Attorno alla pace l’idea di una sinistra plurale ed europea

Il prolungarsi dei conflitti, sommato alla diffusione che stanno avendo in quasi tutti i continenti, pone il tema della pace al di sopra di ogni altra rivendicazione sociale e...
Elly Schlein

Il prolungarsi dei conflitti, sommato alla diffusione che stanno avendo in quasi tutti i continenti, pone il tema della pace al di sopra di ogni altra rivendicazione sociale e civile, poiché non può esservi vero sviluppo e progresso senza una decisa e intransigente limitazione della tendenza insita nel capitalismo a prolungare la sua furia devastatrice, con politiche liberiste che fanno degli Stati i pilastri del controllo sociale, della protezione dei privilegi di classe, mediante lo strumento della guerra.

La nuova fase di confronto fra gli imperialismi mondiali, che cercano di stabilire un ordine globale moderno per le rispettive economie e finanze superando l’unipolarismo seguito alla fine della Guerra fredda, ha inevitabilmente alimentato una serie di contrasti che sedimentavano da tempo tra est ed ovest, tra nord e sud del mondo. La conseguenza di tutto questo stravolgimento globale è lo spostamento di milioni di esseri umani che fuggono da terre divenute invivibili, tanto per le guerre, quanto per i cambiamenti climatici che sono il frutto dello sfruttamento delle risorse primarie.

La pace, quindi, è il primo punto all’ordine del giorno per una sinistra tanto riformista quanto di alternativa che voglia, in particolar modo in Europa, porre le basi di un cambiamento veramente radicale: a partire dai rapporti di forza tra le classi, tra mondo del lavoro e mondo delle imprese, tra povertà incedente e ricchezza aumentante, tra restringimento delle risorse sociali e protezionismo dei profitti e dell’indicibilità numerica degli extraprofitti.

Se la stagione centrista del PD sia finita è, forse, ancora troppo pesto per poterlo dire con compiutezza e con qualche cognizione di causa.

Le reazioni dei renziani alle dichiarazioni di Elly Schlein sull’invio di armi nei teatri di guerra che ci sono più noti (Ucraina e Striscia di Gaza), potrebbero essere un buon termometro valutativo per la crescente temperatura di un fronte di maggioranza e di parziale opposizione-stampella tutto propenso non solo al rifinanziamento di pacchetti di sostegno alle potenze amiche in lotta contro Putin e contro il popolo palestinese, ma ad un credito da spendere nella prossima scadenza delle elezioni europee.

Proprio l’Europa è oggi percepita, anche dalla sinistra riformista del PD, come un attore muto, un presente-assente sulla scena di una politica internazionale in cui l’unica voce continentale è rappresentata dal militarismo della NATO, dalla condiscendenza della Commissione guidata da Ursula von der Leyen, dalla compiacenza delle grandi centrali del capitale e dell’alta finanza.

Le difficoltà dei governi nazionali, a cominciare da quello francese e da quello tedesco, che faticano a trattenere le spinte eversive delle destre rinascenti, si riflettono nel contesto più generale di un continente impreparato per la sfida dell’impatto cronico di crisi che si sommano.

La “fortezza” non è servita, nemmeno come immagine tendenzialmente e provocatoriamente rassicurante, per ricomporre un minimo comune denominatore sulle politiche migratorie, perché, in sostanza, l’Unione Europea è, dal suo allargamento a ventisette membri, sempre stata divisa in due grandi tronconi che risentono di tutte le separazioni subite nel corso della Guerra Fredda, quando da un lato si consolidava l’ideologia mercatista statunitense, unita a quella militare atlantista, mentre dall’altro si fossilizzava il moloch statalista.

La necessità di un continente europeo come intercapedine di pace tra i due ex blocchi, rappresentati dalla dicotomia iconica classica del binomio USA-URSS, è franata anzitempo, prima ancora che il crollo del socialismo reale comportasse la discesa agli inferi dei regimi che avevano governato i satelliti dell’Est.

La frantumazione dell’ex Jugoslavia ha posto le premesse per un allargamento sempre più prepotente dell’Occidente verso quei confini divenuti inesplorati, dove l’antico “hic sunt leones” risuonava nelle pianure e nei grandi altipiani dall’Ungheria all’Ucraina, fino a lambire la nuova immagine autocratica della Russia putiniana. La pace non ha avuto posto nella fisionomia di un’Unione Europea che, ormai pochi osano negarlo, è nata e cresciuta sulla pietra angolare del mito monetarista e liberista.

L’Euro, oltre ad essere una moneta, una divisa condivisa da quasi tutti gli Stati del Vecchio continente, è assurta al rango di emblema della libertà dei popoli mentre ne ha determinato la rovina in molti casi, la dipendenza da altrui economia in altri. Comunque si provi a leggere la storia della moneta unica europea, non le si potrà mai attribuire nessun valore unificante dal punto di vista sociale, civile e culturale.

Quello che qui preme sottolineare è il carattere disarmonico dell’Unione, la lotta intestina tra diversissime interpretazioni del fenomeno capitalista moderno tradottosi nell’ordoliberismo, nell’utilizzo proprio dei poteri di governo e di amministrazione degli Stati per gestire le crisi del mercato.

Non invece per trattenere i tracolli delle economie nazionali entro un perimetro di compatibilità vicendevole tra i paesi europei, in un regime di mutuo sostegno e di reciprocità tanto dei momenti virtuosi di sviluppo quanto di quelli infruttuosi di espansione inflazionistica, svalutazione del potere di acquisto e aumento delle incertezze sul futuro.

Poteva la pace essere, in queste dinamiche così contorte eppure così evidenti oggi, dopo decenni di lotte intestine, essere il cuore della rinascita di una Europa che si prometteva di non ricadere più nel disastro dei nazionalismi novecenteschi, del tentativo di un paese di sovrastare sugli altri e di imporsi in tutto e per tutto alla guida solitaria e un po’ solipsistica del primato di eccellenza anche politico-ideologica a scapito delle altre lunghe, millenarie esistenze di nazioni un tempo a guida di vasti imperi mondiali?

Ma, soprattutto, poteva la pace essere un cardine di una nuova cultura veramente unificante mentre la presenza della NATO non faceva altro se non chiarire all’Europa e al mondo intero le intenzioni degli Stati Uniti al di là dell’Oceano Atlantico, proiettandosi nuovamente verso Est e verso un Medio Oriente in cui gli alfieri principali di questo imperialismo-militaristico erano e sono la Turchia e Israele? Non poteva la pace essere quel cardine. Ed oggi sono proprio le guerre in Ucraina e a Gaza a dimostrare che le contraddizioni non sono state accantonate, non sono state tanto meno superate.

Il conflitto israelo-palestinese separa gli alleati dell’America: Ankara e Tel Aviv passano dall’essere nel comune fronte occidentale, nell’aspirare addirittura a far parte dell’Unione Europea a rinfacciarsi reciprocamente di essere degli Stati terroristi. Erdoğan accusa Netanyahu di essere come o peggio di Hitler. Netanyahu risponde al presidente turco che ad essere olocaustico è lui, contro i curdi, reprimendo il dissenso, facendo tacere ogni forma di critica e opposizione. Siamo molto lontani dal poter affermare che i poli in lotta sono graniticamente riconoscibili.

Non esiste nessuna organizzazione internazionale che associ Stati, paesi e popoli che non abbia aperte tutta una serie di controversie che determinano una schiera di interessi la cui soddisfazione non è affidata ad un organismo chiaro e definito.

Queste contraddizioni si riverberano nella vastità della globalizzazione e che, quindi, separano, dividono, scindono e non permettono concretamente di realizzare delle visioni unitarie (mai veramente uniche) sui grandi problemi che attanagliano una umanità in cui il ruolo della Nazioni Unite viene quasi decontestualizzato, facendo dell’ONU un fardello ingombrante, un accidente cui tocca ogni tanto rispondere.

Se le forze politiche della sinistra moderata e del progressismo, sia in Italia sia nel resto dell’Europa, riconsiderano, alla luce di tutto ciò, una politica di avversione nei confronti dell’alimentazione dei conflitti mediante l’invio delle armi che, a ben vedere, non risolvono affatto le guerre scoppiate ma le rigenerano di continuo, non può che venirne una positiva innovazione soprattutto sul piano sociale, perché si ridistribuiscono le carte di un confronto interno che obbliga a rimettere in discussione dei presupposti divenuti pregiudizi dogmatici.

Il fatto che si possa cambiare idea, che finalmente ci si renda conto che anche l’Occidente può essere dalla parte sbagliata, è certamente una novità importante.

Intorno ad una idea di pace che nasca dal confronto, dal dialogo, dalla diplomazia, dal taglio delle spese militari, dalla cessazione dell’invio di armi ai paesi che sono nel pieno della devastazione di guerre che durano ormai da anni (nel caso dell’Ucraina) da più di mezzo secolo (nel caso del Territorio occupato palestinese) si può costruire una sinistra plurale che condivida l’antico trittico rivoluzionario “pane, pace, lavoro“.

Aggiungiamoci anche “diritti e ambiente” e avremo un piccolo grande spunto programmatico unitario per un nuovo progressismo italiano da portare in una Europa in cui si può mettere un freno alla deriva autoritaria, all’ipernazionalismo di destre estreme, xenofobe, omofobe e reazionarie, soltanto dimostrando che la causa del lavoro fa il paio con quella della pace e che nessun diritto è al sicuro se non si stabiliscono anzitutto i fondamentali di quel pensiero federalista che aveva prodotto, da Ventotene in avanti, l’idea di un continente alla pari per tutti.

Monetarismo e militarismo provano a mostrarsi come quintessenze di uno sviluppo che deve marciare al ritmo cadenzato delle marce dei mercati e delle guerre. I governi come quello di Giorgia Meloni, tradendo tutte le presunte convinzioni antevoto del 2022, si sono messi a disposizione tanto della fedeltà nordatlantica quanto di quella dell’unilateralismo statunitense, contro un resto del mondo che, tuttavia, ogni tanto viene vellicato con rapporti bilaterali che lasciano soltanto ad intendere che l’esecutivo prosegue per tentativi e a tentoni.

Bene, dunque, che Elly Schlein stia portando il PD verso una astensione prima ed una forte critica poi all’invio delle armi. La prossima mossa dovrebbe essere quella di realizzare nel Parlamento e nel Paese le condizioni per un dialogo con tutte le altre forze politiche che possono fare causa comune sulla pace e, magari, tentare anche di trovare un punto di convergenza su rivendicazioni sociali che da troppo tempo aspettano di essere una lotta unificante per una nuova sinistra.

Una sinistra moderata unita ad una radicalmente di classe e di alternativa. Non più un centrosinistra compromissorio che intende la pace sociale come controllo sul sociale e sulle rivendicazioni dei diritti di precari, lavoratori, studenti, pensionati e sfruttati di ogni tipo. Stare dalla parte della pace vuol dire anzitutto stare dalla parte di chi è senza più speranza e sopravvive a sé stesso. Essere di sinistra, ieri come oggi, è stare da questa parte. Soltanto da questa.

MARCO SFERINI

20 gennaio 2024

foto: screenshot ed elaborazione propria

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