Il potere dei “social” e le mire autoritarie dei sovranisti

Tutte e tutti noi ormai diamo per acquisito il diritto di possedere una identità digitale su diverse piattaforme social: Facebook, Twitter, Instagram… E’ probabile che, nella compulsiva costruzione di...

Tutte e tutti noi ormai diamo per acquisito il diritto di possedere una identità digitale su diverse piattaforme social: Facebook, Twitter, Instagram… E’ probabile che, nella compulsiva costruzione di una percezione rinnovata e adeguata ai tempi, ci si sia indirettamente e quasi inconsapevolmente persuasi che ciò sia quasi un dato di fatto, una proiezione quasi simultanea delle nostre persone sul piano telematico.

Questo, almeno, per chi sceglie di aprire un profilo Facebook, un account su Twitter o su Instagram. La domanda che spesso facciamo a noi stessi ma soprattutto agli altri, una volta che conosciamo qualcuno per la prima volta, è: hai Facebook? Hai Telegram? Hai Whatsapp? Cerchiamo, dunque, il modo di interagire con quella persona assicurandoci il collegamento più veloce, che sorpassi addirittura la comunicazione telefonica e che ci permetta magari di inviare contenuti interattivi, materiali, file di testo, fotografie che altrimenti sarebbe impossibile condividere.

La condivisione, per l’appunto, è l’anima dei social così come la pubblicità lo è del commercio. Questa socialità molto evanescente, fatta di contatti indiretti nella maggior parte dei casi, è un potente coagulatore di idee, un tambureggiare incessante di messaggi che più entrano nel favore del pubblico che segue i singoli profili, più vengono rilanciati dagli algoritmi che sono gli stregoni che sortilegiano con metodo matematicissimo e permettono ai social di arricchirsi e a noi di credere di essere liberi nella diffusione dei pensieri, delle idee.

La rivoluzione internettiana è velocissima, forse ancora di più di quella scientifica che ha attraversato tutto il Novecento, perché, oltre a possedere la necessaria caratteristica della globalità totale delle informazioni che diffonde nella rete, consente ai miliardi di fruitori quotidiani dei servizi interattivi di godere di una immediatezza nelle comunicazioni che non ha filtri, che non passa da un canale all’altro e deve attendere chissà quale verifica o approvazione.

Ciò che si scrive su un social network ha, in potenza, la stessa possibilità di essere ascoltato in tutto il mondo nello stesso istante di ciò che viene pubblicato su un normale sito web. Questo “in potenza“. Perché “in atto“, invece, lo svantaggio dei siti web sta nella ricerca che si deve operare per accedervi, mentre le piattaforme social sono immediatamente raggiungibili tramite le app su ogni dispositivo: telefonino, tablet, computer, televisione.

La memorizzazione dei contenuti vale per tutti i canali di comunicazione della rete, ma i siti sono unidirezionali: ti parlano e sembrano non ascoltarti. Esigono uno sforzo a senso unico che ricompensano con un lascito di nozioni che soltanto in un secondo tempo diventa qualcosa di prezioso, qualcosa di utile da scambiare nell’interazione sociale, nel dialogo e nel confronto reale e non meramente telematico.

Invece chi, come Donald Trump twitta compulsivamente, a sua volta riceve decine di migliaia di “re-tweet” e l’onda di un messaggio si allarga, i suoi cerchi concentrici si espandono e diventa un megafono comunicativo molto più forte, proprio perché immediato, rispetto ad un comunicato stampa che appare ormai un mezzo vecchio, logoro e stantio per veicolare un messaggio.

Per questo i giornali di mezza America continuano a commentare quanto è avvenuto a Capitol Hill, a riportare le dichiarazioni del presidente ancora in carica per solo undici giorni, mentre il pianeta social ha praticamente oscurato ogni singolo anatema dell’inquilino della Casa Bianca. Molto più condizionante socialmente è oggi il punto e contrappunto che nasce nell’immediatezza, nella immantinenza che solo i social possono garantire senza alcun margine di incertezza.

Troppo lenta la carta stampata per un mondo che non ama approfondire, che si accascia sulla morbidezza ingannatrice dei guanciali dove riposano i pregiudizi più reconditi, dati in pasto alla canea di una giuria populista tutt’altro che popolare, niente affatto giusta. Persino il mezzo televisivo, a questo riguardo, mostra segni di cedimento e rischia di essere detronizzato da un quarto potere che fa presa solo se è distributore di continue serie televisive e programmi di intrattenimento che stimolano le endorfine più sovraeccitanti per attivare l’evasione migliore da una realtà infelice, priva di prospettive economiche quanto meno decenti per sopravvivere…

Ed allora rimangono solo i social network e tutto l’indotto ipertecnologico delle app telefoniche che supportano i diversi programmi, li espandono e ne fanno dei veri e propri luoghi di in-vivibilità della vita: noi saltiamo fuori dalla realtà per entrare in un universo parallelo e cercare, magari proprio con Facebook, Twitter e Instagram, di arrivare ad un condizionamento della realtà stessa dalla quale siamo poco prima usciti.

Politicamente parlando è un’azione quasi perversa: è un cercare nella realtà gli umori popolari, trasferirne il peggio sui social e poi rientrare nel vita quotidiana per amplificare questo effetto e gestire tutte le crisi possibili nel migliore dei modi per le classi dirigenti, quindi nel peggiore di quelli possibili per le classi più disagiate, sprovviste di un acume e di un senso critico che crei un filtro antimanipolatorio.

Naturalmente c’è chi parla apertamente di censura e addirittura di limitazione dei diritti costituzionali sulla libertà di parola, di espressione e di agibilità politica. Di questo infatti si tratterebbe se fossimo rigidamente pignoli nel giudicare i fatti di per sé e a sé stanti, come se a Capitol Hill non fosse accaduto nulla e negli ultimi quattro, cinque mesi del 2020 non si fosse preparata davvero una sorta di “armata” che sostenesse il residuale periodo di permanenza alla Casa Bianca per Donald Trump

Non sarà censura, ma è comunque spiacevole constatare che per fermare questi ipocondriaci politico-sociali e complottisti dei più folli, occorre tacitarli partendo proprio dai mezzi di comunicazione più diffusi e accessibili alla grande parte del popolo americano oltre che dell’umanità intera, si intende. Le responsabilità non sono esclusivamente dei social in quanto tali: è sempre e soltanto l’uso che si fa di un mezzo a determinarne infine la bontà o lo stravolgimento della sua originaria natura, missione e concezione.

Cio non esime comunque dal prendere in considerazione quella che potremmo definire “informazione classica“, giornali, radio e televisioni, dall’avere una responsabilità nell’affiancarsi e nel diffondere quanto i social amplificano all’ennesima potenza. Ed alla fine (forse) di questa modesta e indubbiamente insufficiente analisi, ci si pongono alcune domande:

1) qual’è la linea di confine che non si deve superare per potersi garantire sempre l’accesso ai social, senza correre rischi di censure, di interruzioni di campagne sociali, politiche ed ideali? Ne esiste una precisa, eguale per tutti? Oppure è invece variabile?

2) Siccome il codice etico interno di queste reti sociali non sempre corrisponde ai dettami che ognuno di noi ritiene di dover osservare per propria storia personale, per propria convinzione di natura culturale, filosofica, religiosa, politica (eccetera…), è utile rimanere su queste piattaforme comunicative sapendo di entrare, prima o poi, in conflitto con loro e rischiare quindi l’estromissione?

Rispondere a questi quesiti risulterà inevitabilmente molto soggettivo, pur tenendo in debita considerazione elementi che non possono essere interpretati oltre una soglia che, altrimenti, li stravolgerebbe: l’assalto al parlamento statunitense è un unicum nella storia della Repubblica stellata (fatta eccezione per il rogo appiccato dagli inglesi nel 1814) e va contestualizzato nella fase di espansione del populismo dentro una globalizzazione liberista che se ne serve per dividere gli sfruttati e i lavoratori in generale, così da impedire un ritorno di rivendicazioni progressiste e sociali degne di questi nomi.

Molto sarà anche opinabile, ma i complottismi alla QAnon sono talmente surreali da non poter rientrare nella categoria della pericolosità antisociale, della ricerca di una eversione di massa che consacri un paese come gli Stati Uniti d’America ad una esperienza nuova, ad una trasformazione della repubblica presidenziale in una sorta di nuovo cesarismo bonapartista. Si intende: mantenendo formalmente tutte le parole d’ordine del populismo estremo di destra e del sovranismo sulla difesa della libertà individuale. E’ la morte dei diritti sociali e civili, della collettivizzazione della libera espressione del singolo entro una comunità, ma funziona sempre perché il liberismo accarezza l’individuo, astraendolo dal contesto e facendogli credere di essere importante nell’umanità, nonostante l’umanità.

MARCO SFERINI

10 gennaio 2021

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