Compendio del Capitale

A quel tempo ero un giovane studente appena venuto fuori dalla formazione liceale classica. L’università fu per me un luogo di vero e proprio dinamismo cerebrale, di presa in...

A quel tempo ero un giovane studente appena venuto fuori dalla formazione liceale classica. L’università fu per me un luogo di vero e proprio dinamismo cerebrale, di presa in carico di una coscienza personale tutta da far crescere e, quindi, da accrescere, da allargare rendendola permeabile a qualunque tipo di critica, di dubbio e di novità mi si presentassero davanti.

L’autodeterminazione del proprio piano di studi mi pareva un enorme spazio in cui poter collocare sia quello che mi sarebbe piaciuto approfondire, per il gusto di farlo, di sapere e di conoscere maggiormente quello che mi era soltanto stato accennato, sia quello che avrei dovuto studiare meticolosamente per ottemperare anche alla necessità di mettere a frutto quegli studi.

Finii per preferire la conoscenza svincolata da tutto il resto. Una preferenza indotta da una nascente voglia di fare qualcosa per contribuire ad un cambiamento del mondo; una delle tante “balle che si ha in testa a quell’età” che, alla fine, si è dimostrata una essenza dell’essere, del mio essere, della passione politica non certamente innata ma coltivata anzi con cura, con determinazione e con sofferenza.

Perché se fai politica senza avere lo scopo di farne un mestiere (anche se è legittimo che si possano coniugare entrambe le cose), ne trai – come diceva il principe Kropotkin – “enormi soddisfazioni“, ma poi qualche senso di colpa emerge e circumnaviga tutto te stesso, rischiando a volte di farti impazzire se ti accorgi di tutta quella enorme impotenza che si staglia innanzi alla tua buona volontà e alla sincera credenza nella giustezza delle tue ragioni.

Eppure, siccome ogni processo rivoluzionario – per dirla con Gramsci – è romantico per definizione, mi è riuscito molto difficile separarmi, proprio in gioventù, dallo slancio libertario di un comunismo che prendeva forma come movimento di liberazione degli sfruttati nell’800 sostituendosi, al tempo stesso, all’utopia della città del sole e alle spinte luddistiche.

Non sono mai riuscito a vedere contrapposti così nettamente anarchismo e comunismo, così come non sono riuscito fare di Bakunin e Marx due nemici ma piuttosto e un cane e una volpe spinti ad essere tali dalle circostanze e che, comunque, si erano reciprocamente stimati. Almeno per qualche mese…

Così, quando ho trovato, proprio negli anni successivi agli studi universitari, in una libreria di un ateneo un piccolo volume scritto da un anarchico su “Il Capitale” di Marx, la prima sensazione è stata di voglia di sapere, di conoscere e non certo un pregiudizio politico. Quel quasi atavico spasmo intellettivo tutto proteso al desiderio di approfondire ciò che forse già sapevo, mi costrinse liberamente a comperare il libriccino.

Compendio del Capitale“, scritto da un grande libertario ottocentesco, a cavallo col Novecento, Carlo Cafiero, energico rivoluzionario, instancabile organizzatore delle associazioni operaie dell’epoca e primo fra tutti in Italia ad essere, per così dire, il “tramite” di Marx ed Engels nella strutturazione della sezione dell’Internazionale dei lavoratori.

La vita di Cafiero è un turbinio di passaggi repentini da una parte all’altra delle fazioni che interessarono la storia convulsa dei primi decenni dell’espansione del movimento operaio in Italia e nell’Europa trainata economicamente dall’avanzato stato del capitalismo inglese. Oggi uno come lui sarebbe definito “terrorista“, mentre sul finire dell’800, mentre organizzava bande insurrezionali nel Sud dell’Italia unita in regno da pochi anni, per le cronache era un “bandito“.

La sua amicizia per corrispondenza con il Moro e con Engels gli servì non solo sul piano politico ed organizzativo, ma pure per comprendere fino in fondo l’accuratezza delle analisi economiche contenute nei tanti scritti prodotti dai due fondatori del materialismo dialettico e scientifico. E gli fu utile per saper quindi distinguere tra marxisti e marxismo, tra marxismo e comunismo.

Mentre si trovava in carcere, in sedici lunghi mesi di detenzione lesse il primo libro proprio de “Il Capitale” e si convinse che quell’opera avrebbe meritato una platea vastissima di conoscitori, che sarebbe dovuta diventare patrimonio di critica sociale al di là delle ristrette cerchie intellettuali di anche nutrite schiere di giovani borghesi che, stanche della ritualità della morale borghese e del suo rotolarsi nella ricchezza prodotta col sudore altrui, abbracciavano l’avventura della contraddizione tra l’essere e il divenire, tra l’abbandono della vecchia vita agiata e quella solitaria, lontano spesso da una famiglia che li ripudiava o faceva quanto meno finta di disconoscerli ufficialmente.

Cafiero stesso, che proveniva da una ricca famiglia pugliese da parte di madre e da una prima conoscenza del mondo padronale dei campi per via della grande proprietà terriera paterna, seguì questo viatico difficile di trasformazione da giovane educato religiosamente con una prospettiva di una carriera in ambienti diplomatici, per divenire un anarchico anche abbastanza intransigente nei confronti di chi sosteneva che pur qualche compromesso con quella realtà aristrocratica, borghese, statale e repressiva bisogna pur trovarlo.

Chi parlava così doveva sembrargli, ancorché socialista, più che altro un profittatore. E, diciamolo pure, non aveva affatto torto nel pensarla eventualmente così.

Il suo “Compendio del Capitale” nasce proprio nei mesi del carcere: siamo nel 1878, muore il Re Vittorio Emanuele II e l’amnistia viene concessa con l’incoronazione di Umberto I. Così, Cafiero viene liberato e può far pubblicare sul giornale “La plebe” il suo sunto del primo libro della più grande opera di Karl Marx. Nella prefazione intende chiarire subito a chi è rivolto. A tre categorie di persone:

«…lavoratori dotati di intelligenza e di una certa istruzione; […] …giovani che sono usciti dalla borghesia e hanno sposata la causa del lavoro, ma che non hanno peranco né un corredo di studi né uno sviluppo intellettuale sufficiente per comprendere Il Capitale nel suo testo originale [si riferisce all’edizione francese di J. Roy, ndr.]; […] …quella prima gioventù delle scuole, dal cuore ancora vergine, che può paragonarsi a un bel vivaio di piante ancora tenere, ma che daranno buoni frutti, se trapiantate in un terreno propizio. Il mio lavoro deve essere dunque un facile e breve compendio del libero di Marx».

Il carattere politico-pedagogico del suo intento è abbastanza chiaro: non si tratta di farne un semplice riassunto, ma di unire l’entusiasmo e il fervore per la scoperta di questa opera che apre al proletariato e a tutta l’umanità un capitolo di storia del mondo del tutto nuovo, che solleva la cappa ideologica borghese sulla naturalità di quel sistema di vita che in molti nemmeno sanno definire come “capitalismo“.

Veicolare le grandi scoperte attraverso una comunicazione di massa è lo scopo della moderna divulgazione. Forse Carlo Cafiero avrebbe potuto oggi essere un ottimo presenzialista televisivo per spiegare le ragioni storiche di questo o quel comportamento di un nazione nei confronti di un’altra. Forse avrebbe potuto disarticolare e farci venire a capo dei tanti difficili passaggi in tema di economia e di politica economica.

Questo è stato, per l’appunto, il suo scopo sul finire di un ‘800 in cui in Italia la lotta per la rivolta sociale prendeva piede e si strutturava, organizzandosi e anche toccando punte di lacerazione non da poco. Lui seppe vivere lo scisma tra anarchici e comunisti, tra bakuniani e marxisti, quasi intimamente, senza nascondere tuttavia le sue opinioni e mostrando una capacità di elaborazione delle diverse tesi che prendevano campo sempre all’insegna della maggiore comprensione possibile, quindi utilizzando la dialettica come metodo propriamente rivoluzionario. Anche sul piano intellettivo ed intellettuale.

Il desiderio di far conoscere “Il Capitale” al maggior numero di lavoratori e di giovani nasceva proprio dalla volontà di accrescere le fila di un movimento che non doveva avere precostituzioni secondo lui: uno “spontaneismo dal basso” che, ad onor del vero, non diede certo quegli ottimi frutti che lui si augurava nella prefazione del suo compendio, ma che fu un primo contatto con la ferocia dei nuovi tempi moderni e la lotta di classe che emergeva sempre più evidente nell’allargarsi delle disparità sociali.

La lettura del compendio di Cafiero non solo permetterà di iniziare ad esplorare la grande galassia di analisi scientifica di Marx sul capitalismo, ma è auspicabile che inneschi in ognuno di noi la voglia di saperne di più un po’ di tutto: dall’anarchismo di fine ‘800 ai movimenti e partiti che nacquero nei primi decenni di un secolo che ha dato luogo a trasformazioni grandi e terribili. Così come era quel mondo dove faceva capolino il primo accenno di globalizzazione dell’economia, di espansione dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, insieme alle guerre che ne sarebbero venute fuori. Dal 1914 fino a quella che imperversa in Ucraina mentre finiamo di scrivere…

COMPENDIO DEL CAPITALE
CARLO CAFIERO
BFS EDIZIONI
€ 12,00

MARCO SFERINI

2 marzo 2022

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