La fragilità democratica alla prova dei sovranismi moderni

La parola “democrazia“, soprattutto se attribuita a forme di Stato repubblicane, lascerebbe ingannevolmente intendere che, una volta conquistata l’emancipazione di un popolo da qualunque tipo di autocrazia, dittatura, oppressione...

La parola “democrazia“, soprattutto se attribuita a forme di Stato repubblicane, lascerebbe ingannevolmente intendere che, una volta conquistata l’emancipazione di un popolo da qualunque tipo di autocrazia, dittatura, oppressione oligarchica o totalitarismo pluricromato, si sia in presenza di un punto di irreversibilità della storia: una volta arrivati al “potere popolare“, cosa può esservi di più liricamente alto nella gestione della cosa pubblica, nel rapporto tra la massa e chi la guida?

Tutti i termini che racchiudono in sé grandi espressioni concettuali, che possono essere declinate in mille interpretazioni differenti a seconda dei contesti in cui vengono utilizzate e – in particolar modo – da chi vengono citate e stracitate, hanno la sorte di cadere sotto la mannaia del fraintendimento (nel migliore dei casi) o dell’abuso incondizionato (nel peggiore dei casi).

Dopo la Guerra d’indipendenza, gli Stati Uniti d’America si proclamarono felicemente come una nazione pienamente sovrana, includente e rispettosa delle differenze: uno stato federale, uno stato moderno per quella fine di Settecento dove in Europa si contavano solo monarchie assolute tranne, se vogliamo essere giusti e onesti, il Regno di Gran Bretagna che aveva fatto la sua personalissima guerra civile per mettere al centro della vita del paese il parlamento al posto del re.

Col passare dei decenni, le contraddizioni della prima grande democrazia del mondo (ci perdonino gli ellenici dell’antichità…) vennero tutte quante ad emergere nel mare dei rapporti economici tra vecchio e nuovo mondo: si trattava di allargare la sfera di influenza di Washington e farsi largo tra i campi coloniali francesi, spagnoli e ancora inglesi (nonché portoghesi in quello che sarebbe stato chiamato il “giardino di casa“, l’America Latina). La democrazia, ricca di tutte le buone intenzioni dei padri pellegrini e fondatori, perse a poco a poco la baldanza tracotante di chi la voleva a tutti i costi imperturbabile, granitica e imperitura, per lasciare posto ad una mestizia languida, ovvia reazione alla prepotenza economica capitalista.

Democrazia e capitalismo dovrebbero essere una contraddizione in termini, eppure abbiamo potuto osservare nel corso dei secoli che possono coniugarsi anche molto efficacemente: in particolare quando la prima diviene un ottima scusa per irrigidire i sistemi repressivi interni nel nome della sicurezza esterna; oppure quando, innanzi ad un nemico che viene dal resto del mondo, si intraprendono guerre imperialiste proprio per “esportare la democrazia“. Dipende, ovviamente, da quale tipologia di democrazia si intende far arrivare ai popoli di cui si vogliono sfruttare a pieno le terre, le risorse naturali e le deboli strutture economiche da riconvertire sul modello dei “liberatori“.

Per oltre due secoli gli Stati Uniti d’America si sono fregiati del titolo di “democrazia” per antonomasia, per una eccellenza riconosciuta da mezzo mondo solo in virtù della potenza crescente in campo economico e militare. Non che sia poco! Si intende… Ma se proprio bisogna diventare la quintessenza democratica, superando persino il mito ellenico, allora uno Stato dovrebbe, per essere e dirsi uniformato al “potere popolare“, riuscire a fare una rivoluzione che lo astragga dal contesto capitalistico globale, iniziando un percorso di contaminazione sociale che sia l’esatto opposto di quello che oggi intendiamo per “democrazia” quando la citiamo spesso e volentieri nei discorsi che riguardano celebrazioni formali di altrettanto formali libertà.

Le libertà democratiche includono la delega parlamentare, che è espressione diretta della sovranità del popolo nella repubblica (nella monarchia il discorso si ferma davanti alla figura del sovrano che rappresenta non un quisque de populo, ma, nonostante tutte le limitazioni del caso, un primus inter pares, una eccezione irriducibile al grado di uguaglianza sociale, civile e morale incarnata dal comune cittadino).

Proprio la sovranità popolare è al principio delle moderne sovrastrutturazioni democratiche degli Stati e si concretizza attraverso regole che chiamiamo “leggi elettorali” che sono sovente uno strumento di potere mascherato, un tentativo di inquinamento del processo egualitario di scelta dei propri rappresentanti quando vengono disposti tanti e tali correttivi da favorire il più forte rispetto al debole, il più ricco rispetto al povero, il più già rappresentato in parlamento rispetto a chi aspira ad esserlo.

La democrazia americana, a ben vedere, zoppica vistosamente proprio nel sistema elettorale che è ormai decrepito e inefficace nel contrastare tutti i tentativi di sovversione dell’ordinamento federale, dell’equilibrio tra i poteri e della stabilità sociale.

Se corrispondono al vero le notizie pubblicate in queste ore sui più grandi quotidiani americani, il “The New York Times” e il “Guardian“, l’ex presidente Donald Trump aveva ispirato le sue mosse elettorali e post-voto nel 2020 all’«Election Fraud, Foreign Interference & Options for 6 Jan». Un piano di vera e propria eversione antidemocratica (letteralmente e latamente intesa: contro lo Stato e contro i vincitori legittimi delle elezioni, Biden, Harris e il partito dell’asinello) che prevedeva in 38 pagine una serie di contromisure da mettere in pratica per rimanere alla Casa Bianca illegittimamente e, quindi, del tutto illegalmente sovvertendo la volontà popolare.

E’ chiaro che, oltre alla giusta colpa da attribuire alla vetustità ed inadeguatezza delle legge elettorale dello Zio Sam, va chiamato in causa un intero apparato amministrativo che, obbediente alle più spregiudicate regole del liberismo, ha finito con lo smarrire i pesi e contrappesi previsti nella costituzione federale e nel più vasto impianto regolatore della vita dei singoli Stati nell’Unione. I condizionamenti esterni non sono mancati durante la campagna elettorale Biden – Trump, ma non c’è dubbio che il pasticcio più importante, il cortocircuito che poteva essere letale per la repubblica americana era tutto interno.

L’assalto a Capitol Hill avrebbe dovuto essere uno tra altri atti devastanti, destabilizzanti e volti a paralizzare la macchina di conferma della volontà popolare: la proclamazione da parte di Trump dello stato di emergenza avrebbe aperto le porte ad una sommossa dei suoi sostenitori per dichiarare, alla fine, un broglio elettorale, una congiura, una cospirazione democratica contro di lui, contro i repubblicani e, quindi, contro tutta quella larga fetta di popolazione che lo aveva sostenuto.

La spaccatura verticale si sarebbe aperta come una voragine e avrebbe magari innescato anche scenari da guerra civile moderna, fatta a colpi tanto di social network quanto di incendi improvvisi nelle più grandi città degli USA. Leggendo le pagine del rapporto consegnato proprio da un collaboratore di Trump alla commissione del Congresso che indaga sui fatti che hanno come emblema ancora oggi lo sciamano nelle sale eleganti di Capitol Hill, se ne ricava la sensazione che la tenuta del sistema è stata possibile grazie al rischio che avrebbero corso gli Stati Uniti sul piano internazionale piuttosto che su quello strettamente interno.

Benché alla fine tutto (o quasi) sia andato come l’esito del voto aveva decretato, non si può certo affermare che la democrazia ha salvato la repubblica stellata. I timori economici, di un tracollo delle borse, di un periodo di latenza e di incertezza interessato da contrapposizioni detonanti, hanno contato di più delle regole scritte di un sistema la cui pluricentenarietà non è garanzia di stabilità e di incontrovertibilità delle conquiste sociali e civili.

I sovranismi sono fedeli ad un conservatorismo che piace al liberismo per la sua capacità di innovarsi mantenendo inalterati i presupposti dei rapporti di classe, della classe dominante si intende… E per questo sono i migliori alleati dei processi di contenimento della disperazione che investe mercati, borse e flussi finanziari ciclicamente. La pandemia ha gettato nel panico il capitalismo e lo ha costretto a ripensarsi per sopravvivere, ovviamente sempre e soltanto a scapito di miliardi di salariati e di indigenti.

Se per mantenersi tale fosse necessario affidarsi anche al peggiore partito sovranista, chiedendogli di mantenere formalmente la democrazia e sostanzialmente stravolgendola e capovolgendola, possiamo essere certi che la saldatura tra economia e politica sarebbe pressoché totale, indissolubile. E’ un pericolo che gli Stati Uniti hanno corso con il disarcionamento di Trump dalla Casa Bianca e che alcuni Stati europei corrono oggi, rischiando di infettare l’intera UE.

Non bisogna mai dare nulla per scontato: tanto meno la “sacralità” imperitura della democrazia…

MARCO SFERINI

12 dicembre 2021

foto: screenshot

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