Lo ha detto lui stesso e lo dicono nel suo Movimento 5 Stelle: Beppe Grillo domenica sera da Fabio Fazio ha parlato «da comico». Ma è proprio comportandosi da comico, in quello spazio neo-televisivo dimostratosi così familiare agli italiani dopo anni di berlusconismo, che il fondatore del M5S ha fondato il suo discorso politico.

Dunque, non bisogna rinunciare a leggere le sue performance attoriali in chiave politica: non per individuarvi l’anticipazione di qualche sommovimento parlamentare o mossa tattica ma per capire che cosa ne è (stato) della forza politica che ha scalato il potere nel giro di pochi anni e che tutt’ora, stando ai sondaggi, mantiene un considerevole patrimonio di consensi.

Grillo ha esordito ormai più di quarant’anni fa impersonando l’innocente maschera classica del cabaret: il cittadino comune che sottolinea i piccoli paradossi della vita quotidiana. Poi, complici le polemiche sulla celebre battuta sui socialisti a Sanremo nel 1986, ha intrapreso una singolare e fortunata forma di impegno civile. Questa fase della sua carriera era in continuità con la prima: l’uomo medio dei primi anni restava in scena ma manifestava l’incontinenza verbale di chi aveva visto la luce.

Così, mentre le grandi narrazioni del Novecento crollavano e Berlusconi metteva a valore la sua egemonia culturale insediandosi a Palazzo Chigi, Grillo andava svelando la sua personale new age. Gianroberto Casaleggio intravide in questa narrazione sincretica e priva di una sua coerenza logica la possibilità di costruire un partito acchiappatutto che prosperasse nella crisi dei partiti e nell’esigenza degli italiani orfani di rappresentanza di immaginare un cambiamento che si presentava come radicale ma che restava dentro i codici rassicuranti del linguaggio televisivo traslocato online.

Il resto è storia nota, quella della scorsa legislatura che ha apparecchiato la vittoria di Meloni: il M5S arrivò al governo con la Lega e quella maggioranza (inquietante saldatura tra discorsi reazionari e richiesta di protezione sociale giunta al capolinea solo per via della dissennata scelta di Salvini) varò il cosiddetto Reddito di cittadinanza, la legge «spazzacorrotti» (sic) e i pacchetti sicurezza.

Poi Conte dimostrò disinvoltura post-ideologica e approdò alla maggioranza giallorossa. Prima che Casaleggio morisse, lui e Grillo avevano litigato. Complici le decine di abbandoni verso tutti i partiti dell’arco parlamentare, il comico percepiva che un partito i cui eletti sostengono tutto e il contrario di tutto era ingestibile. Allora compì tre scelte che si sarebbero rivelate in contraddizione tra loro: spinse i 5 Stelle a sostenere il governo Draghi (definendo l’ex presidente Bce «un grillino»), consegnò le chiavi della baracca a Conte, indicò il ritorno alle (presunte) origini ecologiste come antidoto al trasversalismo di casaleggiana memoria.

Ed eccoci al monologo dell’altro giorno. Quando Grillo affastella temi e alterna registri, diventa quasi impossibile da seguire, mostra la confusione in cui è finito quel cittadino medio che aveva condotto dagli spot dello yogurt al Vaffanculo. Infila uno spiacevole attacco all’avvocata che sostiene le ragioni della ragazza che accusa suo figlio Ciro di violenza sessuale e prova a riprendere il filo con accenni futurologici poco comprensibili.

Senza il cappello discorsivo, emotivo più che razionale, della vendetta contro la Casta, la storia del predicatore virtuale diventa praticamente impossibile da seguire. Lo sa bene Conte, che nel giro di due anni ha rimosso tutti i feticci identitari che del M5S: l’ideologia della rete come panacea di tutti i mali e scorciatoia post-democratica, il mito della trasparenza assoluta, il divieto di costituire alleanze elettorali in nome del «né di destra né di sinistra», il rifiuto della forma-partito e del finanziamento pubblico alla politica.

Resta il tetto dei due mandati, che da contratto di garanzia contro «i politici di professione» è divenuto lo strumento col quale il nuovo leader ha fatto piazza pulita. Raramente si è assistito a una tale repentina cancellazione di un gruppo di potere: di personaggi che da un giorno all’altro erano diventati i protagonisti della nuova stagione politica oggi facciamo fatica a ricordare i nomi.

Il che non basta a togliere a Conte le castagne dal fuoco. Nelle sue pur sparute apparizioni, Grillo dimostra che la sua linea narrativa anti-politica ha finito per accartocciarsi su sé stessa: adesso quella rabbia minaccia di rinculare contro la sua creatura, ne testimonia in forma caricaturale le tentazioni auto-distruttive.

Di fronte a una spirale simile, emblema più dall’esaurirsi di una fase che della volontà del fondatore, l’indice di popolarità dell’ex presidente del consiglio potrebbe non bastare. Perché in crisi è proprio la mitologica figura sulla quale Grillo ha costruito l’evolversi del suo repertorio: il mito dell’uomo della strada, atomizzato e disperso per strada e nella rete, avulso da collocazioni di classe e conflitti sociali.

GIULIANO SANTORO

da il manifesto.it

foto: screenshot