Quella Repubblica palestinese che ha il diritto di esistere

Tutto ricomincia da Sheikh Jarrah. Ammesso che qualcosa fosse veramente finito. La spinta colonizzatrice israeliana forza il perimetro delle sopravvivenze dei palestinesi che ancora abitano nei quartieri di Gerusalemme,...

Tutto ricomincia da Sheikh Jarrah. Ammesso che qualcosa fosse veramente finito. La spinta colonizzatrice israeliana forza il perimetro delle sopravvivenze dei palestinesi che ancora abitano nei quartieri di Gerusalemme, nonostante di muro di Sharon, nonostante la presenza dell’esercito dello Stato ebraico, nonostante tutte le restrizioni – quelle vere, non semplicemente quelle cui siamo abituati a causa del Covid-19 – e nonostante tutte le vessazioni che devono subire quotidianamente.

Sheikh Jarrah è un quartiere di Gerusalemme Est, quella parte della città tre volte santa che spetterebbe allo Stato di Palestina oggi, a pochi chilometri dal cuore della capitale contesa, dalla Città Vecchia. E’ un quartiere arabo, abitato anche da palestinesi cattolici, perché il sincretismo religioso e culturale, oltre che inter-nazionale, qui è una costante ed è la migliore dimostrazione che in fondo poi le barriere fisiche servono a poco davanti alla vita in comune che origina da migliaia di anni.

Servono per militarizzare un territorio, per esibire tutta la forza brutale di uno degli eserciti più efficienti del mondo che è supportato da servizi segreti interni ed esteri altrettanto famosi e che agiscono – come del resto quasi tutti i servizi di spionaggio di un potere statale – in spregio anzitutto ai diritti umani, al diritto internazionale, alle convenzioni stipulate in grandi sale ben adornate, davanti a centinaia di telecamere e poi prontamente disattese.

Nel quartiere che prende il nome da un medico di Ṣalāḥ al-Dīn Yūsuf ibn Ayyūb (per noi è “il Saladino“) i coloni israeliani stanno da giorni tentando di scacciare i palestinesi, con l’aiuto ovviamente delle forze armate che sparano, picchiano e arrestano. Dalle parti del governo di Netanyahu fa finta di sorprendersi di queste reazioni e dell’escalation che ne deriva anche sul terreno del contrasto militare. Hamas che lancia razzi che vengono prontamente intercettati dal sistema di droni israeliani che controllano Gaza praticamente fin dentro le case di ogni singolo militante e dirigente palestinese; Bibi risponde minacciando anche un probabile intervento terrestre.

Intanto si contano centinaia di feriti sulla Spianata delle Moschee: tutti palestinesi, si intende. Gli israeliani, liberatisi dalle mascherine dopo essere stati tutti vaccinati, a differenza dei loro vicini arabi che invece possono crepare anche di Covid dopo essere stati cacciati di casa e dalle loro terre, si portano nei rifugi consueti quando scatta un allarme missili. La lotta è sempre impari e crudele: per cento missili sparati da Hamas, ne va a segno una manciata e fa qualche danno alle abitazioni; mentre l’aviazione israeliana si alza in volo e va a bombardare Gaza, facendo venti morti di cui nove bambini.

Ma la conta dei morti da una parte piuttosto che da un’altra è un esercizio vile, cinico e terribile tanto da pensare quanto da scrivere: eppure se si semplifica l’insemplificabile, se si arriva come sempre al nocciolo della questione, ci troviamo innanzi ad uno stato (Israele) che dal 1948 non rispetta le risoluzioni delle Nazioni Unite, che le viola scientemente e con una sfacciataggine pari alle dichiarazioni governative che parlano solamente di diritto degli israeliani di vivere in pace.

Pace. Un termine che suscita qualche sorriso sarcastico, perché non è solamente la prima vittima di oltre settant’anni di lotte che hanno scritto nella storia dell’umanità le parole genocidio e apartheid al di fuori di quelli storicamente e tristemente più celebri (dagli indiani d’America al Sudadafrica passando per l’immensa tragedia nazifascista in Europa), ma è l’orizzonte umano, sociale e politico che non può nascere unilateralmente, ma che deve essere il frutto di un compromesso tra le parti.

La statistica delle vittime non è sempre precisa in termini assoluti, ma fa parte della storia e la nutre consentendole di analizzare compiutamente le evoluzioni e le involuzioni tra i contendenti, permettendo di stabilire che la grandezza dei numeri non per forza determina da quale parte stia la ragione, ma ci avvicina molto a questo punto di non ritorno, di tremenda verità. Perché spesso a centinaia di migliaia di vittime corrispondono – soprattutto nei tempi moderni (cioè sempre e soltanto quelli presenti che consideriamo tali per antonomasia) – una proporzione inversa di impiego di truppe, di mezzi per reprimere, coercire e costringere al proprio volere l’avversario, il nemico.

Israele non ha certo bisogno di scatenare tutto il suo esercito contro i palestinesi, perché una Guerra dei Sei giorni interna allo Stato ebraico sarebbe devastante e non è detto che finirebbe come nel 1967; in secondo luogo avrebbe un effetto controproducente sul piano internazionale. Turchia, Iran e altri stati arabi non starebbero a guardare; ma d’altro canto nemmeno gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e l’Europa… Ne verrebbe fuori una guerra quasi mondiale se l’attacco ai palestinesi fosse totalizzante e andasse oltre la lenta (mica poi tanto) annessione che procede quartiere per quartiere di Gerusalemme, pezzo di terra per pezzo di terra nelle campagne e nei villaggi al di qua del Giordano.

Adesso è toccato a Sheikh Jarrah, con una prepotenza colonica tale – quella degli ebrei più ortodossi e di destra che si trovino nello stato – da far deflagrare una nuova Intifada contro il logoramento progressivo delle posizioni, contro la strategia che viene portata avanti ormai da decenni, prendendosi gioco tanto di Fatah quanto di Hamas e della comunità internazionale. Israele la guerra la allontana dai propri ristretti confini, la relega tutta nei Territori occupati dove sottrae alla popolazione palestinese diritti umani fondamentali, diritti civili, acqua, terra, case, villaggi e città intere.

La politica sionista di annessione progressiva della Cisgiordania riporta alla mente il sogno mai veramente messo da parte del “Grande Israele“, dai contorni biblici, molto esteso progetto di unificazione delle “Eretz Yisrael Hashlemah” (le cosiddette “Complete Terre“) dal sud della Turchia odierna fino a tutto il Sinai occupato già al tempo dell’avanzata di Moshe Dayan: praticamente un impero compreso tra Eufrate e Nilo. Olmert smentì che un tale progetto fosse nelle intenzioni del governo israeliano e che lo fosse veramente mai stato. Di certo, i movimenti indipendentisti come l’Haganah, e soprattutto l’Irgun di Begin (chiamata anche “Haganah bet“, ossia quella non ufficiale… e per questo capace di lasciarsi dietro una notevole scia di sangue arabo e palestinese…), a suo tempo avevano carezzato l’idea che almeno tutto l’intero territorio dell’ex Mandato britannico potesse diventare la nuova Israele: l’attuale Stato ebraico unitamente al Regno Hashemita di Giordania.

La tragedia palestinese sopporta tutto il peso di una storia di massacri cui un popolo ha cercato di sopravvivere provando a farsi bastare una porzione di terra che era sempre meno libera, sempre più ristretta, angusta: dallo spezzettamento della Cisgiordania alla prigione a cielo aperto di Gaza. Gli israeliani nazionalisti e ultra ortodossi non sono la maggioranza di Israele, ma indubbiamente condizionano la vita intera di un piccolo Stato che, ogni volta che avanza di un centimetro sulle terre palestinesi, mostra tutta la sua inadeguatezza a rappresentare la modernità democratica che la stampa e i mezzi di informazione delle altrettante cosiddette “grandi democrazie” del mondo gli vorrebbero attribuire.

I palestinesi invece sono “terroristi“. A prescindere. Lo sono perché sono stati fatti diventare una minaccia per gli israeliani, contro il loro volere, contro i ripetuti accordi siglati da Arafat prima e da Abu Mazen poi. I palestinesi sono i cattivi che vogliono turbare la vita tranquilla dell’occidentalissimo Stato di Israele che fronteggia la barbarie jihadista che lo circonda, anche se il Daesh ormai è quasi scomparso dall’area siriano-irachena e non può più essere usato a fini di propaganda contro l’intero mondo arabo che è ben più complesso di quanto vorrebbe far credere il riduzionismo della destra sionista nei dibattiti alla Knesset.

Il punto è che il mondo torna a guardare a Gerusalemme come il cuore del problema, come il dato di fatto più lampantemente eclatante: la convivenza tra tre culti religiosi e due popoli. Almeno. Oggi il quartiere di Sheikh Jarrah è il simbolo di una nuova rivolta che può deflagrare nella nuova Intifada se non interverranno le diplomazie internazionali cui, del resto, nessun palestinese crede più in quanto a buona fede nella risoluzione se non del conflitto per eccellenza, quello ormai storico, almeno di quello scatenatosi negli ultimi giorni.

Ogni ripartenza è una sofferenza aggiunta per i palestinesi, perché servono sempre pretesti per accaparrare nuove terre, per espandere Israele e per potenziarne il ruolo nella regione mediorientale. Il fronte arabo, del resto, pare essersi incrinato: i sauditi e gli Emirati Arabi dialogano e fanno accordi con lo Stato ebraico, ponendosi in aperta sfida anche nei confronti di un Teheran che è sempre più vicina di quanto si possa credere in questi frangenti.

Il dramma israelo-palestinese è una nemesi della storia del Novecento cui non c’è soluzione senza la smilitarizzazione dei Territori occupati, il ritiro di Israele nei confini del 1967 e il riconoscimento di questi come limite della Repubblica palestinese che ha il diritto di esistere e che è stata proclamata ormai dalle decine di migliaia di morti lasciati non solo sui campi di battaglia, ma per le vie delle città dove i bambini invece di giocare al pallone vengono portati via dalla polizia israeliana, dove invece di vivere si sopravvive minuto dopo minuto in una lenta, lentissima agonia.

MARCO SFERINI

11 maggio 2021

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