Partitocrazia… magari!

“Rosatellum bis, atto di forza di una partitocrazia debole”: in questo modo il commentatore di Repubblica Giannini definisce il quadro all’interno del quale si è realizzato, almeno fino a...

Rosatellum bis, atto di forza di una partitocrazia debole”: in questo modo il commentatore di Repubblica Giannini definisce il quadro all’interno del quale si è realizzato, almeno fino a questo punto, il “colpo di mano” sulla legge elettorale da parte dell’allegra compagnia parlamentare di PD, centristi, Forza Italia, Lega Nord e seguaci di Pisapia mentre fuori dall’aula l’altrettanto allegra compagnia del M5S faceva chiasso per coprire l’incapacità (o la non volontà) di costruire un’opposizione seria.

I 5 stelle stanno anche cercando di impadronirsi di quanto è stato costruito da chi, invece, l’opposizione alle leggi elettorali di questa malnata fase della Repubblica l’ha fatta sul serio pur stando fuori dal Parlamento e portando sia il Porcellum, sia l’Italicum al giudizio della Corte Costituzionale: impresa (perché di vera impresa si è trattato) nella quale il Movimento 5 Stelle non ha avuto alcuna parte, di nessun tipo.

Ciò stabilito incontrovertibilmente incuriosisce il termine “partitocrazia” usato da Giannini: un termine che presupporrebbe l’esistenza di partiti. Andiamo però all’etimologia del termine.

Nel 1949, anno in cui è nominato preside della Facoltà di Scienze politiche “Cesare Alfieri” (lo rimarrà sino al 1968) Giuseppe Maranini (Genova, 16 aprile 1902 – Firenze, 25 giugno 1969) conia un termine che conoscerà un’enorme diffusione: partitocrazia. Il termine è contenuto nel titolo del suo discorso all’inaugurazione dell’Anno accademico 1949/50 dell’ateneo fiorentino: Governo parlamentare e partitocrazia.

Che cosa intendeva Maranini con partitocrazia?

Limitiamoci a riportare la definizione classica: “Predominio, strapotere dei partiti, che tendono a sostituirsi alle istituzioni rappresentative nella direzione e nella determinazione della vita politica democratica dello Stato”.

Da “Partitocrazia” derivarono poi altri termini per definire l’itinerario compiuto dalle forme parlamentari sulla strada del proprio cosiddetto “strapotere” fino ad arrivare a quel “consociativismo” ritenuto produttore- principe dell’innalzamento del debito pubblico fino a vertici stratosferici.

Debito pubblico al riguardo del quale (in coincidenza con fatti di grande portata a livello internazionale e interno che avevano toccato l’insieme del sistema politico: caduta del muro di Berlino, trattato di Maastricht, Tangentopoli) i nostri sapientoni avevano ritenuto dover modificare la legge elettorale (raccontando di semplificazione e alternanza) in senso maggioritario, pur lasciando sempre una riserva di tipo proporzionale.

Per poi modificare con un proporzionale corretto da un abnorme premio di maggioranza (per la Camera, per il Senato sorse l’ostacolo costituzionale della “base regionale” per l’attribuzione del premio).

Risultato finale: debito pubblico innalzato a vertici ancor più stratosferici e grande mercato nelle occasioni delle nomine con corollario di episodi poco edificanti, a dir poco.

Intanto si era proceduto con le privatizzazioni: qualcosa di ricordare, in questo senso? Dicono nulla: Alitalia, Ilva, i “capitani coraggiosi “ della Telecom, la vicenda delle banche?

Così per procedere con qualche citazione alla rinfusa, tanto per rinfrescare la memoria e ricordare anche le percentuali della disoccupazione, in particolare di quella giovanile e la carenza strutturale del nostro Paese nei settori industriali strategici (non si esaminano in questa sede i vari fatti legati alle procedure europee e al peso avuto nella costruzione di questa “Europa dei banchieri”). A essere indulgenti (pensando all’allargamento a 27 e alla gestione dell’euro) “abbagli colossali” ma si dovrebbe usare una terminologia ben più pesante.

Iniziò così la stagione delle leggi elettorali bocciate dalla Corte Costituzionale e delle modifiche in senso autoritario della Carta fondamentale, bocciate sonoramente dal corpo elettorale.

Una storia troppo recente per essere ricordata nel dettaglio.

Nel frattempo però dall’introduzione del maggioritario e l’avvio della lunga transizione italiana (dal 1993 a oggi) sono accadute altre cose, al riguardo della struttura del sistema politico:

1) La prima è quella di una crescente debolezza del sistema dal punto di vista della partecipazione elettorale che ha assunto il significato di un vero e proprio indebolimento sistemico. Da tenere in conto che in Italia la partecipazione al voto nelle elezioni politiche si è mantenuta sempre al di sopra del 90% degli aventi diritto tra il 1948 e il 1983, assestandosi successivamente su percentuali comunque superiori all’80%. Percentuali che si raggiungevano regolarmente anche nell’occasione delle tornate amministrative ed europee. La disabitudine al voto è stata instillata, prima di tutto (e va ricordato), dall’inflazione referendaria voluta dal tentativo di esprimere nuove contraddizioni post – materialiste in particolare da parte dei radicali oppure per affidare al corpo elettorale scelte che avrebbero dovuto essere compiute all’interno del sistema politico (ancora sul tema elettorale, per esempio). Abbiamo così registrato un calo secco tra le elezioni politiche del 2013 con il 75, 20% fino al 57% delle europee 2014, quelle del clamoroso equivoco del 40% al PD che in realtà valeva il 22% dell’intero corpo elettorale. Dato che tutti i più autorevoli commentatori tennero ben nascosto sicuri di aver contribuito a consegnare lo scettro al “Nuovo Principe”. Il segnale che, invece, veniva da quell’esito era quello della suffragazione certificata dello stato di debolezza complessiva del sistema, non certo quello della vittoria del PD (R);

2) Nel frattempo mutava la natura dei partiti. Dal partito di massa (quello che aveva originato la dizione di “partitocrazia” coniata da Maranini e adesso improvvidamente ripresa da Giannini) si era via via passati (attraverso il fenomeno della personalizzazione, esasperato al massimo) al “partito pigliatutti”, a quello “azienda” fino a quello “personale” incentrato sulla figura del “leader” (figura della quale oggi, in tempi di vacche veramente magre si fa un’affannosa ricerca rispolverando magari arnesi già usati più volte). Queste nuove configurazioni dei partiti hanno originato, in Parlamento, una vera e propria deviazione del concetto di “autonomia del politico” (pur riconosciuto dall’articolo 67 della Costituzione) in una dinamica spinta di trasformismo e di opportunismo alla luce del sole, senza vergogna. Inutile elencare cifre: tutti hanno sotto gli occhi le centinaia e centinaia di cambi di casacca, di sconvolgimenti di gruppi parlamentari, rotture e ricomposizioni.

Il governo attuale ricordiamolo si regge su una di queste rotture avvenuta nel seno di Forza Italia: tanto per sottolineare che non tutto in questo senso si verifica a sinistra, anzi. I cosiddetti “moderati” in questa legislatura si sono dimostrati campioni nel costruire nicchie più o meno comode per le loro ambizioni personali mutando gruppo parlamentare, assumendo le denominazioni più fantasiose (è sufficiente andare a leggere gli appellativi dei sottogruppi al Misto). Per incrociare il verbo del presunto leader e le “masse” ci si è inventati il surrogato delle “primarie”, affatto diverse dal modello americano (e anch’esse, nel caso del PD in netto calo di partecipazione: dal Prodi 2006 al Renzi 2017 mancano circa due milioni di votanti) oppure la farsa dell’uso del web (il leader del M5S eletto con circa 37.000 voti).

Ciò descritto non rimane che ricordare due cose.

In Parlamento il quadro è ormai quello dei tempi del “partito dei notabili”, ovverosia cordate strette per unificare interessi personali, di piccolo gruppo o localistici (cosa c’è di diverso da questo tipo di indicazioni al riguardo del gruppo di ALA?, ad esempio.).

Nel “Parlamento dei Notabili” i deputati si dividevano in due gruppi principali trasversali alle (eventuali, molto eventuali) opinioni politiche: -i piemontesi, eredi della Destra storica che aveva caratterizzato il Regno di Sardegna, formarono una “Associazione Liberale Permanente” i tosco-emiliani, sostenuti da lombardi e dai politici meridionali, formarono un gruppo, chiamato dispregiativamente “Consorteria” dai piemontesi.

Con il tempo questa divisione lasciò il posto a una divisione di tipo personale: i due principali leader delle varie anime della Destra, Sella e Minghetti, infatti, erano impegnati in una battaglia personale. Le Destre concordavano solo sulla necessità di raggiungere il pareggio di bilancio e sulla sconvenienza delle riforme democratiche volute dalla Sinistra, soprattutto l’estensione del suffragio elettorale. Non va inoltre dimenticato che al gruppo “originale” della Destra storica, formato da settentrionali di tendenze liberali, si erano aggiunti dei “nuovi arrivati” cioè i borghesi meridionali, di tendenze conservatrici.

Scopo comune farsi rieleggere collegio per collegio grazie all’aiuto dei Prefetti istruiti dal Governo. Ciò accadde per la verità successivamente al periodo indicato in precedenza (Consorteria e Permanente rimasero in uso fino al 1913, cioè alle prime elezioni con il suffragio allargato e all’ingresso in Parlamento in numero cospicuo dei cattolici eletti grazie al Patto “Gentiloni”). L’obiettivo era quello di formare una maggioranza attorno a Giolitti : pratica che Salvemini bollò come “il ministero della malavita”.

Trovate qualcosa di diverso oggi: non è che sull’asse Renzi/Berlusconi non si è formata una Consorteria (lombardi e toscani non per caso) e attorno ai 5 stelle una “Permanente” della rielezione dei fedelissimi?

Giannini ha sbagliato citazione.

La Partitocrazia di Maranini era quella dei grandi partiti di massa, ben radicati in tutti i gangli della vita del Paese: da una parte attraverso le sezioni e le camere del lavoro, dall’altra attraverso le parrocchie.

Segni di un’Italia sicuramente arretrata, divisa delle ideologie, ma sicuramente in grado di produrre lo sforzo di ricostruzione della guerra e guidata, vivaddio, da qualcuno che sapeva scrivere in italiano corretto la Costituzione (fu Concetto Marchesi, in ultimo a rivedere le “bucce”) e le leggi elettorali in modo che durassero per decenni adempiendo lo scopo che la Costituzione prevede: eleggere il Parlamento rappresentando le sensibilità politiche presenti nel Paese (Togliatti:” Parlamento specchio del Paese”).

Altri tempi, ma richiamandoli cerchiamo di usare i riferimenti storici più adatti: nel frattempo il pasticcio di questa legge elettorale è così immane da non poterlo descrivere con i termini appropriati a definirne l’orrore che ne deriva.

FRANCO ASTENGO

14 ottobre 2017

foto tratta da Pixabay

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