La sconfitta di Salvini non è la vittoria della sinistra

Primi dati evidenti Alle due e mezza di notte, appena i dati del Ministero dell’Interno danno il sorpasso di Bonaccini su Borgonzoni, i commentatori politici in tv si protendono...

Primi dati evidenti
Alle due e mezza di notte, appena i dati del Ministero dell’Interno danno il sorpasso di Bonaccini su Borgonzoni, i commentatori politici in tv si protendono in ipotesi di leggi elettorali che abbandonino immediatamente il “suicidio” della proporzionale e tornino nell’alveo di un maggioritario più consono a quel bipolarismo che sembrerebbe riemergere, stando ai risultati che mano a mano vengono scrutinati in Emilia Romagna.

La scomparsa del Movimento 5 Stelle come forza terza, come elemento di contesa equipollente tra centrodestra e centrosinistra è il primo dato eclatante che, chiaramente, influirà nella strutturazione numerica e negli incarichi distribuiti all’interno del governo Conte II. Anche il Parlamento ormai sembra non rappresentare più veramente il cambiamento di campo politico che di gran parte dell’elettorato pentastellato: al nord si orienta verso il PD, a sud probabilmente verso le destre.

Sarà l’attenta analisi dei flussi di voto dell’Istituto Cattaneo di Parma a svelarci quelli che al momento sembrano arcani misteri. Ma una cosa è altrettanto certa: “L’Altra Emilia Romagna“, lo sforzo coraggioso di mettere nel campo di una sinistra comunista e di alternativa frammentata un progetto già esistente per smarcarsi dall’asse liberista del PD, arriva ultima. Rispetto a cinque anni fa perde 40.000 voti che, facendo un rapido confronto, vanno tutti nel “voto utile” dato alla lista “Emilia Romagna Coraggiosa” (praticamente l’erede della vecchia Sinistra Ecologia Libertà) che, infatti, calcolata come lista di sinistra dell’allora centrosinistra, prese 35.000 voti, mentre oggi arriva ad 87.000.

Va tenuto conto anche l’aumento della partecipazione degli elettori alla tornata elettorale, ma a ben vedere è distribuito abbastanza uniformemente in tutti gli schieramenti.

Dunque, viene sconfitta la Lega di Salvini e Borgonzoni e si afferma, senza avere alla sua sinistra una voce critica e sociale, un nuovo centrosinistra liberale (e liberista) che fa riferimento non certo al PCI della vecchia “Emilia rossa“, ma semmai alla sottile Emilia rossa sempre più convinta delle ragioni dell’economia di mercato, con il mondo delle cooperative al suo fianco, sostenuta da appelli al voto di importanti esponenti dell’antifascismo e della cultura, visto il pericolo sovranista che, in tutta evidenza, era e rimane tutt’ora reale.

Chi sconfigge veramente le destre?
Il punto è semmai proprio questo: che a battere la destra sovranista non è una sinistra comunista, antiliberista, di alternativa. A farlo sono forze che governano anche a Roma, che condividono il punto di vista del mercato, dell’imprenditoria sul sistema anti-sociale da applicare e da mostrare come contenimento delle ingiustizie, come tutela del lavoro, come rete di protezione che nemmeno lontanamente somiglia al vecchio stato-sociale della cosiddetta “prima repubblica“.

Sono tutte forze che fino ad oggi si sono proposte in alternanza alle destre dentro ad un sistema elettorale maggioritario che oggi i commentatori notturni, tra gechi e vampiri neri che fuggono dai muri e negli anfratti dei boschi, vorrebbero riesumare per consegnare al Paese la speranza di ritrovare un campo politico apparentemente progressista, fatto di bei valori democratici e antifascisti e, voltata la medaglia, nuovamente liberista in economia.

Proprio l’alternanza, al posto dell’alternativa, è stata la culla di una accettazione di competizione con forze che avrebbero invece dovuto non avere alcun riconoscimento di legittimità nel proporsi alla guida del Paese o degli enti locali: a partire dal lontano 1992, dal revisionismo storico operato sulla Resistenza e sulla Seconda guerra mondiale in Italia, è venuto prepotentemente avanti anche un revisionismo politico di cui la destra di Fiuggi prima e sovranista poi ha approfittato per farsi largo nella società italiana, sostenuta da tutta una imprenditoria che aveva buon gioco a mettersi nelle mani di avversari di quegli eredi del PCI ancora troppo pregni del loro passato.

Il regime dell’alternanza, quindi l’altalena di governo tra centrosinistra e centrodestra, non può essere un luogo di rinascita della sinistra di alternativa e di classe. Se si ritiene che i comunisti debbano avere il ruolo che fu del Partito dei Comunisti Italiani, ossia diventare “la sinistra del centrosinistra“, allora si afferma il principio di una subalternità non soltanto ideologico-politica ma anche tattica: si mette a disposizione una buona fede, una buona volontà nel cambiare lo stato di cose presente, i rapporti di forza sociali partendo da un punto di debolezza, da una condizione di inferiorità numerica manifesta e quindi si relega la sinistra ad una condizione di stampella del nuovo centrosinistra vittorioso contro il leghismo sovranista.

Ma niente di più di questo può venire dalla politica frontista moderna, dal considerare “campo di azione” politica e sociale il centrosinistra in cui per lungo tempo abbiamo sperimentato cosa significhi convivere con forze moderate tanto di sinistra quanto di centro.

Può il centrosinistra sconfiggere veramente le destre? Laddove per “sconfitta” si deve intendere il superamento della considerazione popolare delle destre come ancora di salvezza sociale, come parte politica cui affidarsi per vedere riemergere la giustizia sociale, diritti calpestati dal liberismo e dalla logica spietata del mercato.

Non si può continuare a ritenere “sconfitta delle destre” soltanto la vittoria elettorale in questa o quella regione d’Italia, in questo in quell’altro comune della Repubblica.

La “sconfitta delle destre” deve avvenire prima di tutto sul terreno economico e questo può essere fatto se si propone al moderno mondo dei lavoratori sfruttati a vari livelli, al mondo dei precari e dei disoccupati, a tutti coloro che sopravvivono in uno stato di perenne indigenza un modello opposto rispetto a quello del liberismo e non una sua versione edulcorata, un surrogato di socialismo imbevuto di logiche di mercato, di accettazione di una pace sociale permanente che concede di sposare i valori costituzionali e antifascisti, i diritti civili, e in tutto questo si mostra “liberale“, mentre poi diviene liberista quando deve mettere mano ai conti pubblici per far spazio agli interessi privati.

Il crollo dei Cinquestelle
Mentre ci si arrovella sul futuro tanto di una sinistra moderata quanto di una sinistra comunista e di classe, non deve sfuggire all’analisi dei dati il completo fallimento del progetto del Movimento 5 Stelle se lo si osserva partendo dalla sua nascita: in un decennio è cresciuto come speranza rivoluzionaria, di capovolgimento dei disvalori di una politica corrotta, tutta votata a mantenere i propri posti di potere e i lacci e laccuioli che aveva con larga parte dell’economia nazionale (e non solo), fino a diventare opposizione parlamentare di grande peso.

Da lì è emerso lo slancio ricco di anatemi contro le istituzioni, lo stigma sui partiti, tutti brutti, sporchi e cattivi, e la scrittura di una immacolata concezione politica di un movimento che doveva necessariamente essere altro rispetto a tutto ciò che lo circondava. In ciò ha preso a prestito una delle caratteristiche dei comunisti: essere per l’appunto completamente differenti dal resto del panorama politico e affermare così l’alterità sociale che si è sempre inteso rappresentare in Parlamento e nelle istituzioni locali.

Alla prova del governo, prima con la Lega e poi con il PD e Renzi, il Movimento 5 Stelle ha dovuto dismettere il suo isolazionismo, quello che poteva concedersi dai banchi dell’opposizione, e ha finito col logorarsi non creando una classe dirigente che fosse in grado di reggere il pari con consumati politici tanto del centrosinistra quanto delle vecchie destre berlusconiane e di quelle fintamente nuove del sovranismo tutto italiano.

I Cinquestelle hanno provato la tattica del camaleonte, ma gli adattamenti non giovano all’essere integerrimi e inconfondibili rispetto al resto del mondo politico se con quel mondo si deve scendere a patti ed essere prima “di destra“, approvando i decreti-sicurezza e appoggiando le politiche leghiste sulla spinta del ribaltamento dei rapporti di forza interni all’esecutivo dopo il voto europeo dello scorso anno; per poi assumere una connotazione più “di sinistra” (recalcitrante comunque Di Maio), sostenuta da un Beppe Grillo che non vede altro ormai se non una collocazione nel campo progressista.

In effetti, ha ragione il comico genovese: dall’altra parte, quella della Lega, è ormai impossibile andare a bussare alla porta, stando al governo con il PD e con Italia Viva. Le dichiarazioni tanto di Zingaretti quanto di Andrea Orlando, non sono ambigue, anzi brillano per chiarezza: è giunto il momento per chi non è più annoverabile come terzo polo, ma è ormai una forza dimezzata, ampiamente ridimensionata nelle sue roccaforti storiche, di scegliere che cespuglio essere. Ed al momento l’unico bosco in cui stare sembra quello dell’area governativa.

Magari non sarà ancora la morte definitiva del M5S: sopravviverà elettoralmente grazie ad un suo “zoccolo duro“. Tutti, più o meno, ne hanno uno. Ma è fuori da ogni dubbio che lo squilibrio tra la rappresentanza parlamentare e il consenso che avrebbero oggi nel Paese se si votasse è talmente enorme da rendere impensabile che il governo Conte II arrivi fino alla fine della legislatura andando ad eleggere il nuovo Presidente della Repubblica con questi rapporti di forza, ormai superati dai fatti, nelle due Camere e in molti consigli regionali.

Amarum in fundo
Non si può mettere come titolo di questa ultime riflessione: “Dulcis in fundo“. Non lo si può fare perché parliamo della sinistra comunista, di noi, di coloro che hanno sostenuto il coraggioso tentativo di Stefano Lugli e de “L’Altra Emilia Romagna“. Ma parliamo anche dell’atomizzazione della sinistra di alternativa, del protagonismo di tante piccole differenze che potrebbero convivere in un progetto di ricomposizione di una unica visione di classe della società: un anticapitalismo che possa essere plurale e unitario al tempo stesso.

Plurale nel definire di volta in volta le tattiche politiche mediante cui radicare il proprio consenso istituzionale, quindi gestire le fasi elettorali senza dare loro l’esclusività della ragione di esistenza della sinistra comunista stessa.

Unitario perché una strategia di più ampio raggio ha bisogno della collaborazione di tutti, di una visione ampia portata da tanti punti di osservazione dell’oggi che possono essere utili nella ridefinizione di una cultura politica che studi il sociale, che faccia indagine, che si rimetta pazientemente al lavoro escludendo tutti coloro che intendono la trasformazione dell’esistente esclusivo appannaggio degli equilibri istituzionali, frutto di un condizionamento della sola sovrastruttura statale, dimenticando che tutto, proprio tutto, è governato dall’economia.

I comunisti hanno dunque bisogno di riconoscersi tra loro e di riconoscere a sé stessi la perdita del valore dello studio, dell’analisi costante di quanto avviene per ridisegnare un quadro in cui stiano tanto un sindacalismo non conforme ai bisogni del liberismo quanto una politica di partito che ceda alle pressioni del “voto utile” e ai ricatti della difesa della democrazia.

Cari amici della sinistra moderata, voi potrete anche difendere la democrazia dal salvinismo e dal sovranismo, ma un momento dopo questa sarà aggredita nelle sue fondamenta da una politica che non crea coscienza sociale, che non si mostra dalla parte dei lavoratori e che non può esserlo perché il centrosinistra e il governo sono frutto della composizione di partiti:

– che non vogliono ridurre l’orario di lavoro a 32 ore a parità di salario per far lavorare meno tutti e di più ciascuno;

– che non vogliono mettere fine allo scempio dei decreti-sicurezza archiviando la stagione del teorema “il migrante (quindi un povero) è nemico del povero“, ma alimentare anche questa sensazione di incertezza per avere consensi da destra;

– che non vogliono nazionalizzare le grandi industrie del Paese finite sull’orlo del fallimento a causa di vergognose speculazioni finanziarie;

– che non vogliono reintrodurre una nuova indicizzazione dei salari basata sul reale costo della vita;

– che non vogliono considerare la scuola della Repubblica una vera scuola pubblica ma un primo approccio al mondo dell’industria, spacciando l’alternanza scuola-lavoro come propedeutica alla crescita del giovane nella società, mentre si tratta soltanto di un modo per i padroni per avere mano d’opera e cervelli al più basso costo possibile, praticamente gratis;

– che non vogliono tagliare le spese militari in favore della creazione di un pezzetto di stato-sociale anche tramite queste risorse, ma che anzi vanno orgogliosi delle nostre missioni all’estero;

– che abbracciano diritti civili e antifascismo non come espansione dei diritti sociali, come complemento necessario e vicendevole di entrambi, ma come sussistenza di un formale mantenimento di una democrazia liberal-liberista, aperta così a tutti i tentativi di invasione di campo delle destre più becere.

E’ amaro dover prendere atto che tutti i valori morali, civili, tutte le istante sociali del nemmeno tanto vecchio movimento comunista oggi sono frantumati, dispersi qua e là tra chi imbroglia le carte partendo dai nomi, facendosi chiamare “sinistra“, ed essendo invece parte integrante di un modello politico che è quanto meno di centro e tra chi prova a richiamarsi a quell’insieme di elementi che dovrebbero mostrare una alternativa a tutto questo e non vi riesce.

E’ amaro ma è un dato di fatto. E i fatti hanno la testa dura.

Quando rifletto in merito, penso sempre che le sconfitte non trasformano la giustezza delle idee, la passione politica e la voglia di cambiamento che la genera in un errore. Altrimenti la storia sarebbe piena di visioni del mondo sbagliate che devono essere considerate giuste solo perché vincono grazie alla prepotenza dei poteri economici.

Una forza comunista, una sinistra di opposizione e di alternativa non può trovare spazio nella società se finisce con lo snaturarsi da sola, infilandosi nella trappola dell’utilità legata esclusivamente al momento elettorale. La democrazia repubblicana, anche quella più formale possibile, non è riconducibile al solo “diritto di voto”.

Se fosse così dovremmo disperarci molto di più di quanto lo facciamo per la condizione di irrilevanza sociale, politica e culturale in cui vivono le nostre idee e la nostra voglia di cambiamento. Dovremmo farlo perché se c’è qualcosa che nel sistema costituzionale è stato cambiato innumerevoli volte e piegato alle esigenze di questa o quella forza politica emergente, è proprio il sistema elettorale, quindi, per diretta conseguenza, anche il diritto di voto che ha subito violente contorsioni del suo scopo originario, del suo ruolo nel sistema democratico.

Il diritto di voto non sconfigge il sovranismo se prima di tutto a batterlo non è la coscienza dell’essenza sociale che siamo, di come viviamo, di chi ci sfrutta, di chi si arricchisce alle nostre spalle, grazie al nostro lavoro, grazie alla nostra intelligenza.

Il diritto di voto è una grande conquista, ma chi lo ha mortificato di più? Chi si presenta agli elettori come alternativa alle destre e poi fa lo sporco lavoro delle destre sul terreno economico e privatizza, promuove l’autonomia differenziata per l’Emilia Romagna al pari della Lega, oppure chi, prendendo lo 0,3% dei voti ha soltanto detto a tutti: ecco, guardatemi, sono qui. Non sono utile solo perché chi è utile lo è prima di tutto per quell’economia che non creerà benessere per gli sfruttati, ma soltanto per gli sfruttatori.

Parole antiche, anacronistiche. Forse anche retoriche, visto che non si scappa dall’ingranaggio della macchina, messo in moto dall’alternanza tra quelli che oggi tornano (o sembrano tornare ad essere) i due poli principali della politica italiana.

Ma, comunque si giri la frittata, il sapore è sempre uno soltanto.

MARCO SFERINI

27 gennaio 2020

foto: screenshot

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