Il paese dei cedri e dei fenici, mai senza una vera pace

Ogni volta che sento parlare del Libano penso a due cose: al profumo dei cedri e ai fenici. Non so se in contemporanea, se per associazione di libere immagini,...
I quartieri di Beirut attorno al porto devastati dall'esplosione

Ogni volta che sento parlare del Libano penso a due cose: al profumo dei cedri e ai fenici. Non so se in contemporanea, se per associazione di libere immagini, ma mi è sempre piaciuto pensarlo così. Invece, fin da quando ero ragazzo ed imperversavano le guerre arabo-israeliane, gli scontri tra Tel Aviv e palestinesi, tra Hezbollah e governi di Beirut che si succedevano rapidamente al potere, agli alberi di cedro e alla storia dei grandi navigatori antichi si è sostituita la diapositiva moderna di un paese senza pace, di un terra circondata da tanti pretendenti che si divoravano a vicenda: Siria, Turchia, Iraq e Iran, Giordania, Egitto, Gaza e ovviamente Israele fino oltre il Sinai, fino all’Egitto del Canale di Suez.

Non fosse che non si tratta di una centrale nucleare, scorrendo le immagini che vengono da Beirut, con i pompieri intenti a spegnere gli incendi e a gettare acqua sulle macerie da cui esala il nitrato di ammonio, con i soldati che sgomberano le macerie, con un intero quartiere portuale devastato: la Quarantine. Lo chiamano ancora oggi così perché in quella zona della città, a ridosso proprio del mare, attraccavano le navi alle banchine e i marinai rimanevano in quarantena se era in corso qualche epidemia. Peste, colera… Dalla prima cintura di case del porto nessuno poteva uscire.

Ora il quartiere della Quarantine è l’immagine di una guerra non dichiarata, di una centrale atomica mai esplosa, di un enorme tornado inesistente che vi è passato sopra e l’ha raso al suolo.

La deflagrazione ha sparso per tutta Beirut il nitrato di ammonio, una sottile coltre di polvere simile a quella causata dal crollo delle Torri Gemelle nel settembre del 2001; ha causato l’allarme del governo nei confronti della popolazione e l’invito ad abbandonare la capitale vista la tossicità di un elemento chimico troppe volte utilizzato per attentati da quasi tutti i gruppi terroristici.

I morti sono già più di cento e i feriti oltre 4.000. Anche questa immagine tragica di Beirut si somma a tante altre cartoline del dolore che messe in fila fanno una storia del Medio Oriente dove non esiste un momento in cui sia veramente esistita la pace.

Dalla guerra arabo-israeliana del 1948-49, in sostanza una guerra di indipendenza per lo Stato ebraico nascente allora, alla guerra del 1956 sempre tra Israele e questa volta l’Egitto di Nasser; dalla terza guerra tra Tel Aviv e gli Stati arabi (la cosiddetta “Guerra dei sei giorni“) scoppiata il 5 giugno del 1967 arrivando alla “Guerra del Kippur” nell’ottobre del 1973, i territori limitrofi del Libano, della Giordania, della Siria e dell’Egitto sono stati protagonisti di uno scontro aperto di relazioni e grandi alleanze internazionali che lì hanno giocato la loro partita di morte.

Il Libano rimane sempre un po’ in disparte. Una felice anomalia che si protende verso l’Europa attraverso il totale sbocco al mare, guardando ancora all’orizzonte i vecchi possedimenti della Serenissima Repubblica di Venezia (Cipro per prima): dalla caduta dell’Impero Ottomano fino ad oggi resta una terra multientica, multireligiosa con una tendenza, negli ultimi decenni, ad una prevalenza musulmana (60%) sulla popolazione di fede cristiana. Si tratta di fenomeni dovuti alle migrazioni palestinesi dopo l’occupazione israeliana della Cisgiordania e il continuo espansionismo sionista nella regione contesa.

Ma la ricerca di un po’ di beata solitudo non conosce mai veramente un prolungamento temporale tale da potersi definire “stato di pace“: dall’indipendenza raggiunta nel 1943 si succedono nell’ordine la lunga guerra civile dal 1975 al 1990 (con diversi esiti e gravitazione del Libano nella sfera di influenza siriana), l’operazione di occupazione israeliana chiamata ipocritamente “Pace in Galilea” (ma rivolta sempre e soltanto allo sterminio dei palestinesi rifugiatisi nel sud del paese dei cedri), l’assassinio del presidente Bashir Gemayel e l’invio delle truppe di interposizione da parte dell’ONU che videro la presenza di un vasto contingente italiano.

Ma la storia dei conflitti di uno Stato giovanissimo, dalle radici ben piantate in un lontanissimo passato di floridezza economica, non termina qui: per finire questa cronologia di stermini, di guerre non proclamate e di altre invece dichiaratamente tali, bisogna riferirsi al 2006 quando Hezbollah attaccò una pattuglia israeliana nel villaggio di Zar’it-Shtula e causò la reazione dello Stato ebraico che rispose inviando l’aviazione a bombardare Beirut. Fu la “guerra d’estate“, combattuta in luglio ed agosto e terminata con un cessate il fuoco tra le parti e successivi accordi tra le fazioni interne (l’eterno conflitto tra sciiti e sunniti) che portò all’elezione di Suleiman come nuovo Presidente della Repubblica, con un voto libero e democratico.

L’ingresso prepotente sulla scena siriano-irachena del califfato nero del Daesh, il dilagare della guerra civile siriana, rimisero in moto le divisioni tra sciiti e sunniti: i primi (praticamente rappresentate da Hezbollah) a sostegno del governo di Bashar al-Assad, mentre i secondi in appoggio dei ribelli. Ed è proprio lo sconfinamento della nuova guerra dentro un Libano che pareva risollevarsi, dopo tanto tempo, dal una grave crisi economica, a far precipitare nuovamente lo stato di vita della popolazione e a rendere sempre più incerto lo status libanese in un Medio Oriente in cui lo stato d’assedio resta la tremenda normalità quotidiana e ogni spiraglio di pace tra le nazioni è ancora molto lontano.

Tuttavia, i libanesi negli ultimi anni hanno manifestato molte volte per una stabilizzazione democratica del loro paese, per un recupero di quello stato-sociale ispirato da quei tratti di “socialismo islamico” che contraddistingue una parte importante della politica nazionale.

L’esplosione al porto di Beirut delle scorse ore, lo scenario di devastazione che è emerso dalla coltre di fumo tossico che si sparge ovunque hanno fatto ripiombare i libanesi nell’incubo di una nuova stagione di battaglie, di guerre: nel terrore che si possa trattare di un attentato piuttosto che di una semplice esplosione causata dall’imperizia di aver lasciato pericolosamente vicino ai centri urbani un deposito di materiale così altamente pericoloso.

Non c’è mai veramente pace per il Medio Oriente, al punto tale che anche un incidente, gravissimo per numero di morti e feriti e per le ripercussioni che avrà sull’ambiente, viene scambiato naturalmente per un attacco, per una ingerenza straniera, per una ritorsione israeliana, come si legge in alcuni comunicati un po’ propagandistici ed enfatici di Hezbollah.

La guerra continua, perché il dubbio rimane e rimarrà per molto. La guerra continua anche davanti alle evidenze e continuerà ancora, tra fazioni, tra Stati, tra alleanze internazionali perché quell’area del Pianeta è troppo importante per essere lasciata vivere in pace dall’imperialismo multilateriale mondiale.

MARCO SFERINI

5 agosto 2020

foto: screenshot

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