Cresce il lavoro, solo quello precario

Istat: la «ripresa» aumenta l’occupazione a termine, nel paese del Jobs Act il 91% dei contratti è di breve durata. Rispetto a febbraio 2020 pre-pandemia ci sono 115mila occupati in meno

I dati Istat sull’occupazione a novembre 2021 resi noti ieri dall’Istat rafforzano la tesi per cui il rimbalzo tecnico del Pil (+6,2%) nel 2020 è stato proporzionale alla crescita del precariato del lavoro dipendente e alla precarizzazione delle altre forme del lavoro. Considerati sulla scala minimale del mese, e paragonati a quello precedente (ottobre), la tendenza è chiara. Sul totale di 64 mila occupati in più a novembre, +19 mila sono stati i lavoratori dipendenti a termine, 66 mila gli «indipendenti». Ma dal totale vanno sottratti 21 mila lavoratori dipendenti permanenti che hanno perso il posto e 2 mila dipendenti in meno.

Se ampliamo la verifica fra il trimestre in discussione nel 2021 e quello precedente del 2020, la crescita degli occupati non solo è complessivamente molto bassa (+70 mila unità) ma è determinata esclusivamente dall’aumento degli occupati a termine (+89 mila) mentre sia i permanenti che gli indipendenti diminuiscono (rispettivamente di -10 mila e -9 mila). Su base annua (novembre 2021-novembre 2020) gli occupati dipendenti sono cresciuti di +490 mila, di cui il 91,5% a termine, pari a 448 mila. Dunque una crescita esiste ed è quasi interamente precaria.

Nel paese del Jobs act non può che essere così. E nessuno intende cambiare alcunché. Rispetto al periodo pre-pandemico l’aumento del precariato non è ancora sufficiente per colmare il divario con l’occupazione registrata a novembre 2020. Se dunque a novembre si è verificato il ritorno a circa 23 milioni di occupati, a qualsiasi titolo, il numero di occupati complessivo è ancora inferiore di -115 mila, mentre rispetto al novembre 2019 è sotto di -214 mila unità. Dunque, omicron e altre varianti del Sars Cov 2 permettendo, la crescita continuerà fino a raggiungere forse le stesse condizioni del «mondo di prima».

Tuttavia a fine anno, oppure nel 2023, sempre che la «crescita» si mantenga secondo le previsioni, i lavoratori italiani non saranno più in quel mondo ma in un altro molto più impoverito e precarizzato, ben sapendo che la lunga pandemia in cui ci troviamo sta incidendo sia sui redditi che sulla qualità intrinseca di un lavoro già povero e con salari bassi e bassissimi.

Su questa paradossale rincorsa all’indietro è basato l’intero sforzo della cosiddetta «crescita» in cui oggi è ancora impegnato il governo Draghi, forse ancora per poco. Ma il prossimo, se ce ne sarà un altro a breve, non cambierà il dato fondamentale della politica economica del coronacapitalismo: tutto deve restare come prima, a cominciare dall’organizzazione del mercato del lavoro dove le rendite dei pochi crescono in maniera indirettamente proporzionale alle tutele e ai redditi di chi ha meno ed è sempre più insicuro.

Questo è il nodo politico che, al momento, nessuno riesce a mettere in discussione. »Non è accettabile che le risorse generate dalla crescita e l’utilizzo degli investimenti collegati ai fondi europei provochino queste ricadute sul lavoro – ha detto Fulvio Fammoni, presidente della Fondazione Di Vittorio (Cgil) – quindi, è necessario ed urgente che queste scelte siano legate molto di più». Certo. Ma se fosse invece proprio questa la cifra della famosa «crescita» in nome della quale si fanno «governi del presidente» e si entra in fibrillazione per sostituire un «presidente» all’altro?

«Una ripresa ancora troppo fragile per indurre all’ottimismo, e di scarsa qualità poiché fondata sul lavoro a termine. Inoltre preoccupa l’elevatissimo numero degli inattivi – sostiene Tania Scacchetti, segretaria confederale della Cgil. La partita del «Piano di ripresa e resilienza» (Pnrr) resta ancora aperta. Il sindacato chiede si collegare i fondi a una condizione: la crescita della qualità dell’occupazione. Per ora è una promessa senza gambe. «Ma deve essere l’obiettivo su cui far convergere progettualità e risorse. Altrimenti – sostiene Scacchetti – continueremo ad allargare divari e disuguaglianze». Per i settori in crisi come il turismo e i servizi chiesta la proroga degli ammortizzatori Covid fino alla fine dello stato di emergenza.

ROBERTO CICCARELLI

da il manifesto.it

foto: screenshot

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