Dalla considerazione del dolore alla sopravvivenza in vita

La sopravvivenza può anche far parte della vita, ma la vita potrà mai essere considerata una specificità del sopravvivere, perché si negherebbe in quanto tale e verrebbe ridotta a...

La sopravvivenza può anche far parte della vita, ma la vita potrà mai essere considerata una specificità del sopravvivere, perché si negherebbe in quanto tale e verrebbe ridotta a quello che non può essere: una sopportazione dell’esistenza, un arrancare continuo per raggiungere, giorno per giorno, un traguardo minimale, un tentativo di sfuggire alla morte.

E questo quando esiste almeno una speranza, quando, come l’ebreo in fuga dai nazisti nella Varsavia del 1941, si cerca ogni angolo di rifugio che dia asilo, che permetta di allungare quella vita che si cerca, che si desidera istintivamente mantenere.

Non si tratta soltanto di una autoconservazione ancestrale, di un istinto primordiale che ci fa aggrappare al nostro essere ed esserci. Infatti non è una questione meramente ontologica, ma intrisa di sentimenti, di emozioni, di rapporti umani e col resto del mondo. Il diritto alla vita è, questo sì, la libertà trascendentale che c’è nella vita stessa. Vivere deve poter essere sinonimo di essere liberi.

La libertà senza la vita è impossibile e la vita senza libertà finisce per essere sopravvivenza. Molto spesso anche di sé stessi e contro sé stessi. Perché annullarsi, venire meno, chiudere questa esperienza non voluta ma regalata, è oggettivamente contro la nostra natura, almeno fino a quando le condizioni dell’esistenza risultano sostenibili per la salute psico-fisica e, quindi, ci permettono di dedicarci ad altro oltre alla convivenza col dolore.

Proprio il rapporto con il dolore, con l’empatia che nasce dal considerarlo in noi stessi e negli altri, dovrebbe essere un tema da approfondire ogni giorno.

Noi malediciamo le guerre, inveiamo contro i soprusi e le ingiustizie tutte ma poi, tante volte, finiamo per scendere a compromessi continui con la tolleranza del dolore e facciamo distinzioni che sono prive di senso, affidate soltanto alle nostre abitudini millenarie, tramandate nel corso di un tempo in cui nel nostro codice genetico è stata scritta una memoria dettata dall’esperienza e dalla consuetudine che ci impone, anche qui con un riferimento kantiano alla trascendenza, di seguire determinati meccanicismi.

Eppure, la storia dell’umanità è piena di alterazioni della tradizione, di innovazioni, di rivoluzioni: significa che possiamo progredire, evolvere e cambiare quello che nel nostro codice genetico di un’etica in divenire riteniamo, mutatis mutandis, che debba essere modificato oppure nettamente stravolto.

Tra le basi su cui poggiano i fondamenti del tradizionalismo conservatore ci sono ovviamente i rapporti sociali ed economici sul piano strutturale e, invece, su quello sovrastrutturale le credenze, i pensieri, le filosofie, i culti e le religioni e i pensieri magici.

La scienza ha quasi sempre operato per superare ogni superstizione, per relativizzare gli assolutismi dell’etica fatta discendere dal dogmatismo intransigente del potere che le teocrazie hanno avuto sui popoli. Direttamente, con propri apparati di organizzazione statale, oppure indirettamente ma con non certo meno incidenza verso le popolazioni di ogni parte del mondo, quando si trattava di culture che prendevano il sopravvento su una laicità di cui si è avuta piena consapevolezza (o almeno si è tentato di averla) solo dopo il secolo dei Lumi, solo dopo la rottura imposta dal vento rivoluzionario del 1789.

Il dolore, come espressione della volontà divina, giustificato con l’espiazione dei peccati oppure come viatico necessario di passaggio per la conquista delle sfere celesti del paradiso, è stato reso indispensabile all’umanità, quasi inevitabile, ben al di là della naturalità che conserva nei tanti dualismi che conosciamo nel corso della vita: chiaro e scuro, giorno e notte, bello e brutto, bravo e cattivo, gioia e dolore. In salute e in malattia si deve accogliere il sacramento del matrimonio e si devono condividere tutte le situazioni che ci capitano tra capo e collo. E sia.

Quando il dolore è gestibile o, quanto meno, sopportabile e non ci rende la vita indegna di essere vissuta, si può discutere del suo contenimento e della sua tolleranza. Ma se diventa la totalità della nostra esistenza e la divora mangiandosi ogni attimo della giornata, spegnendo qualunque speranza di un recupero di noi stessi alla bellezza della quotidianità, con tutte le sue difficoltà già presenti, allora si pone il problema di come affrontare questa non-vita, quella che possiamo chiaramente definire “sopravvivenza“.

Se la vita è proprietà di chi la vive, allora, per forza di cose, anche la sopravvivenza deve essere esclusivamente appannaggio di chi sta sopravvivendo. Nessuno dovrebbe poter imporre una volontà estranea nei confronti di quella dell’essere vivente che sta provando quel dolore e che, benché la scienza possa prefigurarci cosa prova e cosa sente, al di là della constatazione oggettiva delle condizioni fisiche e cliniche, ha quindi il diritto dell’ultima parola su sé stesso, sul proprio dolore, sulla propria esistenza.

Le resistenze ideologiche sono ancora discutibilmente accettabili perché, molto laicamente, fanno parte di un perimetro di discussione che riguarda lo stabilire una serie di norme, che oggi clamorosamente mancano, al fine di evitare che sedazione profonda, suicidio medicalmente assistito e autoindotto e, infine, eutanasia (che sono tre trattamenti diversi tra loro che tendono ad arrivare al medesimo scopo) siano utilizzati impropriamente e finiscano con l’essere abusati piuttosto che utilizzati.

Per questo il Parlamento deve legiferare laicamente in materia di fine della vita: di quella che ha bisogno di un sostegno altro dalla persona incapace di decidere per sé stessa ma in una condizione ormai irreversibile di guarigione o anche solo di miglioramento (il caso di Eluana Englaro, quello di Piergiorgio Welby e quello di DJ Fabo), e di quella che invece è praticabile dal soggetto stesso, pienamente cosciente e consapevole di sé stesso come nel caso di Federico “Mario” Carboni.

A lui, a Federico, dobbiamo davvero tanto senza magari saperlo nemmeno ancora. Lui e altri cittadini che si sono trovati nelle condizioni di una sopravvivenza che era per l’appunto altro dalla vita, sono stati, sono e saranno le pietre angolari su cui si potrà finalmente arricchire il nostro Diritto laico con una norma che non consenta a nessuna morale, a nessun principio e a nessun ente di frapporsi tra quello che Totò avrebbe chiamato “il padrone del dolore” e la sopportazione della vita stessa.

Se la libertà è una peculiarità dell’esistenza di tutti gli esseri viventi, noi dovremmo considerarla tale davvero per tutti, prescindendo dalle nostre convinzioni singolari, alterando millenni di istillazione di timori reverenziali verso divinità che sono, che lo vogliano o meno la Chiesa cattolica e altre confessioni intransigentemente dogmatiche (in quanto poteri strutturali e non solo mera espressione di culto), opinabili e, nel migliore dei casi, frutto di una immaginazione umana necessaria proprio alla “sopravvivenza” rispetto al grande mistero (insostenibile) della vita, dell’esistente, dell’inspiegabile universo che ci circonda.

La libertà dalla nascita alla morte deve poter essere senza vincoli, fatti salvi quelli atti a preservare proprio la libertà stessa e che, tuttavia, non possono essere niente altro se non limitazioni all’altrui libertà, verso quel confine insuperabile che è la vicinanza reciproca, la condivisione sociale del quotidiano, la compartecipazione al grande spettacolo in cui tutti recitiamo una parte.

Lo Stato non è il proprietario della nostra vita. La Repubblica tanto meno pretenderebbe di esserlo, almeno leggendo e rileggendo la Costituzione.

E men che meno può esserlo la Chiesa cattolica, che può proclamare la superiorità etica di sé stessa e del Vangelo, come fa da duemila anni a questa parte, ma che non può pretendere – se non con la forza, come accaduto nei tanti secoli passati – di imporsi sui differenti modi di esistere singolarmente e socialmente degli esseri umani e, pertanto, sui tanti e mutevoli approcci che ognuno di noi ha col mondo dell’esperienza, attraverso un empirismo che non è accantonabile nel nome di testi aggettivati come “sacri” per stabilire appunto una superiorità rispetto ad ogni altro pensiero o storia.

L’approccio che abbiamo verso il dolore va, per questo, regolamentato anche per Legge, ma più di tutto va rivissuto differentemente da come lo abbiamo considerato fino ad oggi. Nei confronti dei nostri simili e nei confronti anche di tutti gli altri esseri viventi.

La nostra morta e quella di chi è uguale a noi ci rattrista, ci fa rabbia, ci spinge a considerazioni filosofiche e religiose profonde ed alte al tempo stesso. Ci interroga sul senso dell’esistenza e ci eleva per per qualche istante dalla miseria immorale dei tempi di un liberismo spietato.

Noi consideriamo, e giustamente, un olocausto lo sterminio sistematico degli ebrei e di tutti quei popoli ritenuti inferiori da una concezione totalitaria del mondo e da un suprematismo orrorifico, ma poi non ci indigniamo sufficientemente per quello che invece consideriamo quasi “normale“, perché consuetudinario, perché così è stabilito da secoli e secoli di culture antropocentriche.

Noi fondiamo tutto sulla nostra esistenza e ad essa parametriamo tutto: abbiamo del dolore una alta considerazione soltanto per quel che riguarda la nostra specie e pochi altri animali non umani che consideriamo “umanizzabili“, ritenendo tutto questo degno di nota, nobile e virtuoso. Mentre ci comportiamo così, ogni anno 65 miliardi di animali (non umani, visto che anche noi siamo animali) vengono assassinati per una industria alimentare che ci spinge a mangiare esseri un tempo viventi.

E’ possibile distinguere ancora le sofferenze in base all’intelligenza? E’ possibile attribuire al dolore un valore diverso da essere vivente ad essere vivente in base al rapporto empatico stabilito, piuttosto che riconoscerne l’uguaglianza nelle differenze naturali che esistono ma che non escludono la sopravvivenza e la morte per nessuna e per nessuno?

E’ necessario legiferare per regolamentare il diritto al pieno godimento della propria libertà anche nel momento del fine della vita, ed è altrettanto necessario farlo considerando l’universalità del dolore dentro quella della vita: nessuno può ritenersi intoccabile in questo senso. Nessuno può affermare che il destino di Fabrizio non tocchi inaspettatamente a qualcuno di noi. Gli scongiuri servono a poco.

Occorre rivoluzionare il modo con cui ci disponiamo a vivere ed anche a morire, prendendo in opportuna considerazione che la vita e la morte rimangono uguali come principio e fine di ogni esistenza e che quello che passa tra questi due punti estremi deve poter essere espressione della libertà assoluta dentro una cornice di regole condivise. Per tutti. Animali umani e animali non umani.

Altrimenti la libertà sarà soltanto una continua aspirazione a sé stessa, tralasciata nel suo compimento pieno per seguire altri interessi, per dare retta a morali e culti fondamentalisti nell’essere a fondamento di un potere, di una presunzione e di tanti pregiudizi.

MARCO SFERINI

17 giugno 2022

Foto di Anna Shvets da Pexels

categorie
Marco Sferini

altri articoli