Russo Spena: «La sinistra del futuro sarà anticapitalista o non sarà»

Con questa intervista a Giovanni Russo Spena inizia una serie di colloqui sul trentennale del Partito della Rifondazione Comunista che, sotto molti punti di vista è e rimane un’esperienza...
Giovanni Russo Spena

Con questa intervista a Giovanni Russo Spena inizia una serie di colloqui sul trentennale del Partito della Rifondazione Comunista che, sotto molti punti di vista è e rimane un’esperienza unica nel panorama del movimento anticapitalista in Italia. Celebriamo così un anniversario, ma riflettiamo anche sulla politica più attuale.

Il 2021 è un anno che riunisce in sé ben tre ricorrenze importanti per i comunisti e per la sinistra: il centenario del PCI (che abbiamo iniziato a ricordare con Matteo Pucciarelli), il ventennale dai fatti del G8 di Genova e il trentennale dalla nascita del Partito della Rifondazione Comunista. Qualunque sia il punto di vista da cui si parte per analizzare questi tre appuntamenti della storia contemporanea dell’Italia del ‘900, a cavallo del nuovo millennio, rimane innegabile che si tratta di passaggi fondamentali nella vita del movimento dei lavoratori, degli studenti e di tutte quelle categorie sociali che rientrano nella classe degli sfruttati. Un secolo di lotte, di grandi avanzamenti sul piano dei diritti sociali, ma anche di grandi sconfitte che hanno segnato profondamente tanto l’evoluzione quanto l’arretramento delle ragioni del comunismo.

Dei 30 anni di Rifondazione Comunista parliamo con un testimone primo della nascita del Partito che voleva raccogliere tanto l’eredità del PCI quanto quella dei gruppi e dei partiti della cosiddetta “nuova sinistra“: Giovanni Russo Spena.

Giurista ed intellettuale, la sua vita politica lambisce quella del PCI, a cui non aderirà mai, ma con cui si troverà ad interagire e anche a scontrarsi fin dai tempi molto giovanili del Movimento politico dei lavoratori (MPL), nell’esperienza del Partito di Unità Proletaria (PDUP), arrivando a quella che sarà la sua casa anticapitalista e libertaria per lungo tempo: Democrazia Proletaria, di cui sarà Segretario nazionale dal 1987 al 1991. Più volte deputato e senatore sia per DP sia per Rifondazione Comunista, presidente del gruppo parlamentare al Senato dal 2006, è attualmente Responsabile nazionale giustizia del PRC.

Nel 1991, dopo la fine dell’URSS, il crollo del blocco dei Paesi del “socialismo reale” ad Est e la fine del PCI, i comunisti italiani vivono una stagione di smarrimento: sembra che le ragioni dell’uguaglianza sociale e civile, le rivendicazioni e le lotte debbano fare posto ad una “fase di governo“. La “svolta della Bolognina” è il punto di arrivo dell’eterna lotta tra riformisti e rivoluzionari, ma anche tra modernisti e conservatori, come vengono definiti da una certa stampa le correnti interne al “Paese nel Paese” di pasoliniana memoria.

1991, nasce il Partito della Rifondazione Comunista

Giovanni, ti avranno chiesto di ripercorrere questa storia molte volte, la domanda dunque è diretta ed elude tanti preamboli: dopo 30 anni, cosa resta della spinta iniziale di entusiasmo che fece nascere Rifondazione Comunista?

Il contesto attuale è molto diverso da quello che intensamente vivevamo allora. Allora reagivamo alla “damnatio memoriae“, all’operazione occhettiana di portare volutamente comuniste e comunisti italiani a perire anch’essi sotto le macerie del Muro di Berlino, negando la specificità del comunismo italiano e negando che marxismi e comunismi vanno sempre declinati al plurale.

Non negavamo la crisi e il logoramento del PCI e della stessa Nuova Sinistra. E non a caso noi comunisti libertari dicemmo da subito che per noi erano essenziali sia l’aggettivo “comunista” che il sostantivo “rifondazione“. Abbiamo, in tre decenni, attraversato vicende straordinarie e, a volte, dolorose che qui è inutile analizzare. Lo faremo in un seminario collettivo di approfondimento che stiamo preparando. Dopo 30 anni, vogliamo ripartire politicamente all’interno di una vicenda storica come l’attuale, che si configura come una vera e propria fase costituente.

Oggi, purtroppo, sta vincendo la lotta di classe dall’alto, quella dei padroni contro i proletari. Colpa anche di tanta parte delle sinistre che hanno colpevolmente proclamato la “fine della lotta di classe“, proprio mentre era in corso il più colossale trasferimento di ricchezza dal basso verso l’alto. I partiti sono, per lo più, diventati comitati d’affari. Il governo Mattarella-Draghi nasce da una crisi drammatica della rappresentanza e della democrazia costituzionale.

E’ una crisi di sistema, mentre la società è stremata. Rifondazione Comunista è fuori dal coro: propone la costruzione, che deve partire da subito, alimentando conflitti, ribellioni, rivolte, resistenze di un polo di opposizione e di sinistra anticapitalista. Comincia, per noi, una fase di grande impegno: di ricerca culturale, di costruzione del conflitto sociale, per tessere pazientemente la tela della riunificazione proletaria e del blocco sociale. E’ difficile, ma ineludibile.

Il biennio 1990-91, che fa seguito alla grande divisione epocale segnata dal 1989 in Europa e nel mondo, è stato per il PCI una lunga traversata nella definizione della “Cosa”: non si conosceva il nome e nemmeno il tratto distintivo finale che avrebbe caratterizzato il nuovo partito. Per voi comunisti libertari, guardati con supponenza, a volte con disprezzo quando vi chiamavano “cagadubbi”, perché è stato necessario sciogliere DP e confluire in Rifondazione Comunista?

Un manifesto di DP per le elezioni europee

Democrazia Proletaria è stata un prodotto di quel lungo ciclo di lotte e progetti che, diversamente, ad esempio, del Maggio francese, unì molte e diverse spinte contestatrici che interagirono tra loro. Un ciclo di lotte operaie, studentesche, sociali che, per dimensione e qualità, scosse profondamente gli equilibri della economia e della politica. Un movimento politico e sociale che conquistava le sue “casamatte” e tentava di costruire egemonia e blocco storico.

Radicalmente antisistema ma non minoritario né massimalista. Il quale dovette, sin dal 1969, scontrarsi con tentativi di golpe e con la “strategia della tensione“. Con le bombe di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969, infatti, l’Italia si accorse della fragilità della sua democrazia e delle sue forme politiche. I corpi dilaniati a piazza Fontana, in un contesto di straordinario protagonismo di popolo, con l’uccisione dell’anarchico Pinelli nella Questura di Milano, fu scavato un solco nella storia. Le bombe erano “stabilizzanti“, non “destabilizzanti“, come sostenne il PCI; erano tese, infatti, a far scattare un “riflesso d’ordine” nella popolazione, per chiudere il biennio di lotta ’68/’69, tentando di richiudere nuovamente gli studenti nell’ordine disciplinare delle scuole e lavoratrici e lavoratori nella disciplina gerarchica delle fabbriche.

Faceva paura alla borghesia e al Patto Atlantico la saldatura che solo in Italia si era determinata tra studenti, lavoratori, ed intellettualità democratica, tra conflitti, vertenze sindacali (di fabbrica e territoriali) e saperi e competenze alternative, che attaccavano direttamente le filiere del valore di un capitale che sempre più globalizzava se stesso ed attuava una feroce ristrutturazione tecnologica (soprattutto a partire dal 1974, anche per scompaginare l’organizzazione operaia di contestazione del sistema produttivo).

Medicina Democratica (e il controllo della salute sui luoghi di lavoro), Magistratura Democratica, Psichiatria Democratica, Geologia Democratica, ecc. sconvolsero l’unità del blocco borghese contro il proletariato. Un ruolo primario svolsero, ovviamente, i movimenti delle donne, che rompevano la gabbia asfittica dell’emancipazione per acquisire la centralità della contraddizione di genere e della lotta contro il patriarcato.

L’impegno internazionalista trovò uno sbocco nella quotidianità delle lotte e delle guerre anticoloniali. Era apra e totale, in definitiva, la sfida egemonica tra autonomia dei saperi anticapitalistici e la sussunzione della scienza e del sapere dentro il capitale. Fummo intensamente immersi, come demoproletari, con la testa e con il cuore, dentro questi esaltanti e sconvolgenti processi. Ma sempre con spirito di ricerca, con l’umiltà dell’utopia, senza la boria di poter essere noi da soli rappresentanza e sbocco politico di una vera e propria rivoluzione sociale e culturale.

Avevamo, anzi, forte il senso della nostra transitorietà, del nostro essere solo “strumento” di quella costellazione di movimenti. Lavorammo come partito/strumento per 20 anni, tra gioie, dolori, poche vittorie, molte sconfitte. Ma mai abbandonammo la ricerca teorica, la militanza sociale quotidiana, l'”elogio del dubbio“.

Quando, dopo la caduta del Muro di Berlino, fu sciolto il PCI e si creò un grumo importante di organizzazione anticapitalista, comunista (con il Movimento per la Rifondazione Comunista), lì fummo come era nostro dovere. Ed era anche nella nostra identità. Dissi, nella relazione finale del nostro congresso di scioglimento, che lo facevamo con “malinconico entusiasmo“. “Malinconico” perché avevamo alle spalle una vita vera comune, come comunità di donne e uomini che avevano compiuto la “traversata del deserto“, con ricordi dolci e struggenti. “Entusiasmo” perché avremmo partecipato ad una fase nuova di confronto e lavoro comune con altre storie, esperienze, vite. E’ il meticciato culturale che fa la storia. Ne sono convinto.

Caliamoci nella difficile realtà dei tempi. Veniamo all’oggi: è davvero necessario tenere ancora in vita un Partito che ha poche decine di migliaia di iscritti, praticamente invisibile in televisione, le cui ragioni vengono figurate come anacronistiche oggi più ancora che nel 1989, e oltre modo da una parte di una sinistra che si definisce “moderna” e che vede nel comunismo solo un termine incomunicabile ai giovani e declinabile nel futuro?

Il primo simbolo di Rifondazione Comunista

Ritengo, per paradosso storico, che il marxismo (e, quindi, Rifondazione Comunista) sia ora più che mai attuale. Comprendo, però, il senso della domanda. Perché, come paradigma storico, la “caduta del muro” ci ha costretto a ripensare criticamente il nostro vissuto. La mia generazione “sessantottina” si era formata, per lo più, nella critica radicale dell’esperienza del cosiddetto “socialismo reale di Stato” dell’Unione Sovietica.

Amammo la ribellione operaia di Berlino contro l’oppressione del capitalismo di Stato moscovita; così come ci opponemmo, nel ’68, ai carri sovietici a Praga i quali stroncavano un tentativo popolare di “comunismo di sinistra“. Io facevo parte di quel filone culturale della sinistra comunista che riteneva che a Mosca non pesasse solo l’assenza delle libertà individuali e dello Stato di diritto ma proprio un deficit di socialismo; nella forma, complessa ed inedita, di un capitalismo di Stato che stava riproducendo rapporti sociali borghesi, di sfruttamento “sul” proletariato.

Pensavamo, in definitiva, che l’Unione Sovietica avesse bisogno di una nuova rivoluzione proletaria, non di un liberismo di Stato. Lo stalinismo, dicemmo, va superato “da sinistra“. Il crollo dell’Unione Sovietica aprì un varco enorme per la poderosa “rivoluzione restauratrice” del capitale. Essendosi liberato della “sindrome” della competizione con l’Unione Sovietica il sistema del capitale tentò anche di sbarazzarsi anche della memoria di Stalingrado e della nascita delle costituzioni antifasciste.

Il capitale mercificò, senza remore, tutto: lavoro, ambiente, tempo, spazio; mise al lavoro le vite intere delle persone. Siamo qui a costruire Rifondazione Comunista, pur in un contesto così diverso, perché abbiamo rifiutato sia la nostalgia del passato sia, soprattutto, l’abiura del comunismo, anzi il pentimento (penso, ad esempio, a Veltroni), il “cupio dissolvi“. La sinistra o sarà anticapitalista o non sarà. Siamo figli di Karl Marx, Rosa Luxemburg ed Antonio Gramsci perché continuiamo a pensare che i processi di valorizzazione del capitale contemporaneo sono più che mai processi di sfruttamento.

Oggi la sinistra deve collocarsi nel punto più alto della sfida sociale, strutturale, perfino tecnologica che il capitale pone. E’ proprio Gramsci, nei Quaderni, che ci invita a non nascondere a noi stessi la complessità e la materialità della trasformazione. Dobbiamo, molto più che nel passato, saper agire sul consenso, sulla costruzione dell’egemonia, sulla ideologia come immaginario collettivo (oggi importantissimo). La edificazione della “città futura” è, nello stesso tempo, in una società complessa ed articolata come la nostra, conflitto sociale e, insieme, acquisizione di autocoscienza.

E’ questo anche, nel profondo della società, il tema del rapporto tra egemonia e democrazia , della rappresentanza costituzionale e della capacità espansiva della cittadinanza, che deve essere, a mio modesto avviso, internazionalista e meticcia.

Grazie Giovanni, auguri a Rifondazione, buon lavoro a tutte e tutti noi.

MARCO SFERINI

14 febbraio 2021

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