Perché non possiamo prescindere dal marxismo

Tanto tempo fa, in un paese in cui ancora esistevano le ideologie che ci permettevano di riconoscerci in quanto donne e uomini pieni di una qualche passione politica, sociale,...
Karl Marx, giovane studente

Tanto tempo fa, in un paese in cui ancora esistevano le ideologie che ci permettevano di riconoscerci in quanto donne e uomini pieni di una qualche passione politica, sociale, civile, un compagno mi disse: «Non basta una vita per comprendere quanto Marx ha scritto, per studiarlo fino in fondo, per conoscerne ogni singola parola critica espressa per disarticolare il mondo in cui viviamo».

Nell’immediato pensai che fosse una consapevole ammissione della finitudine umana, del nostro tempo limitato, e quindi per un poco archiviai quella frase non riflettendovi più sopra. Ma successivamente mi scontrai con quell’affermazione perché, iniziando a studiare le opere di Karl Marx e di Friedrich Engels, leggendo e rileggendo, sottolineando piccoli ma importantissimi volumetti come il celebre cosiddetto “Mandellino” (“Initiation à la théorie économique marxiste“, di Ernest Mandel, Cces, Parigi, pubblicato in Italia da Edi nel 1983 e da Erre emme edizioni nel 1992), a me, allora ancora giovane studente universitario si aprì la vastità di una critica sul mondo che non pensavo potesse esistere.

Una critica così minuziosa, particolareggiata e, al tempo stesso, sintetizzabile nell’aspirazione umana di superare lo sfruttamento degli individui sugli individui e di questi sulla natura e sugli animali (ambientalismo e antispecismo sono concetti e capitoli della critica anticapitalista che arrivano più tardi rispetto al Marx vivente, ma ne sono una conseguenza diretta), mostrava tutta la pochezza dell’assunto che voleva noi imprigionati in una ineluttabilità storica, in un presente che avrebbe dovuto essere sempre uguale a sé stesso.

Pur con tutti i suoi mutamenti, questo presente di vita non poteva contemplare di essere rovesciato a centottanta gradi con una costante progressiva oppure, più empiricamente, nell’istante d’un secondo, come un “Big bang” sociale che veniva a sostituire il vecchio mondo borghese fatto di sfruttamento, denaro, circolazione di immense quantità di merci e accumulazione di altrettanto immense fortune nelle mani di sempre meno persone.

Il fascino del comunismo e quello del marxismo si compenetrano e nutrono l’uno dell’altro ciò che manca all’uno e ciò che manca all’altro. Prima del “Manifesto del Partito comunista” e della “Lega dei comunisti“, l’idea della fratellanza universale esisteva come via di mezzo tra la promessa di amore totale che una religione può regalare all’essere umano e l’etica tutta borghese che pretende, nel sistema che la produce, di poter soddisfare i bisogni di tutte e tutti e di fare la felicità quindi completa, nessuno escluso.

Grazie alle scoperte scientifiche di Marx, alla sua analisi minuziosissima del sistema capitalistico, questo sistema ebbe quel nome proprio che prima non aveva. Lo si chiamava per lo più “mercantilismo“, perché era evidente che le cose fossero merci, ma non si conosceva il valore duplice che trattenevano in sé e nemmeno si poteva immaginare che l’essere umano, che l’operaio potesse essere una merce alla stregua di qualunque altra ma con caratteristiche così eccezionali da riservargli un posto “privilegiato” (le virgolette sono assolutamente necessarie) nel ciclo produttivo.

Il dibattito sulla “contraddizione” rappresentata dal capitalismo, in quanto sistema antisociale, impossibilitato nel produrre ricchezza per tutta l’umanità, è venuto avanti sul terreno etico in una mescolanza di valori che si richiamano tanto al Cristianesimo delle origini quanto all’Illuminismo. Come scrisse bene Alcide Cervi nel suo libro “I miei sette figli“, «Protestava Cristo, protestava Marx e protestava Lenin». Perché sempre più esseri umani si sono resi conto, attraverso lo sviluppo del capitale, che le ingiustizie crescevano a dismisura e che i ricchi erano sempre più ricchi mentre i poveri erano sempre più poveri e, soprattutto, erano sempre di più.

Non va confuso però il piano della rivendicazione della giustizia sociale con quello della lotta al capitalismo. Marx ed Engels distinguono molto bene questi due piani. Nel “Manifesto” del 1848 infatti sta scritto proprio come incipit che «La storia di ogni società sino ad ora esistita è storia di lotte di classi». Questo non significa che la lotta di classe sia espressione del solo capitalismo. Anzi. E’ proprio l’evoluzione (o involuzione, a seconda dei punti di vista) della lotta tra le classi che fa emergere la nuova classe borghese, che sorge dalla fine del Medioevo con l’avvento dei Lumi e della Rivoluzione francese, mentre si forma, con l’avvento delle moderne industrie, la classe proletaria.

Proletariato e borghesia sono le classi in cui si esprimono i rapporti sociali tra la fine del ‘700 e i giorni nostri. La lotta di classe è sempre lotta per il prevalere di una classe sull’altra. Fino ad oggi, salvo pochi esempi peraltro non riusciti benissimo (si tratta di una battuta che non vuole affatto semplificare la storia del movimento comunista e operaio), la classe padronale (quindi quella borghese) che oggi viene elegantemente chiamata “imprenditoriale“, domina sul resto degli esseri viventi. Tutti quanti.

Questo perché ancora oggi questa classe sociale detiene la “proprietà privata dei mezzi di produzione“. In una parola, ecco cosa vogliamo noi comunisti da sempre: l’abolizione di questa proprietà privata. Non di tutta la proprietà privata, ma solo di quella dei mezzi che consentono la produzione delle merci. Questo perché il resto della proprietà privata, che noi pensiamo invece di possedere (e materialmente è così, in effetti, non si tratta di una illusione ottica), è già abolita nei fatti: per poterci vestire, per poter dormire, per poter studiare, per poter fare qualunque cosa nella vita e per la nostra vita noi non abbiamo scelta. Dobbiamo necessariamente sottostare alle regole degli imprenditori, dei padroni.

Loro fanno le regole e, se gli va, barano pure. Quindi la partita è sempre truccata, soprattutto quando fanno finta di voler aiutare chi non appartiene alla loro classe sociale, quindi i lavoratori, tutti gli sfruttati.

Sfruttati? Ah già… dimenticavo. Il rapporto tra borghesia e proletariato, qualora non fosse ancora chiaro, non è di collaborazione per il reciproco ed eguale sostentamento. La lotta di classe, anche nel capitalismo, vuol dire lotta tra sfruttati e sfruttatori. Siccome si chiama “lotta“, ciò significa che vi sono delle parti in causa, che si battono tra loro. A volte inconsapevolmente.

Eh sì, perché soprattutto i proletari, quindi gli sfruttati, quindi i lavoratori precari, i disoccupati, gli studenti, le donne, i pensionati, e così via…, non si accorgono spesso di essere sfruttati. Accettano passivamente ciò che gli accade intorno come se fosse dato dal fato, stabilito da leggi quasi divine. Così è così dovrebbe rimanere per sempre.

E’ il “pensiero unico“: il sottilissimo inganno che fa credere a chi non è un imprenditore di non poter fare a meno dei padroni, della loro necessità che deriva dalla storia. Quante volte mi sono sentito dire: «Ma i padroni ci sono sempre stati!». E me lo sono sentito dire proprio da lavoratori che avrebbero dovuto odiarli i padroni per via della vita grama che facevano (e che fanno).

E’ stato detto: «Quando milioni di poveracci sono convinti che i propri problemi dipendano da chi sta ancora peggio, siamo di fronte al capolavoro delle classi dominanti». Infatti, lo possiamo vedere proprio nella nostra quotidianità, la classe dominante spinge i poveri a ritenere che il problema per loro non siano coloro che sfruttano ma gli stessi sfruttati. Il povero diventa nemico del povero. Ma l’imprenditore (il ricco, dunque) raramente arriva a disarticolare l’unità di classe che, nonostante il regime della concorrenza tra i grandi poli capitalistici e le accumulazioni di profitti, ha ereditato e che mantiene come privilegio.

Forse è anacronistico definire “poveri” tutti gli sfruttati oppure chiamarli “proletari“. Proletario era la definizione che si dava a chi aveva come unica ricchezza personale i figli, a chi li faceva per poter avere braccia da impiegare nei campi, prima ancora dell’avvento del moderno sistema di produzione capitalistico.

Possono cambiare i nomi, le definizioni, ma la lotta di classe esiste e lo dimostrano le percentuali di distribuzione della ricchezza fornite non da noi comunisti, ma dal Fondo Monetario Internazionale, dalla Banca Mondiale, ossia da quegli organismi nati dagli “accordi di Bretton Woods” per garantire la stabilità del sistema economico globale, controllarne le crisi costanti, le sue oscillazioni e contenere, prevenendole, spinte in senso contrario. Quindi, organismi a guardia dei privilegi della classe dominante, contro ogni tentativo di organizzazione del movimento anticapitalista su vasta scala.

Queste cifre creano la cosiddetta “coppa di champagne“, ossia un grafico che dal basso verso l’alto si sviluppa proprio come un calice con dentro pregiato vino spumante francese: l’80% circa della popolazione mondiale ha nelle proprie mani soltanto il 17/18% della ricchezza prodotta. Inversamente, il restante 20%, quindi la classe degli sfruttatori, i padroni, gli imprenditori propriamente detti, detengono ciò che rimane, il che significa l’83/82% della ricchezza mondiale.

Uno sviluppo ineguale. Perché di sviluppo si tratta: scienze di ogni settore evolvono ma soggiaciono alle regole del capitalismo. Si produce solo se conviene e se conviene su vasta scala ancora meglio. Si produce non con finalità di coprire le reali esigenze di miliardi di persone, ma soltanto se esiste una “domanda” in merito, ossia se una merce può occupare una fetta ampia di mercato anche se non è un bene primario, indispensabile.

Il capitalismo crea le “indispensabilità” che prima non esistevano e che sono, ovviamente, figlie del progresso: trent’anni fa a mala pena si usavano i primi computer e floppy disk enormi. Oggi senza uno smartphone e un tablet sei praticamente tagliato fuori dal mondo delle comunicazioni interattive, velocissime, che superano persino la carta stampata. Regge ancora la televisione che ha la caratteristica dell’immediatezza, un po’ ante-litteram. Ma manca dell’interconnessione che offre una straordinaria tecnologia, una intuizione davvero rivoluzionaria: Internet.

Un altro amico una volta mi ha detto: «Tu pensa come ha rivoluzionato il mondo della scrittura, dell’impaginazione dei testi, della composizione dei libri, dello studio in generale un semplice comando come il ‘copia e incolla’».

Ne rimasi sbalordito: è verissimo. Bastano due tasti o un click del topolino con cui controlliamo tutte le funzioni del computer per trasferire milioni di dati da un campo ad un altro, da un computer ad un altro…

Con tutti i freni che il capitalismo pone alle scienze, in un secolo siamo passati dalle prime onde radio e i primi aerei da Barone rosso fino ad Internet… Immaginate quale potenziale potrebbe sviluppare l’umanità se potesse studiare senza dover tenere conto dell’andamento delle Borse, se i medici potessero tralasciare i diritti di brevetto dei farmaci e fare come Sabin che rinunciò a fare propria la scoperta del vaccino contro la poliomielite per evitare che i tempi tecnici causassero la morte di decine di migliaia di persone. Quando gli chiesero il perché della sua decisione, il grande virologo rispose: «Tanti insistevano che brevettassi il vaccino, ma non ho voluto. È il mio regalo a tutti i bambini del mondo».

In tempi di Coronavirus è facile capire queste parole: la rinuncia al profitto per fare del vaccino un bene comune, non una proprietà privata di un singolo scienziato o di una casa farmaceutica.

FMI e Banca Mondiale possono fare i guardiani fino ad un certo punto. Un punto di rottura che, se non sarà determinato dalla volontà della classe degli sfruttati moderni, da tutti i salariati, da tutti i lavoratori, i precari, i disoccupati e i disperati della Terra che “sopravvivono” invece di vivere, arriverà prima o poi e sarà frutto degli sconvolgimenti naturali.

Il capitalismo non può controllare i fenomeni meteorologici che sconvolgono il pianeta e, qualora inventasse mezzi per poter gestire crisi ambientali su vasta scala (da lui stesso create!) ed impedire la rivolta mondiale contro gli assassini della Terra, si troverebbe davanti a dei palliativi, a pannicelli caldi che lenirebbero solo temporaneamente tanto la furia degli elementi quanto quella degli sfruttati.

Un approccio alla teoria economica marxista è dunque necessario se si vuole comprendere, su vasta scala, ogni dinamica che prende avvio nella complessità del “villaggio globale“. Prescindere dallo studio del marxismo è come pensare di fare il medico e conoscere soltanto il corpo umano esteriormente.

Bisogna prendere il bisturi e aprire: aprire questo corpo globale economico e sociale, studiarlo e arrivare all’unica naturale e giusta conclusione. Non è eterno, è una contraddizione che sviluppa migliaia di altre contraddizioni, è una risposta sbagliata alla pur giusta propensione umana la miglioramento delle proprie condizioni di vita.

Se l’umanità vuole sopravvivere deve superare il capitalismo, deve farlo con la lotta di classe. I parlamenti e le leggi servono. Le riforme pure. Ma l’unica vera lotta è quella di eterno ritorno, almeno fino ad oggi, tra le classi. Se continueranno a vincerla gli imprenditori, se sarà sempre il privilegio di pochi ad averla vinta sui diritti di tutti, allora l’umanità farà un salto nel buio. E il baratro già si intravede.

MARCO SFERINI

14 marzo 2020
riveduto e ampliato, 15 dicembre 2020

categorie
Comunismo e comunisti

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