La guerra provocata dall’aggressione di Hamas è la conferma di un’ovvietà: la violenza genera solo violenza, l’aggressione violenta e disumana soltanto vendetta e rappresaglia.

Vendetta e rappresaglia di cui pagherà un prezzo altissimo il popolo palestinese. Gli attacchi di Hamas sono stati delle terribili azioni criminali, che hanno colpito centinaia di persone inermi e innocenti.

Sono stati anche un regalo al premier Netanyahu, dato che hanno tacitato le proteste di piazza contro il suo governo, hanno neutralizzato l’opposizione, hanno fatto dimenticare le tensioni e i conflitti generati dalla sua assurda riforma giudiziaria e i suoi processi per corruzione e gli hanno conferito i pieni poteri. Naturalmente è vero anche il contrario. Queste politiche di Netanyahu, a loro volta, hanno enormemente rafforzato Hamas.

La questione di fondo che un approccio pacifista e soprattutto razionale ha il dovere di affrontare riguarda pertanto la natura delle aggressioni, sia pure atroci e altamente organizzate, quali sono state quelle di Hamas. Si è trattato di un atto di guerra o di un atto criminale di terrorismo?

Non è facile, in queste ore di angoscia e di orrore per le stragi disumane provocate da Hamas, insistere sull’importanza delle parole. Ma proprio questi orrori impongono di chiarire che le due qualifiche sono tra loro incompatibili perché diverse, anzi opposte sono le risposte che la nostra civiltà giuridica ha apprestato nei confronti dei due fenomeni.

A un atto di guerra – quale soltanto gli Stati e i loro eserciti regolari, come insegnano i classici del diritto internazionale, possono compiere – si risponde con la guerra. A un crimine, sia pure gravissimo, si risponde con il diritto, cioè con l’identificazione e la punizione dei colpevoli.

Fu un enorme regalo al terrorismo la qualificazione come «atto di guerra», anziché come crimine efferato, della strage dell’11 settembre 2001, che provocò la risposta della guerra dapprima contro l’Afghanistan e poi contro Iraq, i cui unici effetti furono decine di migliaia di morti innocenti e lo sviluppo del terrorismo jihadista, divampato da allora in tutto il mondo ed elevato, come aspira qualunque terrorismo, al rango di uno Stato in guerra.

Fu un altro stupido regalo chiamare «Stato» – «Isis» o «Stato islamico» – anziché semplicemente «organizzazione criminale» il successivo terrorismo jihadista e usare contro di esso, di nuovo, il linguaggio della guerra. Giacché è appunto la «guerra santa» che è voluta dai fondamentalisti, ed è come guerra santa che essi legittimano i loro assassinii e la loro ferocia.

Ma la politica non ha imparato nulla dalle tragedie del passato. È così che di nuovo, oggi, è un regalo di Netanyahu alle bande di Hamas qualificare con la parola guerra i loro eccidi terroristici.

Chiamare «guerra» un atto criminale e conseguentemente la reazione nei suoi confronti equivale infatti ad annullare l’asimmetria tra le istituzioni politiche e la criminalità e a generare tra esse un’insensata simmetria, la quale abbassa le prime al livello della seconda o, che è lo stesso, innalza la seconda al livello delle prime.

La sola risposta razionale, oggi come in passato, dovrebbe essere invece quella asimmetrica – tanto più efficace e delegittimante quanto più asimmetrica – che si conviene ai crimini contro l’umanità: non quindi i missili e i bombardamenti, che provocando morte e terrore tra le popolazioni civili servono solo ad accrescere l’odio e le capacità di proselitismo dei terroristi, bensì le ben più difficili azioni di polizia, attuate naturalmente con mezzi militari adeguati ma dirette soltanto all’identificazione e alla neutralizzazione delle organizzazioni criminali.

È poi evidente che se configuriamo il terrorismo come un fenomeno criminale, dovremo anche comprenderne le cause, onde rispondere a esso non solo con i mezzi della repressione ma con politiche idonee a rimuoverne le ragioni. Le origini del terrorismo di Hamas sono assolutamente evidenti.

Non si possono tenere milioni di persone, l’intero popolo palestinese, in una condizione di oppressione e di apartheid senza che a un certo punto una parte di questo popolo esploda in forme criminali.

È chiaro che la violenza non risolverà mai nulla. Può solo, come l’esperienza insegna, inasprire il conflitto, accrescere gli odi e la volontà di vendetta. La sola soluzione è politica. E qualunque soluzione politica non può che consistere nel capovolgimento della politica dell’attuale destra israeliana: nella promozione della convivenza pacifica, basata sui principi di uguaglianza e di laicità e perciò sul reciproco rispetto di tutte le differenze di identità, siano esse nazionali, o religiose, o politiche o culturali.

È la stessa risposta razionale, del resto, che occorrerebbe dare alle tante sfide globali che minacciano il futuro dell’umanità.

Naturalmente, come sempre, la pace e l’uguaglianza, le loro condizioni e le loro garanzie sembrano soltanto un sogno. Ciò che, come sempre, il realismo politico preferisce è l’incubo.

LUIGI FERRAJOLI

da il manifesto.it

foto: screenshot tv