Il dolore, per le vite spezzate e per il futuro di disperazione che attende i sopravvissuti e le famiglie. Ma anche per il fallimento di anni di lotte per affermare il diritto alla vita, per l’abbattimento delle frontiere che uccidono, per un paese più giusto e solidale. Condannati tutti, sembra oggi, ad un cupo futuro nel quale gli egoismi e la cattiveria di regime, la nuova ragione di Stato, prevalgono sulla solidarietà e sulla coesione sociale.

La vergogna, per appartenere ad un paese e ad un simulacro di Europa che discriminano anche quando si tratta di salvare vite in mare, di garantire un porto di sbarco sicuro, di riconoscere il diritto di asilo. Vergogna per soccorsi negati come se i naufraghi non avessero chiesto di essere salvati. Una menzogna che sembra non provocare reazioni di sdegno nella popolazione.

I naufraghi non avevano affatto respinto l’assistenza offerta dalla Guardia costiera greca, che anzi- secondo quanto dichiarato da alcuni sopravvissuti- poco prima del ribaltamento aveva agganciato con una fune il peschereccio nel tentativo di trainarlo, non si sa dove.

Un tipo di operazione che sembra quasi un allontanamento e non ha certo i connotati di una attività di salvataggio secondo le regole e le prassi internazionali. Ma ormai, dopo le notizie sugli arresti dei presunti scafisti, la menzogna è elevata a sistema di governo delle migrazioni (e non solo).

I fallimenti delle politiche migratorie si nascondono dietro gli slogan di capi di governo e di ministri, dalla caccia agli scafisti su scala globale fino alla solidarietà europea che si traduce nelle politiche di respingimento verso i paesi di transito, vere e proprie deportazioni, perché non bastano più i rimpatri nei paesi di origine, ed il governo italiano in questo campo si presenta come il principale sostenitore di accordi con paesi che non rispettano i diritti umani, neppure per i propri cittadini, e non riconoscono il diritto alla protezione internazionale. Adesso li chiamano «paesi terzi sicuri».

Nel frattempo non si riesce neppure a garantire la cooperazione tra paesi titolari di zone contigue di ricerca e salvataggio (SAR) in acque internazionali, lo abbiamo visto anche nelle stragi di Cutro e adesso a sud-ovest del Peloponneso, nel mare Ionio. Aumenta il sostegno ai paesi di transito per bloccare le partenze e si allungano le rotte ma non si fermano le traversate. Se non si parte dalla Tripolitania, si parte dalla Cirenaica, e se si chiudesse anche quella rotta si partirebbe dall’Egitto o dal golfo di Sirte.

Malgrado gli accordi tra Unione Europea e Turchia, è proprio Erdogan che sta mettendo in atto una sistematica politica di espulsione dei profughi siriani ed afghani presenti in quel paese. Questo succede quando si coinvolgono governi che non rispettano i diritti umani in quella che chiamano «gestione dei flussi migratori». Ma si tratta di uomini, donne, minori che si condannano a morte con la certezza dell’impunità.

La ragione, per individuare responsabilità penali e politiche, per ritornare al rispetto delle norme che vincolano gli Stati ai soccorsi in mare, per impedire che in futuro queste stragi continuino a ripetersi nell’assuefazione generale, addirittura come se la morte fosse sanzione del tentativo di fuga, ed alla fine uno dei tanti strumenti, il più terribile, di dissuasione delle partenze e di contenimento della mobilità migratoria. Ma le stragi non fermano le partenze e i tentativi di attraversamento del Mediterraneo di chi non ha più nulla da perdere, se non la vita.

Ragione dunque, per individuare una catena di responsabilità. La ripartizione del Mediterraneo in tante diverse zone di ricerca e salvataggio (SAR), che non possono diventare spazi di giurisdizione esclusiva, ma sono aree di responsabilità concorrente, non deve impedire di individuare le autorità statali responsabili di garantire la sorveglianza delle frontiere, ma anche il fine superiore, anche in base alle Convenzioni internazionali, della salvaguardia della vita umana in mare.

Secondo l’art. 9 del Regolamento Frontex n.656/2014/UE «se, nel corso di un’operazione marittima, le unità partecipanti hanno motivo di ritenere di trovarsi di fronte a una fase di incertezza, allarme o pericolo per un natante o qualunque persona a bordo, esse trasmettono tempestivamente tutte le informazioni disponibili al centro di coordinamento del soccorso competente per la regione di ricerca e soccorso in cui si è verificata la situazione e si mettono a disposizione di tale centro di coordinamento del soccorso».

In base al Manuale internazionale sul Soccorso in mare (IAMSAR), i diversi centri di coordinamento di soccorso nazionali sono tenuti a collaborare nel caso di soccorsi di massa in acque internazionali, come si è verificato altre volte in passato.

Al di là delle indagini della magistratura greca, ci vorrà una inchiesta internazionale, probabilmente a livello europeo, per accertare cosa non ha funzionato in occasione dell’affondamento del peschereccio a sud ovest del Peloponneso, con molte analogie, rispetto alla strage di Steccato di Cutro, se si fa riferimento ai primi avvistamenti aerei, operati da Frontex, la mattina del 13 giugno scorso.

Perché oltre il dolore e la vergogna, solo la ragione ci può spingere davvero all’accertamento delle responsabilità ed alla individuazione di nuove modalità di soccorso, coordinate tra diversi Stati, senza esclusioni per le navi del soccorso civile, che impediscano in futuro il ripetersi di queste stragi da abbandono in mare.

FULVIO VASSALLO PALEOLOGO

da il manifesto.it

foto: screenshot tv