Dal Forum Ambrosetti alle riforme impossibili (per questo governo)

Il convitato di pietra al Forum “The European House – Ambrosetti” a Cernobbio è il Covid-19. Non siede in nessuna prima fila ma aleggia nella sala con la sua...
Il Forum Ambrosetti 2020

Il convitato di pietra al Forum “The European House – Ambrosetti” a Cernobbio è il Covid-19. Non siede in nessuna prima fila ma aleggia nella sala con la sua ombra gettata sui fatturati delle imprese che, secondo le stime attuali, rischiano per un quinto la chiusura e per il 30% gravi difficoltà economiche.

Del resto, la caduta verticale del Prodotto Interno Lordo si abbatte non solo sui dividendi aziendali ma principalmente sul futuro dei lavoratori: all’ILVA di Taranto la preoccupazione è per i milioni di debiti che l’azienda ha verso i fornitori e, quindi, per la ripercussione che ne deriverebbe in termini occupazionali. A rischiare sono circa 12.000 operai che non hanno certezza in possibili grandi fonti di risparmio, come quelle padronali.

Il rapporto del Forum Ambrosetti definisce quella attuale «…la terza contrazione economica peggiore a partire dell’Unità d’Italia», quindi da 160 anni (quasi) a questa parte. Pesa infinitamente la sequela di lustri in cui l’aumento del PIL ha viaggiato ben al di sotto della media europea (lo 0,4% italiano contro l’1,6% continentale); quindi una instabile e stagnante crisi economica di lungo periodo si è andata a sommare agli effetti della pandemia che, del resto, non è escluso provochi altre chiusure totali, altri pesanti rallentamenti produttivi e compressioni dei livelli occupazionali.

In questo contesto, fortemente preoccupante per il mondo del lavoro e per tutto il corollario di precarietà che gli gravita attorno, l’azione di contenimento della crisi è affidata per parte goverrnativa all’utilizzo del Recovery Fund e dalla detassazione dei profitti che le aziende garantiranno come reinvestimenti. Misure insufficienti per affrontare l’enormità dell’impatto antisociale cui assisteremo nei prossimi mesi e che non sarà assorbito nemmeno dalla ripresa dei consumi avvenuta dopo i mesi di quarantena.

La debolezza strutturale del salario sarà il primo elemento cui si aggrapperanno gli industriali, come del resto ha già esplicitamente dichiarato il presidente di Confindustria Boccia, per “rivoluzionare” i rapporti di produzione e creare ancora maggiore dipendenza del lavoro nei confronti del padronato. Il tutto inserito nella contesa economica che riguarda i vari poli capitalistici dentro una globalizzazione che sta ridefinendo le aree di sviluppo massivo da e verso l’Europa: si pensi, anzittutto, alla cosiddetta “via della Seta” moderna e agli interscambi che anche in questi giorni vi sono stati tra Italia e Cina in merito.

La crisi dettata dalla pandemia – si afferma nel rapporto del Forum Abrosetti – «andrà a impattare sui conti pubblici di vari Paesi, con rapporti deficit/Pil destinati a crescere in tutte le economie coinvolte». E’ quindi del tutto demagogico sul piano politico fantasticare di uscite dalla crisi in tempi brevi, visto che si parla di almeno 40 anni per poter estinguere il debito che contrarremo come Paese nei confronti dell’Unione Europea, sommando i prestiti del Recovery Fund alla diluizione dei pagamenti delle aziende verso i propri fornitori.

Se non si può parlare di crisi strutturale del capitalismo internazionale, di sicuro si può fare cenno ad un sommovimento tellurico abbastanza di rilievo per quanto riguarda l’ambito nazionale che risente, come detto all’inizio, di una accumulazione pluridecennale di politiche economiche tutt’altro che espansive, che si sono limitate a far vivacchiare la tenuta complessiva del mondo produttivo mediante sovvenzioni di Stato che hanno garantito il cosiddetto “rischio di impresa” su un arco di tempo relativamente breve e, per questo, profondamente miope per quanto concernesse prospettive e programmi di riconversione aziendale di lungo termine.

Nonostante le scelte politiche possano apparire quasi irrilevanti davanti al giganteggiare dei numeri globali del mercato, avrebbero invece una efficacia notevole se contribuissero non a normalizzare la situazione, così, semplicemente, bensì a capovolgere le prospettive di uscita dalla crisi tanto di Confindustria quanto degli altri grandi gruppi aziendali che dominano la scena nazionale ed Europea: questo potrebbe avvenire soltanto con una espressione diamentralmente opposta alle attese padronali.

Ad esempio proponendo una riduzione generalizzata dell’orario di lavoro a parità di salario unitamente ad una introduzione di una tassazione patrimoniale che prescinda dai redditi da capitale del 2020 ma che interessi tutti quelli precedenti (pur considerando il fatto, non certo secondario, che molti grandi manager hanno visto margini di utile ben superiori a quelli dell’annata precedente nonostante il Covid-19: si tratta per lo più di aziende che operano nella vendita via Internet e nel supporto che la rete dà a servizi di varia natura, anche associati a forme di lavoro da casa e allo sviluppo della didattica da remoto).

Solamente con queste due riforme, si metterebbe in crisi la parte più garantita del capitalismo italiano: garantita nella tutela dei profitti da nuove tassazioni; garantita nel ricevere finanziamenti non “a pioggia“, ma esclusivamente rivolti alle aziende, escludendo quindi qualunque tutela sociale che – direttamente o meno – porti ad esempio ad un rialzo dei consumi senza dover costringere i lavotatori e chiunque faccia fatica a sbarcare il lunario a dover attingere dai risparmi residui o dall’ennesimo prosciugamento di una capacità di spesa già molto macilenta.

Ma questa particolare forma di crisi del capitalismo non sarebbe tanto economica quanto “ideale“, legata alla messa in discussione delle ferree leggi ispirate dal rinnovamento costante dell’anarchia di mercato: dalla sottrazione di vincoli di interesse comune, politica costante del mondo imprenditoriale contro quello del lavoro e del sociale in generale, alla costrizione a gestire la crisi non solo dal punto di vista padronale a scapito dei lavoratori, ma semmai – quanto meno – comunemente.

Una comunione di rischi che resta sempre a svantaggio della grande massa di salariati e di precari, a meno che non sia l’inizio di una politica tanto di governo quanto sindacale che si unisca in una proposta veramente “rivoluzionari” per il mondo del lavoro. Una proposta che questo governo non vuole fare e non può fare se vuole continuare ad essere interprete di una sorta di impropriamente detta “pace sociale” che assecondi la stabilità dell’esecutivo da un lato con il consenso padronale dall’altro.

Un governo liberista, fintamente di centrosinistra, molto populista e per niente sociale, non farà mai una riforma che tagli davvero i privilegi: quelli di classe. Preferiscono piuttosto far finta di risparmiare tagliando il Parlamento e mostrare questa come grande rivoluzione di onestà nel Paese.

L’onestà. Questo concetto morale così avulso dal mondo imprenditoriale che non conosce – e non può non essere altrimenti – nessuno scrupolo, ma solo interpreta il suo ruolo in un sistema che soprattutto oggi ancor più di ieri, come certificato anche dal Forum Ambrosetti, renderà sempre più poveri coloro che già lo sono: e non si tratta, per quanto se ne possa dedurre inavvertitamente, dei padroni…

MARCO SFERINI

4 settembre 2020

foto: screenshot

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