Il “fattore Tempo” e la guerra globale permanente

Il “fattore Tempo” è parte della vita. E della morte. Quindi riguarda prima di tutto l’esistenza di ogni essere vivente e, nella fattispecie, di noi esseri più o meno...

Il “fattore Tempo” è parte della vita. E della morte. Quindi riguarda prima di tutto l’esistenza di ogni essere vivente e, nella fattispecie, di noi esseri più o meno umani. Se c’è di mezzo la guerra, poi, il fattore T diviene una corsa contro te stesso se sei, ad esempio, un assediato e stai morendo di fame da mesi (o anche da anni… basti ricordarsi di Leningrado…); viceversa può essere un’arma eccellente per sfiancare il nemico, per ridurlo a miti consigli e farlo, in definitiva, capitolare.

Ma il fattore T fa la sua parte non solo sul campo di battaglia propriamente inteso, perché è il migliore attore sulla scena delle diplomazie e dei rapporti plurilaterali che si stabiliscono tra gli Stati nel momento in cui si decide di addivenire al confronto per far terminare le ostilità e guadagnarne il massimo profitto possibili in termini di acquisizioni territoriali, di potere interno ed esterno al proprio Paese e, quindi, nelle relazioni economiche e politiche internazionali.

Il fattore Tempo, quindi, assurge a regolatore sovrano (o quanto meno sovranamente comprimario con le parti in causa) delle dinamiche di un conflitto che, più ancora oggi rispetto ai lenti sviluppi delle guerre di posizione del passato, non solo viene raccontato in diretta televisiva e internettiana ventiquattro ore su ventiquattro, con una esposizione mediatica maggiore rispetto agli anni delle Guerre del Golfo e dei Balcani, ma finisce con l’essere condizionato dagli attorcigliamenti giornalieri degli umori pubblici, nonché dagli scambi di Tweet e commenti su Facebook.

Le tempistiche, del resto, sono un gioco cinico e baro nel più grande scacchiere di cinismo e orrore che è lo scontro armato, la morte di migliaia di civili, le avanzate e le ritirate, le offensive e le controffensive che lasciano le città brulicanti solo di cadaveri, piene di macerie, con qualche convoglio della Croce Rossa che tenta di salvare i superstiti.

La richiesta di adesione alla NATO formulata da Finlandia e Svezia rientra proprio in una casistica di tatticismi che puntano a strategizzare quelli che vengono spacciati per piccoli passi, flebili compromessi con un passato neutralista che non può più trovare posto nella “costituzione non scritta” da oltre settant’anni: l’aggressione putiniana all’Ucraina ha messo paura fisicamente a tutti i governi di frontiera con la Russia ma, più ancora, ha spaventato i regimi economici che reggono quei poteri politici.

Davanti ad un’Europa lontana dalla considerazione di una politica estera indipendente da quella degli USA, il braccio militare della NATO è l’unico appiglio cui aggrapparsi per mettere al sicuro profitti e speculazioni altrimenti indifendibili.

Helsinki e Stoccolma sanno che, fare parte dell’Alleanza nord-atlantica, vuol dire prima di tutto saldare i rapporti economici a tutto tondo con gli altri Stati membri, offrendo in cambio l’allargamento del perimetro offensivo contro la Russia di altre migliaia di chilometri. Praticamente tutta la frontiera occidentale di Mosca, una volta che i due paesi scandinavi saranno nella NATO, sarà un confine ininterrotto con questa stessa.

Il fattore T non gioca, al momento, a favore di Finlandia e Svezia: in prima istanza perché l’adesione all’Alleanza non è cosa di poche settimane; in secondo luogo perché l’ostracismo turco non faciliterà questo processo di inclusione, tanto più se altre questioni internazionali come quella curda entreranno nel paniere delle trattative e avranno il sapore del veto preventivo, dell’aut aut insindacabile. Erdogan vuole approfittare delle difficoltà finlandesi, svedesi e, più genericamente, europee, per mettere un punto a suo vantaggio contro il PKK trattato alla stregua di una formazione terrorista.

C’è da giurarci: gli europei, davanti al perdurare della guerra in Ucraina, ai probabili successi putiniani nella “Nuova Russia“, il fattore Tempo sarà determinante nell’intreccio diplomatico, nel ginepraio di incontri che si succederanno e che bi o trilateralmente tenteranno di accontentare un po’ tutti. Perché da una guerra se ne esce in due modi: con la totale resa incondizionata di uno dei due blocchi che si fronteggiano o con un compromesso, un armistizio, un patto che modifichi lo status quo ante tenendo conto dei cambiamenti intercorsi durante la guerra stessa.

Il tempo può aiutare Putin a rafforzare le sue posizioni in Ucraina, mentre i piani tattici delle sanzioni reciproche (ma non speculari) trovano attuazione nel limitare le potenzialità economiche, provando a mettere in difficoltà sia i rapporti interni (riversandosi per la maggiore sui ceti più poveri delle popolazioni interessate) sia quelli esterni (influenzando gli scambi borsistici e il disequilibrio dei mercati).

Allo stesso modo, il fattore T può essere un arma a doppio taglio, un boomerang se si punta esclusivamente sulla sua imperiturità, su un moderno riferimento relativistico al “panta rei” eraclitiano. Senza l’azione, senza il gioco giocato, la politica politicanteggiata e il movimento delle pedine sulla scacchiera, anche il tempo subisce l’usura di una inerzia autodistruttiva: le cosiddette “situazioni di stallo” non aiutano a raggiungere la fine della guerra, tanto più se è il canale diplomatico a languire.

Scorgere nell’allargamento della NATO a tutta la Scandinavia un presupposto favorevole alla conclusione del conflitto, propagandando la “funzione difensiva” dell’anacronistica alleanza occidentale, altro non vuol dire se non considerare solamente un punto di vista, sottovalutando le reazioni dell’avversario, pensando, basandosi su due mesi e mezzo di una guerra che rischia di diventare molto, molto lunga, che si sia già a buon punto in quanto ad indebolimento dell’Orso russo.

Non è espandendo il territorio della NATO che si crea una deterrenza antibellica, che si limitano i combattimenti, che si fa progredire il negoziato attualmente inesistente. Non esistono buone intenzioni tra i due imperialismi che stanno fronteggiando: nessuno è interessato a preservare il benessere dei popoli, tanto meno il governo ucraino che ha riattivato dall’inizio dei combattimenti una retorica nazionalista esasperata, persino imbarazzante nel non definire “resa” la fine dei combattimenti nell’Azovstal di Mariupol, tanto quanto rimane imbarazzante l’obbligatorietà dell’impronunciabilità della parola “guerra” in Russia.

Il fattore Tempo muta latitudinalmente e longitudinalmente: le coordinate dei successi e degli insuccessi russi, ucraini e dello stesso asse USA – NATO non sono una costante e, di giorno in giorno, la mutabilità dei rapporti di forza ne determina tutte le dinamiche possibili e le relative implicazioni.

Dovremmo porre attenzione a non minimizzare proprio il fattore T riducendo la guerra ad una brevità che, pur essendo comprensibile il desiderio comune (si spera…) di volerla vedere finire prima di subito, non le è connaturabile. Forse una delle considerazioni più azzeccate nella fretta delle primissime analisi geopolitiche, quando il 24 febbraio ebbe inizio quella che molti definiscono opportunamente la “seconda fase” della guerra che dura da un decennio nella zona del Donbass, fu la consapevolezza della svolta epocale che si stava compiendo: il mondo non sarebbe più stato quello che, ormai, eravamo abituati a sopportare da trent’anni a questa parte.

Dopo la caduta dei regimi dell’Est e del socialismo reale, dopo la fine dell’URSS e del bipolarismo, dopo le guerre regionali nell’Asia, in Africa, nell’Estremo e Medio Oriente, dopo tutti gli interventi della “difensiva” NATO in questi teatri di morte, di orrore e di “esportazione della democrazia“, la guerra in Ucraina è uno spartiacque nel tempo di presunta pace vissuto dall’Europa dal 1945 in avanti. Ed è una occasione per gli imperialismi che si scontrano di garantirsi una sopravvivenza a discapito di intere aree del pianeta.

Per questo non esiste una parte giusta in questo conflitto: ne esistono tante sbagliate, differentemente tali a seconda non solo dei punti di vista morali ma del diritto positivo che si innerva nelle strutture statali. La libertà del popolo ucraino è prigioniera di questa logica di guerra che rischia, proprio riferendoci ancora alla questione temporale, di divenire permanente e costituente un nuovo assetto globale.

Facciamo bene a distinguere tra aggressore e aggredito, ma non dobbiamo tralasciare un punto di vista più vasto, per non scordare che la guerra non inizia in Ucraina e non finirà lì. E’ una caratteristica del capitalismo e ce la trascineremo appresso fino a che non l’avremo fatta finita con lo sfruttamento, col profitto, con il privilegio di pochi di stabilire le condizioni di vita di tutti gli altri.

MARCO SFERINI

19 maggio 2022

Foto di Berke Araklı

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