Angelo d’Orsi: “Un NO contro l’antiparlamentarismo”

Il 19 settembre è sinonimo di redde rationem: ci troviamo su una linea del tempo che va verso la resa dei conti in un referendum popolare nuovamente determinante per...
Angelo d'Orsi

Il 19 settembre è sinonimo di redde rationem: ci troviamo su una linea del tempo che va verso la resa dei conti in un referendum popolare nuovamente determinante per la vita delle istituzioni, per l’equilibrio tra i diversi poteri dello Stato, per il funzionamento complessivo della Repubblica Italiana. Mancano ventiquattro ore all’apertura dei seggi che, oltre tutto, in sette regioni vedranno la sfida per il rinnovo dei Consigli e Giunte regionali.

E’ una tornata per niente facile da pronosticare, ma, del resto, se vogliamo attenerci all’analisi concreta dei fatti è bene che qualunque ipotesi sia lasciata indietro. Per questo abbiamo chiesto ad uno studioso dei fatti del passato, acuto osservatore di quelli del presente, di spiegarci le ragioni per cui il NO ha un senso sociale, politico, istituzionale.

Angelo d’Orsi, ordinario nella Facoltà di Scienze Politiche, nell’Università degli Studi di Torino, dove insegna “Storia del pensiero politico” e “Storia delle culture e delle ideologie politiche“, dal 1981 ad oggi ha scritto innumerevoli testi che indagano fenomeni culturali, sociali e politici di massa, conflitti, nascita, crescita e fine delle dittature fasciste; va evidenziato il suo lavoro sulla figura di Antonio Gramsci che lo vede biografo del pensatore e politico comunista con “Gramsci, una nuova biografia” (edito da Feltrinelli), definito dalla critica: «Un libro destinato a diventare un classico».

A lui abbiamo rivolto alcune domande che forse molti si sono posti in questi mesi: tanto a riguardo della consultazione referendaria quanto nei confronti del suo impatto più generale qualora dovesse prevalere il consenso a quello che, giustamente, è stato definito il “taglio del Parlamento“.

Professor d’Orsi, tracciamo una linea immaginaria che ci porti dalle pagine della Storia al referendum del 20 e 21 settembre: a quale periodo dovremmo risalire per rintracciare un evento simile, ossia un taglio del Parlamento italiano?

In verità io punterei l’attenzione sul fatto che la legge che è stata votata alla chetichella nell’ottobre 2019 riporta ai suoi fasti un vecchio tarlo che rode dall’interno la democrazia e che si chiama “antiparlamentarismo”, il quale sebbene abbia anche modulazioni a sinistra, è sempre stato un cavallo di battaglia delle destre, fin dall’immediato dopo-Unità. E in questa vicenda il vecchio antiparlamentarismo si congiunge con un fenomeno recente, che è la “post-democrazia”, ossia il “superamento” del sistema democratico, conservandone semplicemente le forme, ma svuotandole di contenuto.
La combinazione di questi due elementi rappresenta un rischio enorme per gli italiani, ai quali vengono tolte via via le facoltà autentiche per potere essere “cittadini”. Ed esercitare in modo pieno i ruoli della cittadinanza, a partire dalla capacità di scegliere i propri rappresentanti e di essere s loro volta rappresentati. In tal senso questo referendum sciagurato è un momento cruciale della nostra storia. Guai a sottovalutarne le implicazioni.

La nostra Repubblica è parlamentare: la Costituzione mette al centro delle istituzioni il ruolo delle Camere e la funzione di legislatore che esercitano mediante la rigidità del “bicameralismo perfetto”. I sostenitori del “sì” affermano che con meno deputati e meno senatori le procedure si snelliranno: è davvero così?

Si tratta di una delle tante sciocchezze che circolano e che purtroppo fanno presa su un popolo distratto e disinformato. In ogni caso, al di là dell’effetto possibile della vittoria del “Sì”, è proprio l’argomento che è fallace: il Parlamento è il luogo in cui si producono le leggi, che, fino a prova contraria, sono le pietre miliari dell’edificio dello Stato di diritto.
Fare una legge è operazione di per sé complessa, perché la legge è destinata a restare, e la fretta, la “semplificazione”, lo “snellimento” sono nemici dell’approfondimento, del ragionamento, della discussione. Quanto al bicameralismo sono stati i nostri Padri Costituenti, che lo hanno pensato e lo hanno scolpito a lettere di marmo nel testo costituzionale, a partire dalla nefasta esperienza della dittatura fascista.
Il Parlamento, con le sue due Camere, e l’intero sistema con il bilanciamento dei poteri e la ripartizione delle prerogative, era stato pensato come il simbolo della pagina nuova che il Paese cominciava a scrivere, per lasciarsi definitivamente, senza pericolo di ritorni, il fascismo.

L’efficienza delle istituzioni dovrebbe essere data dalla qualità della rappresentanza politica e non dalla quantità. Come mai tende a farsi larga strada la percezione secondo cui è il numero a contare e non invece il tipo di scelta che si fa nell’urna quando si vota per una forza politica?

Un’altra tesi che ha in sé la tipica “fallacia argomentativa”. Non è il numero di pagine che fa un buon libro, non è il numero dei deputati che produce una buona legge, e così via. E comunque la legge ora sotto approvazione o rigetto attraverso il referendum sposta l’asse del ragionamento, e in sostanza cancella l’elemento essenziale di quello che si chiama “il potere dell’elettore”, che consiste nella scelta, scelta libera da coercizioni esterne, e scelta libera tra opzioni politiche diverse.
Ma esiste anche un diritto dell’elettore che è quello che precisamente la legge in questione riduce gravemente: il diritto ad essere convenientemente e adeguatamente rappresentato. Con la riduzione dei collegi elettorali, l’aumento spropositato dei suffragi per eleggere un deputato o un senatore tale diritto viene quasi vanificato specie in talune regioni del Paese, introducendo gravi squilibri che saranno senz’altro fonte di contenziosi, di ricorsi, e di interventi della Suprema Corte. L’ “efficienza” – termine che aborro, perché rinvia a un lessico economico e tecnocratico, mentre noi nel lessico politico dovremmo parlare se mai di “efficacia” – non ne uscirà aumentata, ma al contraria, diminuita.

Giustamente si afferma che una democrazia ha dei “costi” che una dittatura non ha. In questi decenni, tuttavia, la politica di palazzo si è fatta sempre meno ben volere dal corpo elettorale, dai cittadini. Tutto questo porta a ritenere che non si possa ragionare di tecnicismi parlamentari senza includerli dentro un più ampio discorso sociale. Possiamo dire che mancando un vero e proprio stato-sociale viene anche meno uno stato-democratico?

La “democrazia” può essere interpretata come un semplice sistema di regole, e si tratta di una interpretazione estrinseca, ma la nostra stessa Costituzione (non dimentichiamo che Silvio Berlusconi in una delle sue prime esternazioni quando arrivò al governo la definì addirittura “sovietica”) ha dato una interpretazione sostanziale e non meramente formale della democrazia.
Di questa interpretazione sostanziale sono prova tutta una serie di articoli che impongono allo Stato di provvedere ai bisogni primari della popolazione (sanità e istruzione, in primis), ma viene anche sottolineata l’importanza della partecipazione alla azione collettiva. La democrazia è un sistema di leggi alle quali obbediamo nella misura in cui abbiamo contribuito a scriverle, attraverso i nostri rappresentanti nelle assemblee da noi elette.

Siamo per strada e dobbiamo provare a convincere con alcune semplici parole un probabile elettore del “sì” a votare invece “no”. Cosa gli diciamo?

Gli diremo che gli argomenti per il “” sono falsi o sciocchi:
1) non è vero che la riduzione produca un risparmio economico, e che anche se così fosse (ma così non è), il funzionamento della democrazia non può essere valutato in base ai suoi costi;
2) non è vero che si aumenta l’ “efficienza” del sistema, ma si creeranno continui corti circuiti che impacceranno la macchina;
3) Non è vero che la riduzione del numero dei deputati e senatori fa crescere le qualità degli individui, e che anzi il nuovo sistema, anche in combinato disposto con la legge elettorale che di va predisponendo ridurrà le facoltà di noi cittadini di scelta e quindi di contribuire a determinare gli indirizzi della vita politica, mentre aumenterà a dismisura il potere delle direzioni dei partiti che decideranno prima delle contese elettorali chi saranno gli eletti. E insomma chi vota “” fa una sorta di harakiri o seppuku: trafigge non la “casta” ma ne accresce il potere. È questo che vogliono e auspicano?!

Grazie professore, buon lavoro.

MARCO SFERINI

19 settembre 2020

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