questo processo non può prescindere, come è evidente a tutti, dall’analisi dello sviluppo che il lavoro ha subito nel corso del tempo, sotto le contrastanti spinte della lotta di classe e dell’accumulazione del capitale.

…e i suoi critici

E’ qui, nella fabbrica e nella organizzazione del lavoro, come ben aveva visto Marx, che va cercata la radice della teoria del valore-lavoro; è di qui cioè che deve partire l’analisi del capitalismo e delle sue contraddizioni.
Prova ne è il fatto che tutte le teorie che sono approdate ad un rifiuto della legge del valore-lavoro — o a un suo tale travisamento da costituirne una sostanziale negazione — hanno sempre dimostrato un sostanziale disinteresse per i problemi della fabbrica e dell’organizzazione del lavoro, oppure li hanno sì presi in considerazione, ma in modo del tutto separato dall’analisi storica del capitalismo e delle sue crisi.
Nelle concezioni che fanno riferimento alla teoria revisionista delle forze produttive (di cui parleremo in seguito), la teoria di Marx del valore-lavoro è stata dogmaticamente ripresa, per essere trasformata da teoria del lavoro astratto e della crisi, cioè delle contraddizioni del capitalismo, in una teoria dei prezzi relativi e dell’« equilibrio », cioè dell’armonia del sistema capitalistico.

Per anni í marxisti dogmatici si sono affannati per cercare di dimostrare che la teoria di Marx del valore-lavoro era conciliabile con una teoria generale dell’equilibrio; cioè con una teoria che ipotizza una situazione in cui i vari fattori della produzione (lavoratori, impianti, materie prime) si distribuiscono automaticamente, e in maniera razionale, tra i diversi settori produttivi, determinando, attraverso le leggi della domanda e dell’offerta, cioè attraverso il mercato, un livello dei prezzi, dei salari e quindi dei profitti, capace di garantire una accumulazione del capitale uniforme e continua. In questo modo i marxisti dogmatici si sono messi sullo stesso terreno degli economisti borghesi ed hanno assunto come presupposto proprio ciò che Marx aveva sempre negato che il capitalismo potesse mai raggiungere: cioè un equilibrio fondato sulla eguaglianza generale dei tassi di profitto; una eguaglianza che nel capitalismo agisce sempre come tendenza, ma non si presenta mai, se non per puro caso, come una realtà stabile.
L’acquisita cognizione dell’inconciliabilità di una teoria dell’« equilibrio » — cioè dell’armonia del sistema — con la teoria del « valore-lavoro », ha portato molti studiosi moderni a mettere tra parentesi o a negare la validità della seconda, in nome della prima. Questa svolta sta alla origine di molte concezioni soggettiviste e, in ultima analisi, piccolo-borghesi, della contraddizione tra proletariato e borghesia. Il punto di approdo di queste posizioni è una piatta accettazione dello stato di cose presente, cioè della società capitalistica e dei suoi meccanismi; oppure una concezione utopista e piccolo-borghese del socialismo, che critica il capitalismo partendo da una gerarchia soggettiva di « valori » invece che da una analisi oggettiva della lotta di classe e degli interessi che in essa si esprimono.

Il comunismo

Quale formulazione generale possiamo dare, allora, ai bisogni del proletariato sulla base della teoria di Marx del valore-lavoro?
Il capitalismo sviluppa, insieme al proletariato, il bisogno di sottrarsi a un rapporto con la natura e con gli altri uomini coercitivamente determinato. Lo sviluppo che porta a un predominio sempre maggiore del lavoro astratto nei rapporti di produzione fa sì che il legame tra ogni membro del proletariato ed il contenuto specifico del suo lavoro, della sua attività e della sua esistenza si presenti come coercizione esterna, come potere di una classe sull’altra, e non più come una necessità intrinseca, come un destino o un dato immutabile, come accadeva invece per le classi produttrici, se non addirittura per i singoli membri di esse, nelle formazioni sociali precedenti.
In questo bisogno sono impliciti tutti gli altri bisogni del proletariato: il bisogno di riappropriarsi delle condizioni del proprio lavoro e, quindi, dell’intero prodotto di esso; dato che nella separazione dell’operaio dal prodotto del suo lavoro nasce il processo di accumulazione, che, concentrando tutta la ricchezza ad un polo della società e tutta la miseria all’altro riproduce continuamente il capitale ed il proletariato come entità contrapposte ma complementari, e perpetua così le condizioni dello sfruttamento capitalistico e la divisione della società in classi.
Infine, il bisogno di abolire, insieme al lavoro salariato, le condizioni che rendono possibile che la forza-lavoro sia una merce che si scambia come ogni altra merce: cioè il mercato stesso; il che sarà possibile sol-tanto quando la misura della ricchezza sociale avrà cessato di essere il tempo di lavoro per coincidere invece con la soddisfazione effettiva dei bisogni; quando cioè sarà da mettere all’ordine del giorno il motto scritto sulle bandiere del proletariato: « a ciascuno secondo i suoi bisogni, da ciascuno secondo le sue capacità ».

Forze produttive e rapporti di produzione

Questa concezione rappresenta per noi la riconquista del nocciolo originario del marxismo; essa identifica la contraddizione tra sviluppo delle forze produttive e modo di produzione, su cui Marx aveva fondato la possibilità del superamento della società borghese e della divisione della società in classi, con la contraddizione tra il proletariato e l’organizzazione capitalistica della produzione. In altre parole, identifica la principale forza produttiva, alla quale, in ultima istanza, sono riconducibili tutte le altre, nel proletariato, nella sua crescita numerica e qualitativa, nei suoi interessi di classe che si radicano nei suoi bisogni, cioè nelle condizioni storiche della sua esistenza.
Secondo questa concezione, tutte le altre « forze produttive » dalle forze della natura alla scienza e alla tecnica, che sono il prodotto della evoluzione storica, sono tali solo in rapporto con quella forma evoluta di cooperazione sociale che l’esistenza del proletariato ha reso possibile.
Le forze produttive non sono quindi definibili al di fuori del loro nesso con i rapporti di produzione.
Non esiste cioè una storia « autonoma » delle forze produttive, che crescono in modo lineare, passando da una formazione sociale all’altra. Una simile teoria dell’« autonomia » delle forze produttive, sta alla radice di tutte le concezioni revisioniste.

La teoria revisionista delle forze produttive

In realtà, nel modo radicalmente diverso di intendere la contraddizione tra forze produttive e rapporti di produzione va ricercata la radice ultima del contrasto tra comunismo e revisionismo.
Una prima concezione, tuttora presente nel movimento operaio revisionista ed anche in molte componenti rivoluzionarie, identificai rapporti di produzione con i rapporti di proprietà, cioè con la proprietà privata. Di conseguenza, per forze produttive intende tutto il resto, tutto quanto ha accompagnato l’evoluzione dei rapporti di lavoro e la loro socializzazione nel corso dello sviluppo capitalistico: la scienza, la tecnica, la crescita e la concentrazione degli impianti, l’organizzazione del lavoro, il mercato. Come ulteriore conseguenza di questa concezione troviamo la convinzione che la statizzazione, ovvero la nazionalizzazione dei mezzi di produzione, elimini alla radice la contraddizione fondamentale del capitalismo; dove questo è già avvenuto, questa teoria non può che attribuire l’emergere di nuove e radicali contraddizioni a semplici errori soggettivi o a deviazioni inconsapevoli, che non mettono però in discussione la natura di una società che per definizione avrebbe eliminato la contraddizione principale.
Questa concezione delle forze produttive è la radice ultima del revisionismo; essa attraversa un lungo cammino che va dalla Seconda Internazionale alla degenerazione stalinista della Terza.
Ma essa continua a manifestarsi anche in numerose posizioni rivoluzionarie di oggi: tutte quelle, per esempio, che considerano l’URSS o i paesi dell’est europeo « stati operai degenerati », e che continuano a far riferimento, sulla semplice base della abolizione della proprietà privata, ad un ipotetico « campo socialista », che accomunerebbe sia i paesi dove vige la dittatura del proletariato, come la Cina, che quelli a capitalismo di stato, come l’URSS.
Ritroviamo questa concezione teorica nella pratica politica del revisionismo nostrano, che, dalla esaltazione del ruolo di produttore dell’operaio, sfocerà nella difesa corporativa della professionalità, nell’accettazione dell’organizzazione del lavoro che su di essa si fonda, nella delimitazione della organizzazione agli strati qualificati della classe operaia, nella difficoltà di riconoscere prima, di accettare poi, i contenuti nuovi della autonomia operaia di cui sono portatori gli strati meno qualificati della classe operaia, nati con il taylorismo il lavoro a catena: cioè. con una ulteriore trasformazione in direzione del lavoro astratto. Proprio in questi contenuti si esprime invece in forma radicale. i! rifiuto del lavoro salariato. a partire dalla lotta contro gli aspetti più elementari della organizzazione del lavoro: le qualifiche. le gerarchie, gli incentivi, i ritmi, la nocività ecc.

Il gradualismo

Questa concezione, in ultima analisi, vede il passaggio dal capitalismo al socialismo in termini di evoluzione graduale e non di scontro tra le classi; non riuscendo a cogliere il dato qualitativo nuovo che l’esistenza del proletariato rappresenta nella storia delle forze produttive, non riesce nemmeno a spiegare come mai la contraddizione tra forze produttive e rapporti di produzione, che ha sempre messo capo, in passato, a nuove forme di società fondate sulla divisione delle classi, da un certo punto in poi dovrebbe produrre una società senza classi; per cui rimanda allo sviluppo quantitativo delle forze produttive così intese, cioè ad un futuro del tutto indeterminato, quello che in realtà è il problema centrale della lotta proletaria in ogni sua fase: l’abolizione della divisione della società in classi, il comunismo.
Secondo la concezione revisionista delle forze produttive, il capitalismo, accrescendo continuamente la socializzazione del lavoro porta per così dire a un superamento graduale ed automatico di se stesso, che, per compiersi, ha solo più bisogno di rimuovere gli ostacoli che si frappongono a questo sviluppo. Questi ostacoli sono la sovrastruttura giuridica e politica dello stato, secondo le forme più apertamente gradualiste del revisionismo, che non mettono in discussione nemmeno l’esistenza, e la permanenza, del mercato; sono entrambi, sia l’ordinamento giuridico che il mercato, secondo le concezioni rivoluzionarie, che, pur non avendo interamente superato la concezione revisionista delle forze produttive, vedono però nel mercato, e nelle crisi che esso genera, il limite storico che il capitalismo pone allo sviluppo delle forze produttive; per cui, coerentemente, mettono in relazione la previsione di una « crisi finale » del capitalismo con la necessità di una rottura violenta del suo apparato statale.
Sia la prima che la seconda di queste concezioni si fermano alle porte della fabbrica: vedono un limite allo sviluppo delle forze produttive nello stato e nel mercato; non lo vedono nei rapporti di produzione così come essi si manifestano in fabbrica. La contraddizione tra forze produttive e rapporti di produzione è, per queste concezioni, una contraddizione tra fabbrica e società non una contraddizione nella fabbrica e nella società. Di qui a negare alla classe operaia — e al proletariato, che è il modo di esistere della classe operaia nella società — un ruolo decisivo nella contraddizione, il passaggio è immediato, anche se quasi mai consapevole.

Le radici dell’idealismo

Questa negazione di fatto si è storicamente espressa e continua ad esprimersi nella separazione tra lotta economica e lotta politica. La prima è intesa come il manifestarsi quotidiano dell’antagonismo tra operai e padroni a partire dalla propria collocazione nel processo produttivo, che però non reca in sé niente di rivoluzionario; niente cioè che esprima il bisogno e la possibilità di superare il modo di produzione capitalistico e la divisione della società in classi. La lotta politica, sia nelle versioni parlamentari e gradualiste che in quelle che giudicano inevitabile una rottura violenta dello stato nella crisi, è intesa come la sola con cui la classe operaia e il proletariato si fanno carico di un compito storico — quello di abbattere un modo di produzione superato — di cui non possono avere cognizione a partire dalla loro esperienza quotidiana; e che, quindi, deve venir loro insegnato « dall’esterno ».
Vediamo così che nella concezione revisionista delle forze produttive si radica un’altra separazione fondamentale, che, come quella tra lotta economica e lotta politica, è del tutto estranea a Marx, ma ha accompagnato la successiva storia del movimento operaio: la separazione tra la coscienza di classe e le condizioni materiali di esistenza della classe; la separazione tra l’essere e la coscienza; la negazione che le idee della umanità siano il prodotto dei suoi bisogni; il rifiuto, in ultima analisi, del materialismo.
Soltanto, quindi, una concezione che identifichi le forze produttive nel proletariato e negli antagonismi che lo contrappongono al modo di produzione capitalistico in tutti i suoi aspetti, a partire dai livelli più elementari, permette di restituire integralmente alla lotta di classe il ruolo di contraddizione principale, e permette di evitare le secche dell’idealismo che separa la coscienza dalla sua base materiale.

La reazione soggettivista

La prima reazione contro la teoria revisionista delle forze produttive assume l’aspetto di un soggettivismo esasperato.
Storicamente, all’origine di queste posizioni troviamo un tentativo di recupero in chiave antileninista di Rosa Luxemburg: in Francia esso sfocia in una esaltazione dell’autogestione che non mette minimamente in discussione l’esistenza del mercato capitalistico, la sua anarchia, e il problema del suo superamento.
In Germania — e negli Stati Uniti — esso si innesta su un filone culturale che da tempo ha imbalsamato il marxismo in una critica della cultura e della società, condotta in nome di una razionalità senza storia, il cui unico detentore, in una presunta situazione di generale « integrazione » del proletariato, o addirittura di scomparsa delle classi, sarebbe la casta degli intellettuali.
Di queste teorizzazioni, che fino a qualche tempo la si facevano passare per l’ultimo grido rivoluzionario, è evidente oggi la vuotezza e, spesso, l’approdo qualunquistico.
In Italia, il livello sempre alto mantenuto dalla lotta operaia porta ad indirizzare in modo ben diversamente concreto la critica della concezione revisionista delle forze produttive sul terreno in cui in modo irriducibile si esprime la contraddizione tra operai e capitale: quello dell’organizzazione del lavoro.
La figura e l’opera di Raniero Panzieri sono, da questo punto di vista, centrali. Il suo lavoro non è circoscrivibile in una teoria definita, ma i suoi epigoni però lo cristallizzeranno ben presto in due filoni principali.

La tematica del controllo

Il primo concentra la sua attenzione, in maniera esclusiva, sul problema dell’organizzazione del lavoro nella sua dimensione aziendale o, addirittura, in una dimensione ancora più ristretta, mutuata dalla sociologia americana, il « gruppo omogeneo »: l’accento viene posto sul problema del controllo (« controllo operaio », controllo sulle condizioni di lavoro) e la lotta di classe tende a venir ridotta ad uno scontro astratto per il potere nella fabbrica. Ne resta pressoché emarginato il problema del potere statale.
La novità maggiore sta invece nel fatto che, sulla scorta di una rilettura di Marx, nelle parti che trattano le macchine e la grande industria, viene rimessa in discussione la « neutralità » della tecnologia e dall’organizzazione del lavoro, di cui viene denunciata la funzione di strumenti del dominio capitalista. Le macchine, la tecnica, la scienza che in essa si incorpora, la organizzazione del lavoro e la stessa « forza-lavoro », cioè la classe operaia, nella misura in cui essa è una « funzione » del capitale, vengono ricondotte sotto il concetto di « rapporti di produzione ».
All’altro lato della contraddizione, dalla parte delle forze produttive, non resta in tal modo quasi più niente di definito. I fondamenti materiali della contraddizione tendono cioè a dissolversi nel più puro soggettivismo e, paradossalmente, la mancanza di una teoria che fondi scientificamente l’autonomia operaia sfocia nel suo opposto: un piatto oggettivismo che vede l’organizzazione operaia ripercorrere, in modo speculare, le articolazioni interne della divisione capitalistica del lavoro: le squadre, i reparti, le aziende, i settori. Questa concezione, propria di una parte del PSIUP, del PDUP e della cosiddetta sinistra sindacale, darà i suoi frutti più coerenti e grotteschi nelle teorie dell’inquadramento unico, del « nuovo modo di produrre », per confluire, con il nuovo « modello di sviluppo », nel più ampio alveo del revisionismo riformista.

La mitologia della classe

Il secondo filone esaspera apparentemente l’aspetto opposto, quello « oggettivo »: alla razionalità del capitale, identificata nel « piano », a cui vengono meccanicamente ricondotti tutti gli aspetti dello sviluppo capitalistico, viene contrapposto il « contropiano », la razionalità del proletariato — anzi, della « Classe Operaia » — il cui comportamento oggettivo ha una intrinseca coerenza, direttamente antagonistica al piano del capitale e indipendente dal fattore « coscienza ».
Qui il bersaglio polemico è soprattutto la contrapposizione tra « anarchia capitalistica » e « socialismo realizzato », così come essa veniva presentata da quei teorici revisionisti che identificavano il capitalismo con la proprietà privata e il socialismo con il piano. Ma anche in questo filone, come in quello precedente, il terreno fondamentale dello scontro di classe resta quello di un « potere », concepito in modo astratto e fuori dalle sue determinazioni storiche: non il potere dei singoli, o del gruppo omogeneo, come nel caso precedente, bensì quello di tutta la classe. La misura di questo potere è dato, in maniera del tutto oggettiva, dalle contraddizioni che incontra la realizzazione del piano del capitale. Su questa strada si arriva, in tutta coerenza, a formulare aberrazioni come quelle di un « uso operaio del capitale »: se il capitale non riesce ad usare come vuole la forza-lavoro, sembra automatico che sia questa, trasformata in « Classe », ad utilizzare il capitale. Gli obiettivi del programma operaio vengono così proposti, indipendentemente dal loro fondamento materiale, per il solo fatto che essi « fanno saltare il piano del capitale ».
La storia del capitalismo viene vista come un susseguirsi di cicli sempre uguali in cui, alla rottura del piano da parte della classe operaia si alterna la ricomposizione della razionalità capitalistica ad un più alto livello. Sul piano pratico, questa concezione sfocia nel più bieco opportunismo (cioè nell’accettazione dello « stato di cose presente », ivi compreso il partito revisionista, a cui molti di questi compagni finiscono beatamente per approdare), o nel più cieco volontarismo, che sovrappone, la ricerca soggettiva di una rottura violenta ad un ciclo che per definizione è senza storia.

Il capitalismo senza crisi

Rispetto a quello che è il punto fermo del revisionismo, cioè il rifiuto di mettere in discussione il modo capitalistico di produzione, la linea di demarcazione tra rapporti di produzione e forze produttive si è spostata di 180 gradi: nel revisionismo, tutto ciò che fa avanzare l’organizzazione del lavoro viene considerato fattore di progresso e incluso tra le « forze produttive ». Nelle concezioni soggettiviste a cui abbiamo appena accennato, tutto viene invece ricondotto sotto il concetto di « rapporti di produzione »: non solo la « sovrastruttura » giuridica e culturale, ma anche la scienza, la tecnica, lo sviluppo tecnologico, l’organizzazione del lavoro, il concetto di ragione e lo stesso proletariato, da una parte idealisticamente mitizzato come « Classe », dall’altra ridotto alla sua bruta natura di « forza-lavoro », massa inerte a disposizione dello sviluppo capitalistico.
Non è un caso che tutte le componenti di questa reazione soggettivista ricompaiano oggi in un unico guazzabuglio: dalle civetterie con l’autogestione di matrice francese, all’esclusivismo sul problema della organizzazione del lavoro di marca PdUP, alle teorizzazioni interclassiste — o meglio, aclassiste — sulla « società formata », alla critica del consumismo e alla fustigazione dei costumi, ad una definizione della crisi che prescinde dalla evoluzione storica del modo di produzione capitalistico, per finire con il più totale disorientamento sul problema delle forze produttive e dei rapporti di produzione, e quindi con la rinuncia al concetto stesso di autonomia operaia: tutti ingredienti di quell’eclettismo senza principi che nella « elaborazione » teorica del PdUP-Manifesto ha trovato la sua espressione più compiuta.
Se andiamo alle radici di questo disorientamento, vediamo che in una maniera o nell’altra tutte queste concezioni eludono il problema della crisi; si precludono così la possibilità di fondare una teoria dinamica, e quindi storicamente determinata, e non statica, cioè fuori della storia, della contraddizione tra borghesia e proletariato. Manca la capacità di individuare, all’interno del modo di produzione capitalistico, il fondamento dell’antagonismo tra le classi. Questo fondamento sta nelle condizioni materiali del proletariato, nel suo essere merce tra altre merci; ma ciò rimanda automaticamente all’esistenza del mercato, alla sua anarchia e alle sue contraddizioni; che è appunto quanto le teorie soggettiviste hanno espunto dal loro orizzonte teorico, o perché non l’hanno nemmeno preso in considerazione, o perché l’hanno considerato superato dall’avvento del « piano del capitale ».

Le condizioni della ripresa

Nonostante le distorsioni operate dai suoi epigoni, l’opera di Raniero Panzieri ha avuto una profonda e decisiva influenza nella formazione della sinistra rivoluzionaria italiana. Negli anni del soggettivismo imperante, che vanno dalla scelta boliviana di Che Guevara all’esplosione del movimento studentesco ed alla proliferazione delle formazioni della sinistra rivoluzionaria, una discriminante di fondo passa tra le formazioni cosiddette « m-l », in realtà dommatiche e staliniste, e quasi tutte le altre.
Le prime, in una versione infantile e fantastica del pensiero di Mao, non hanno saputo trovare altro che uno schermo per precludersi qualsiasi rapporto con lo sviluppo della realtà e della lotta di classe. Le seconde, chi più e chi meno, chi in modo meno rigido e chi in modo più dogRmatico, trovano tutte un loro punto di riferimento nell’opera di Raniero Panzieri, variamente mescolata con altri filoni teorici e culturali di prevalente derivazione terzinternazionalista o revisionista. Il contributo di Raniero Panzieri è stato quello di spianare la strada alla riscoperta della autonomia operaia, indicando alle successive generazioni rivoluzionarie dove essa andasse cercata: nei rapporti di produzione e nella loro evoluzione.
È il poderoso sviluppo dell’autonomia operaia negli anni ’68 e ’70 che permette di rimettere sui piedi, cioè di rifondare materialisticamente, quella teoria che la reazione soggettivista alla concezione revisionista delle « forze produttive » aveva finito per far camminare a testa in giù.
In questo incontro fecondo con la realtà della lotta di classe si sviluppò nella pratica una decantazione di quelli che erano gli aspetti positivi e giusti delle teorie precedenti: la critica della organizzazione capitalistica del lavoro da un lato; la ricerca di una definizione dello scontro tra le classi che permettesse, in ogni fase, di identificarne gli interessi fondamentali ed i rapporti di forza reciproci, dall’altro.
Questo incontro, anche se per molto tempo si rimarrà lontani dalla capacità di coglierne tutte le implicazioni teoriche, avviene in una ridefinizione del salario come terreno fondamentale di scontro tra operai e capitale in quella fase.
Da un lato infatti il salario, inteso come prezzo della forza-lavoro, rimanda alla natura di quest’ultima, di merce, cioè, tra altre merci; e quindi riapre la strada ad una analisi delle contraddizioni del capitalismo che non può più prescindere dall’esistenza del mercato; in ultima analisi, rimanda ad una teoria della crisi.
Dall’altro lato, l’analisi della struttura del salario, cioè della sua composizione interna (parte fissa, parte variabile, incentivi, ecc.) mette direttamente in relazione lo scontro sui problemi della organizzazione del lavoro, di cui la struttura del salario non è che una sedimentazione storica, con il mercato e il suo funzionamento; facendo così superare quella dimensione puramente aziendale che la critica all’organizzazione del lavoro rischiava di trascinarsi dietro come suo connotato permanente.
Le tappe di questa riscoperta teorica e le battaglie che l’hanno accompagnata sono parte della storia di Lotta Continua; dei contributi teorici che in essa sono confluiti o che di essa si sono alimentati il più fecondo, per quanto viziato da deprecabili imbalsamazioni accademiche, è forse il rinnovato interesse per il mercato del lavoro, per le sue articolazioni interne, per la sua evoluzione storica. Nelle parti migliori di questi studi, quella che si suole chiamare la « rigidità del lavoro », cioè la forza conquistata dalla classe operaia sul terreno della lotta contro l’organizzazione capitalistica della produzione, viene messa in connessione diretta, anche se non meccanica, con l’evoluzione storica del mercato del lavoro e, quindi. con il ciclo capitalistico e con la crisi; permettendo così di ritrovare il nesso tra ciò che costituisce il nucleo irriducibile dell’autonomia operaia e la crisi che il sistema capitalistico sta attraversando a livello mondiale.

LOTTA CONTINUA
Tesi approvate dal I Congresso nazionale, Roma, 7 – 12 gennaio 1975

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Comunismo e comunisti

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