Come si fa a raccontare il senso che non c’è di una tragedia, il rapido, inesorabile scorrere degli attimi che conducono alla morte di un giovane uomo? L’uccisione in una notte di fine estate, tra il 5 e il 6 di settembre del 2020 di Willy Monteiro Duarte, 21 anni, un ragazzo italiano di origine capoverdiana appena promosso sous chef nel ristorante in cui lavorava, ammazzato letteralmente di botte da quattro suoi coetanei in una piazza di Colleferro, una cittadina del basso Lazio, per essere intervenuto a calmare una discussione nata in precedenza per le attenzioni non richieste rivolte ad una giovane.

Un dramma che induce al silenzio, che interroga la capacità di dirci umani in mezzo ai nostri simili ma che, al tempo stesso, pone molte domande su quanto conosciamo davvero di ciò che ci circonda, di coloro che si muovono in realtà sulle quali i riflettori si accendono morbosamente per un istante, per poi ripiombare in un buio fatto di indifferenza e mancanza di empatia.

Per Christian Raimo, insegnante e scrittore e Alessandro Coltré, un giovane giornalista che a Colleferro è nato, misurarsi con quanto accaduto a Willy in una sera di tre anni fa, ha assunto la forma di una lunga serie di quesiti ai quali cercare di dare una risposta, non tanto o non solo per varcare la soglia di quell’assenza di senso che permea una fine tanto tragica quanto incredibile, ma per restituire la propria umanità alla vittima, e a tutti gli altri protagonisti della vicenda, e al contempo interpellare probabilmente la propria di spettatori o testimoni, annichiliti di fronte al modo in cui si possa morire così, quasi per caso.

Spinti anche dalla propria fiducia nella verità della ricerca storica e sociale, del giornalismo e della letteratura, Raimo e Coltré hanno dapprima realizzato un lungo articolo per Internazionale e quindi un podcast in otto puntate pubblicato su tutte le principali piattaforme che sono all’origine di Willy. Una storia di ragazzi, il volume che arriva oggi in libreria per Rizzoli (pp. 272, euro 19).

Si tratta di un’inchiesta condotta nel tempo, tornando a più riprese nei luoghi che hanno fatto da sfondo al dramma – Paliano, il paese di Willy, Artena, quello dei suoi assassini, Colleferro, dove si è consumato l’omicidio – e che ha portato gli autori ad incontrare molti giovani amici di Willy, ma anche a consultare le carte processuali e le deposizioni rese di fronte ai giudici da testimoni e imputati, alla ricerca di una traccia che li aiutasse a capire, e con loro i lettori, come si sia giunti a quella tragica notte.

Perché non si tratta tanto di raccontare quanto è accaduto, ampiamente ricostruito in sede giudiziaria, quanto piuttosto di interrogarsi su quanto è rimasto fuori dalla fotografia. O è apparso sfuocato o irriconoscibile nelle cronache dei media. Per la morte di Willy Monteiro Duarte sono stati condannati, in primo grado nel 2021 e in appello nel 2023, i fratelli Marco e Gabriele Bianchi, Mario Pincarelli e Francesco Belleggia, all’epoca dei fatti avevano tutti tra i 21 e i 26 anni. Sono stati loro a colpire Willy, prima con almeno un calcio al petto e poi con pugni e altri calci una volta che era caduto a terra. Erano le 3,20 di notte.

Un pestaggio senza ragioni, un ragazzo ucciso, i colpevoli arrestati e condannati rapidamente. «Sappiamo quello che è accaduto, come è accaduto, sappiamo come è iniziata e come è finita questa tragedia, sappiamo chi c’era e cosa ha fatto», sottolineano Raimo e Coltré. Eppure molto resta ancora da dire, anche sul modo in cui questa tragedia è stata descritta e vissuta dai lettori dei giornali e soprattutto dal pubblico televisivo.

Per gli autori dell’inchiesta, sullo sfondo, ci sono le forme, anche narrative, che lo scrutare dentro la violenza può assumere, «modelli» di qualità come Truman Capote e Emmanuel Carrére. Dall’altra parte, anche intorno alla morte di Willy, si conferma una tendenza imperante nel Paese, il modo in cui «il racconto del male negli ultimi decenni è stato plasmato dal codice linguistico delle trasmissioni televisive del pomeriggio».

Format per cui il male e la violenza che si presentano nella forma «di un evento di ferocia spettacolare, non deve essere esplorato o interrogato: deve essere soltanto lo sfondo di un canovaccio di cronaca nera sostituibile, valido un po’ ovunque e in ogni momento». Il delitto di Colleferro come «quelli» di Avetrana, Cogne, Erba, Garlasco, «la scelta è al massimo tra Gomorre e Suburre». Luoghi e persone descritti virando la lente di sfumature plumbee e aggiungendo toni cupi di denuncia e mistero: territori e figure destinati a tramutarsi, diretta dopo diretta, per il pubblico del piccolo schermo, in altrettanti sinonimi del male.

Se però si cerca di restituire la parola a quanti vivono lì, ci sono cresciuti, hanno qualcosa da dire che non tocchi necessariamente le corde del sentimento o dell’orrore, ecco che appare una realtà diversa, più complessa, non sempre meno inquietante, ma certo più reale. Così, Raimo e Coltré tornano in quei luoghi, ascoltano ragazzi e ragazze, parlano con il sindaco, l’ex operaio, gli animatori di associazioni e circoli per dare un volto a zone e persone, per tracciare i contorni di quanto c’era prima, del mondo in cui Willy e i suoi assassini si muovevano e, forse, per immaginare attraverso le loro parole quanto potrà venire dopo, anche come esito possibile, se mai tali tragedie possono produrne uno, di quella morte assurda.

Scorrono, nei dialoghi con gli interlocutori che gli autori si sono scelti o hanno incontrato anche casualmente familiarizzando progressivamente con il territorio – Coltré è del resto della zona -, tutti gli elementi che hanno contribuito a costruire intorno all’uccisione di Willy una sorta di storytelling nero. La denuncia della «movida» criminale di Colleferro lanciata all’indomani del dramma da un parroco della zona, smentito da una ragazza di 17 anni che ha voluto incontrare di persona il sacerdote.

Il profilo di «performer della violenza» che i fratelli Bianchi, frequentatori di una palestra di arti marziali miste, hanno costruito postando immagini aggressive sui propri profili social e che contribuirà a renderli una perfetta incarnazione del male anche nel racconto mediatico; tutto ciò, sia detto per chiarezza, al netto dei loro precedenti per spaccio e lesioni e per essere stati coinvolti in altre aggressioni violente.

Quanto alla descrizione di ciò che è avvenuto davanti al Duedipicche, il locale del centro di Colleferro dove si è consumata la tragedia, nei termini di «una guerra» – anche questo un termine utilizzato dal parroco del luogo -, più d’una tra le giovani interlocutrici di Raimo e Coltré preferisce parlare sì di un conflitto violento, ma «tra maschi», nel senso che è stato il voler «dimostrare di essere maschi», dopo le attenzioni ricevute da una ragazza verso cui un coetaneo sconosciuto aveva mimato il gesto di lanciare un bacio, a dare inizio allo scontro che avrebbe portato alla morte di Willy.

Infine, la memoria dei luoghi che emerge e fa da contrappunto alle storie personali, alle riflessioni raccolte all’indomani della tragedia come dopo mesi e anni. La memoria della «città operaia» di Colleferro che, una dopo l’altra ha visto chiudere industrie che si occupavano di chimica, zucchero, esplosivi e difesa, pur conservando l’eco velenosa dello sversamento degli scarti industriali nel fiume Sacco.

Al termine dell’inchiesta, emerge la sensazione che Raimo e Coltré cercando di capire perché un ragazzo di 21 sia potuto morire così, ci dicano qualcosa del mondo in cui ha vissuto e nel quale, in un modo o nell’altro vivono molti di noi.

Al punto che, evocando le commemorazioni svolte nel primo anniversario della sua morte in una Colleferro scossa dal temporale, sembra ci possa essere spazio almeno per un mesto segnale di consapevolezza: «È un arcobaleno incredibile: largo, grasso, che riempie il cielo. È impossibile non leggerlo come un segno. E non è difficile immaginare che in un modo o nell’altro Willy stia lì a voler fantasticare con noi in questo modo, quasi preferisca quel cielo alle varie commemorazioni un po’ incolori che non siamo riusciti a tributargli. È un arcobaleno anomalo, un po’ acido, quasi fluorescente. Colpisce molto tutti, le persone scendono dalle macchine ancora ferme a contemplarlo. Come se dicesse: dovete vedermi, dovete vederci».

GUIDO CALDIRON

da il manifesto.it

foto: screenshot tv