Il fallimento del marxismo secondo Michele Serra

Piazzapulita, giovedì 22 febbraio. Tra i tanti programmi di approfondimento politico che pullulano sulle reti nazionali, quello di Corrado Formigli è il più godibile: non si urla quasi mai,...

Piazzapulita, giovedì 22 febbraio. Tra i tanti programmi di approfondimento politico che pullulano sulle reti nazionali, quello di Corrado Formigli è il più godibile: non si urla quasi mai, se non un po’ nella seconda parte in cui si anima il tavolo degli ospiti.

Non si ha l’impressione della faziosità che altrove regna sovrana, ed ognuno può, fatta la debita tara tra le opinioni del conduttore e le proprie, farsi una idea sufficientemente oggettiva tanto delle pozisioni dei vari partiti nelle contese della settimana quanto dei grandi temi che imperversano internazionalmente.

Ogni due settimane circa, puntuale, Michele Serra è l’ospite che apre le danze, dopo l’editoriale di Formigli. Con i dovuti distinguo, ha un po’ il ruolo di Mauro Corona nel contenitore di Bianca Berlinguer: l’opinionista a cui viene sottoposto quasi tutto lo scibile del momento.

Ci sta: la tuttologia è – come ripeteva spesso Carmelo Bene – una vera e propria cazzata, ma ognuno di noi avrà pure il diritto di dire come la pensa su quello che vede, sente, percepisce e che gli si offre su piatti d’argento e d’oro per poter essere gustato alla mensa del democraticamente corretto.

Dalle pagine de “la Repubblica” a La7, Michele Serra più che dari giudizi, espone quello che è il suo punto di vista. Alcune volte lo si può condividere, altre meno. Generalmente, azzardiamo una percentuale, nella metà abbondante dei casi si può essere d’accordo con lui. Nel quarantanove percento restante decisamente no.

Ed è di uno di questi momenti di disaccordo che è interessante scrivere qui. Discorrendo della situazione mondiale ed europea, passando per le elezioni tanto continentali quanto regionali, Serra fa un excursus che va dalla paventabile rielezione di Trump alla Casa Bianca fino agli effetti che avrebbe nella guerra in Ucraina.

Poi entra nel merito del voto regionale sardo e, bisogna in questo riconoscergli una certa coerenza molto datata nel tempo, conferma la sua tendenza bipolarista: per vincere, la sinistra (o centrosinistra che dire si voglia, anche se va sempre meno di moda) deve essere tutta, tutta, ma proprio tutta unita. Là dove per unità leggasi anzitutto che non vi siano altri competitor nel mezzo, tertium non datur tra polo a trazione PD e polo delle destre.

Il fatto che Soru si sia candidato e abbia formato una coalizione (a dire il vero un po’ bizzarra) con forze che vanno da Azione di Calenda a Rifondazione Comunista, e che questa abbia una impronta decisamente progressista, fa saltare la mosca al naso all’ex direttore di quella grande genialata satirica che fu “Cuore“.

Nonostante la presenza dei calendiani nella coalizione, Serra vede nel progetto di Soru il solito grimaldello per far perdere quella che lui considera l’unica chance possibile per la sinistra: la vittoria dell’altra coalizione formata da PD, socialisti, Europa Verde, Sinistra Italiana e varie liste civiche, oltre che dal movimento Cinquestelle (motivo per cui Calenda starebbe con Soru).

E fin qui gli si può rimproverare al massimo di ripetere la stanchevole litania del voto utile come panacea di nessun male, dell’anatema rivolto sempre e soltanto contro la sinistra considerata estrema, radicale, utopista, eccetera, eccetera. Ma, siccome i cattivi pensieri, come le disgrazie, non vengono mai da soli, il giornalista ci mette il carico da undici.

Proprio non riesce a capire perché Renato Soru si sia candidato e, siccome l’incomprensibilità è, di per sé stessa, incomprensibile perché sfugge a quella razionalità di calcolo matematico – elettorale che Serra vorrebbe come bilancia su cui soppesare un elettorato polarizzabile soltanto tra due opzioni (la logica veltroniana dell’alternanza, così tanto democratica ed americaneggiante da far rischiare oggi agli Stati Uniti una nuova presidenza trumpiana…), l’analisi deve entrare in una sorta di dimensione metafisica.

Dalla pura e semplice valutazione dei rapporti di forza e delle relazioni che intercorrono tra le formazioni politiche sarde, il corsivista de “la Repubblica” passa ad una sorta di introspezione psicoanalitica di sé stesso: «Per carità, ho sbagliato anche io», dice e lo fa nel momento in cui afferma di essere stato marxista, di aver scritto, militato e quindi sostenuto le liste del PCI.

Di avere, in sostanza, parteggiato per quella sinistra comunista che nell’ieri post-caduta del muro e nell’oggi meloniano gli sembrava e gli sembra troppo autoreferenziale, masochista, con la sindrome della scissione permamente, tanto da dileggiarla nei suoi elzeviri taglienti, ridicolizzando ciò che, in molte circostanze, non aveva bisogno di essere così ridicolizzato. Già tanto c’aveva messo del suo.

L’autoanalisi, poco consolatoria per sé stesso e pure per noi, arriva però al punto focale, alla dichiarazione che diviene la sentenza sulla storia di un movimento filosofico, economico, scientifico, culturale, politico e sociale che, in quattro e quattr’otto è condannato ad una nemesi quantomeno anti-ideologica (va di moda tutt’ora…): «I marxisti hanno sbagliato tutto, me compreso. Hanno pensato che fosse la struttura economica il vero motore della società. Più campo e mi rendo conto che è l’animo umano. Il mistero dell’animo umano e della vanità umana. Soru sa benissimo che non potrà mai vincere queste elezioni».

L’ultima proposizione è una sorta di verità rivelata, da non si sa bene quale fonte ispiratrice, ma lo è: l’ancestralità dei nostri sentimenti più reconditi è un dato di fatto. Non serve scomodare Freud, Jung, Hillman ed altri padri nobili della psicoanalisi per arrivare a questa conclusione che riguarda l’introspezione invisibile se non mediante le immagini oniriche e il dialogo con i terapeuti. Ma per il resto, il vero mistero rimane quello del disconoscimento dell’elemento strutturale dell’economia dal tutto.

Nemmeno Adam Smith si sarebbe sognato di affermare che sono le pulsioni nostre a determinare, da sole, come nuovo elemento strutturale, al posto dell’economia, il corso della Storia dell’umanità.

Se così fosse, sarebbe molto più pericoloso pensare ad una trasformazione sociale in chiave anche solo timidamente riformista, perché se la politica e le relazioni che ne conseguono non fossero fortemente legate agli aspetti di natura economica, dovremmo trarre la conclusione che la povertà crescente non è causata dallle scelte di pochi fatte sulla pelle di tantissimi altri, ma dal capriccio di questo o quel politico.

Quella di Michele Serra non è nemmeno una traduzione romantica dell’idea di evoluzione, così come di quella del contraltare involutivo: è una sconfitta ideologica personale, nel non riuscire più a credere che questa società possa essere radicalmente rovesciata, ma nell’avere invece da molto tempo abbracciato un’altra ideologia che empatizza con il liberalismo democratico e che, pertanto, fa del pragmatismo l’unica sorgente interpretativa dell’oggi.

Ma cosa c’è di più pragmatico delle cifre che ci dicono del disastro epocale provocato dal capitalismo liberista in questi ultimi cinquant’anni, a partire dalla metà degli anni ’70 del secolo scorso fino ad oggi? Cosa c’è di più pragmatico del rendere assolutamente evidente il fallimento del sistema dei profitti e delle merci nell’aver ridotto il pianeta ad un luogo da sfruttare in tutto e per tutto, antropocentricamente, tralasciando qualunque altro interesse veramente globale?

Cosa c’è di più pragmatico se non ricordare che su otto miliardi di abitanti umani della Terra sono solamente una manciata quelli che accumulano le ricchezze prodotte da almeno due miliardi e mezzo di salariati (e quindi di sfruttati)?

Tutte queste considerazioni, che dovrebbero rispondere ad un criterio di empirica oggettività, quindi di una reiterata dimostrazione di quello che il sistema capitalistico provoca ogni giorno in ogni parte del pianete, per Michele Serra sono evidentemente al di là del principio marxista di dipendenza delle sovrastrutturalità socio-politico-culturali dalla struttura economica.

Indubbiamente si può ritenere che Marx abbia sbagliato, che non sia così; che quindi sia ciò che noi proviamo interiormente a determinare gli scatti in positivo o in negativo tanto della politica nazionale e internazionale quanto dell’andamento dell’economia. Ma, obiettivamente, in mancanza di una verifica oggettiva e “scientifica“, quindi prove alla mano, risulta davvero molto difficile poter condividere l’assunto serriano sull’errore di fondo del marxismo.

Basta, molto banalmente, guardare le nostre singole e singolarissime esistenze: se i rapporti economici fossero in secondo piano e dipendessero quindi dal nostro umore e dalle nostre passioni, così come le nostre scelte di lavoro o di vita, allora basterebbe alzarsi ogni mattina col sorriso sulle labbra e una buona dose di (ragionevole o meno) ottimismo per far andare tutto liscio.

Può essere un atteggiamento filosoficamente e religiosamente appagante, un modo di rapportarsi con il resto del mondo in quella culla armonica che il buddismo suggerisce meglio del cristianianesimo, con una dose di atarassia tale da distaccarsi dalle passioni più negative e cercare sempre e soltano il bene ovunque e in chiunque. Ma questo, purtroppo, non determina il corso degli eventi.

Le parole di Michele Serra avrebbero un senso più compiuto se avessero voluto significare un fallimento storico delle idee e della praxis anticapitalista. Se ne potrebbe discutere tanto, per l’appunto storicamente, quanto socio-politicamente e persino antropologicamente. Ma non è davvero possibile affidare le sorti dell’umanità alle sole passioni espresse dall’essere umano.

Le guerre non si fanno soltanto perché qualcuno si incapriccia di conquistare un territorio o di espandere un impero; si fanno soprattutto perché si vuole ampliare un potere che è anche politico, ma che è soprattutto conquista economica e militare. Il dominio imperialistico risponde a criteri non empatici o antipatici di questo o quel presidente, re, imperatore per altri sovrani, capi di Stato, ma alla precisa volontà di aumentare le ricchezze e di preservare al meglio sé stessi e la nazione a dispetto di altre.

Va bene la necessità di sintesi in un botta e risposta con Corrado Formigli, ma dire che la sconfitta del marxismo e dei marxismi è data dall’errore di valutazione sulla gerarchia tra struttura economica e sovrastrutture ideali, politiche, sociali e culturali, è assumersi l’onere di provare che le cose vanno proprio come ha detto Serra.

Perché dover negare così tanto il proprio passato di sinistra e di critica al sistema capitalistico, tanto da scadere in queste ingenuità volute? Per un bisogno di dimostrare ancora una volta che non si è dei trinariciuti comunisti moderni legati ad un tempo affidato agli scissionismi perversi del progressismo novecentesco? Per la necessità di dire e ridire che da giovani si è un po’ tutti scanzonati e disincantati rivoluzionari, mentre da vecchi si diventa saggi e pragmatici assertori del moderatismo e del compromesso?

C’è davvero questa necessità di negare anche l’evidenza e affidarsi ad una lettura tutt’altro che romantica del presente? Se noi marxisti abbiamo fallito nell’attribuire alla struttura economica il principale ruolo di condizionamento di ogni rapporto sociale e singolare tra gli individui presenti sul pianeta, chi ha avuto ragione? Il capitalismo che muove dalla premessa di essere, in quanto struttura economica, il motore di tutto?

Forse Michele Serra vuole affermare che c’è una forza tanto più grande del capitalismo da condizionarlo e che questa è la passione interiore che proviene dall’animo umano?

Purtroppo i rapporti di forza tra le classi non sono risolvibili con il solo intento benevolo, con un proselitismo delle anime belle presenti nelle nostre recondità e nelle nostre coscienze. Non sono sufficienti a mettere fine alle ingiustizie che ogni giorno si moltiplipicano ovunque. Sono un punto di partenza per avviare un criticismo che deve dare a tutto ciò che ci sta intorno il nome e il ruolo corretti.

L’economia è, laddove si forma il “sovraprodotto sociale” e, quindi, alla fine si genera il profitto e con esso il potere che lo difende e gli obbedisce, il basamento su cui una società può evolvere o involvere. Dipende non solo dai punti di vista della mente e del cuore, ma dal modo in cui queste osservazioni sono oggettive nell’essere critiche.

E per critica qui si intende il cercare sempre di capire dove sta il “cui prodest“. Va bene tutto, va bene anche il riformismo che prova a riscattare quelli che vengono vissuti come gli “errori di gioventù”: ma alla veneranda età di settant’anni si potrebbe forse riconoscere che le ragioni per cui un tempo si era comunisti non sono affatto venute meno.

Perché la povertà di moltissimi aumenta così come aumenta la concentrazione di immense ricchezze in mano a pochissimi e sempre e soltanto trasformando tutto in merce, in qualcosa che ha un prezzo e un costo salato in termini di vite e di sfruttumento. L’animo umano è una nobile citazione di sé stessi, ma sta nel campo della metafisica, della concettualità un po’ trascendentale e che è definibile in quanto tale proprio perché non vive di sé stesso ma attraverso il contatto col resto dell’umanità e dell’animalità.

Il motore della società è un misto tra interessi economici, passioni, emozioni, voglie, desideri. Purtroppo, per come stanno le cose da qualche secolo a questa parte, ciò che vogliamo non corrisponde a ciò che possiamo avere se non tentiamo di rovesciare i rapporti di potere che, alla fine, rispondono ai rapporti che intercorrono tra utilità di qualcosa e possibilità di scambiarla con qualcos’altro.

La storia dell’economia, dal baratto al liberalismo, è storia di rapporti di potere. E’ lotta. Lotta tra le classi. Persone che vivono le loro emozioni ogni giorno e, certamente, molte decisioni sono anche frutto di condizionamenti emotivi. Ma quanto questi dipendano da scelte di sopravvivenza e quanto da scelte che determinano sempre maggiore potere e ricchezze, possiamo dirlo con assoluta certezza?

Non con matematica certezza. Ma i capitali che si accumulano giorno dopo giorno non sono lì perché qualcuno è più cattivo di qualcun altro. Ognuno risponde al ruolo che ha in questo sistema economico. L’animo umano, purtroppo, ha davvero poco a che fare con il complicato intreccio di meccanismi che il capitalismo muove.

Qualcuno deve pur gettarla della sabbia in questi ingranaggi. Anche a costo di apparire folle oggi, un po’ come lo apparivano i marxisti di ieri e come, secondo Michele Serra, sembrano esserlo soprattutto oggi.

MARCO SFERINI

24 febbraio 2024

foto: screenshot ed elaborazione propria

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