Il primo a restare sorpreso per la sua vittoria è stato proprio Javier Milei: se fosse arrivato al 20% delle preferenze, aveva detto, sarebbe stato un successo. Primo con oltre il 30% dei voti alle primarie di domenica in Argentina, l’economista ultraneoliberista può guardare ora con rinnovate ambizioni alle presidenziali di ottobre.

E sono in molti a chiedersi se dietro il voto per il candidato di estrema destra ci sia qualcosa di più di una variante particolarmente aggressiva del que se vayan todos, legata ai suoi furiosi attacchi contro la casta dei politici da prendere «a calci in culo» (con le sole eccezioni di Carlos Menem e di Mauricio Macri).

Impensabile che l’istrionico candidato di La Libertad Avanza, per il quale persino la vendita di organi costituirebbe un’espressione come un’altra del mercato, possa offrire risposta a un popolo stremato dai micidiali effetti dei programmi di aggiustamento imposti dal Fondo monetario internazionale, nel quadro dell’accordo raggiunto con il governo Fernández, all’inizio del 2022, sulla ristrutturazione del colossale debito contratto durante la presidenza Macri.

Con tutte le sue conseguenze in termini di aumento del precariato, salari al di sotto della soglia di povertà per la metà dei lavoratori, piani assistenziali che non bastano neppure a coprire le necessità di base. Oltre a un’accelerazione del modello estrattivista predatorio ed ecocida, che ha prodotto le innumerevoli rivolte socio-ambientali che attraversano il paese.

Se sono proprio tali conseguenze a spiegare il deludente risultato, all’interno delle primarie di Unión por la Patria, del ministro dell’Economia Sergio Massa, il candidato gradito all’ambasciata Usa e al Fondo monetario, la ricetta di Milei – nel segno dell’individualismo più estremo, una sorta di «si salvi chi può» – è ancora più drastica: «L’Fmi non dovrebbe avere problemi con il nostro programma, considerando che noi proponiamo un aggiustamento fiscale molto più profondo del suo».

Piuttosto, se il voto per Milei è in grande misura un voto anti-sistema, ad attrarre una parte dell’elettorato è stata anche la sua promessa di usare il pugno di ferro contro il crimine – «No es mano dura, es mano justa», ha spiegato – tanto più di fronte all’impatto che ha avuto sul paese il caso dell’undicenne Morena Domínguez, morta in seguito all’aggressione di due criminali che volevano derubarla.

Non a caso, il candidato di estrema destra ha indicato il presidente salvadoregno Nayib Bukele come un esempio da seguire, inviando in El Salvador un suo deputato della provincia di Buenos Aires, Nahuel Sotelo, per studiare proprio quello che è stato definito come «sistema Bukele»: l’impressionante offensiva contro le bande criminali con cui il «dittatore più cool del mondo», come lui stesso si è definito, ha praticamente azzerato la presenza delle gang nei territori, ma nel più completo disprezzo dei diritti umani e della democrazia.

Cosicché dopo più di un anno e mezzo di regime di eccezione, grazie a cui polizia e militari possono arrestare chiunque appaia loro sospetto, 69mila persone – l’1% della popolazione – si trovano ora in carcere, spesso senza neppure sapere per quali reati siano accusate e altrettanto spesso vittime di maltrattamenti e torture.

Ma non è solo in Argentina che si guarda al modello «vincente» di Bukele. Molti sono i suoi ammiratori in Cile, dove la destra è riuscita a imporre la sua agenda securitaria di fronte alle crescenti preoccupazioni della cittadinanza riguardo all’aumento della criminalità nel paese. Già a settembre del 2022, infatti, l’ex candidato presidenziale di estrema destra José Antonio Kast si augurava su Twitter che il presidente salvadoregno, durante l’Assemblea delle Nazioni unite, desse a Boric «un paio di consigli su come affrontare la crisi di sicurezza in Cile»: «Mentre in El Salvador gli omicidi calano, in Cile sono fuori controllo».

Ed è comprensibile che ancora più consensi Bukele raccolga in Ecuador, il paese con il maggior aumento di omicidi in America Latina, dove il recente assassinio del candidato presidenziale Fernando Villavicencio ha portato ancor di più alla ribalta, alla vigilia delle presidenziali del 20 agosto, il tema della lotta alla criminalità in stile salvadoregno, di cui si è fatto portavoce in particolare l’imprenditore Jan Topic, già soldato della Legione straniera francese, soprannominato il «Bukele ecuadoriano».

Ma non è solo l’estrema destra a cedere alle sirene di una scorciatoia autoritaria in tema di lotta alla criminalità: anche in Honduras il governo progressista di Xiomara Castro, che pure aveva promesso di smilitarizzare la sicurezza pubblica e di adottare un approccio preventivo alla violenza, ha operato una svolta di 180 gradi, imponendo lo stato di emergenza, annunciando l’intenzione di costruire una nuova prigione per i criminali più pericolosi e soprattutto cominciando a mostrare le stesse immagini del paese vicino di detenuti con la testa rapata, seminudi e ammassati come animali.

L’idea delle enormi prigioni sul modello salvadoregno è approdata anche in Colombia, incontrando tuttavia il rifiuto indignato del presidente Petro, entrato recentemente in polemica proprio con Bukele riguardo alle strategie da impiegare per contrastare il crimine. In Colombia, aveva scritto su Twitter, «abbiamo ridotto i tassi di omicidi e violenza, non con mega carceri ma con scuole e università».

CLAUDIA FANTI

da il manifesto.it

foto: screenshot tv