Il sesso biologico e l’esperienza dei nostri corpi

Ddl Zan. Tra lettere e appelli, le diverse posizioni all'interno di una parte del femminismo italiano

Fa discutere il ddl Zan contro l’omotransfobia e la questione del contendere non è da sottovalutare perché proviene da una parte del femminismo italiano.

L’undici giugno Se non ora quando – Libere in una lettera aperta ha chiesto maggiore riflessione sui termini utilizzati all’interno della proposta che andrebbero a «cancellare», secondo Francesca Izzo, Cristina Comencini, Licia Conte, Fabrizia Giuliani e altre attiviste, il sesso biologico. Il pericolo è dettato dalla espressione «identità di genere» che andrebbe sostituito con «transessualità».

Le ragioni di tale disagio sono spiegate riferendosi ad alcuni episodi internazionali (il caso J.K. Rowling, il caso Sylviane Agacinski ma anche, per rimanere in Italia, la condizione di Arcilesbica per le sue posizioni contro la gpa), da cui proverrebbero «rischi di criminalizzazione delle femministe e di tutte coloro che rivendicano la differenza di sesso».

Il punto che crea dissapori è però il rapporto tra sesso e genere, soprattutto quando non è ben collocato e distinguibile. Secondo Snoq, il guadagno del femminismo risiederebbe in una appartenenza al puro dato biologico (che ci dice sì qualcosa di importante ma non l’intero di una esperienza come quando si nomina la differenza sessuale).

L’identità di genere espressa nel ddl sarebbe dunque un costrutto ideologico teso a neutralizzare «le donne». Nonostante ciò ritengono vi sia bisogno di una legge ma al contempo non spiegano il motivo per cui chiedere dei diritti per chi non li ha costituirebbe una sottrazione per chi li ha.

Serve allora chiarezza, per evitare di scivolare in semplificazioni di piani discordanti, proprio perché la discussione avviata non è banale; ne sono convinte altre femministe che ieri hanno pubblicato sul sito di Repubblica un appello (tra le firmatarie compaiono Maria Luisa Boccia, Laura Onofri, Dacia Maraini, Lea Melandri, Tamar Pitch, Lidia Ravera e Giorgia Serughetti – intervistata qui) in cui ribadiscono si tratti in entrambi i termini del discorso di esperienze, nessuna delle quali intende rimuovere l’altra e aggiungono: «sostenere questa legge non significa rinunciare a un pensiero e a un’elaborazione sui nostri corpi, o abbracciare un neutro declinato al maschile».

Non c’è dunque nessuna faglia, né una sostituzione nell’espressione «identità di genere» che metta a repentaglio «il corpo in cui siamo nate».

Inoltre, invocare la «transessualità», consapevoli che «in ambito giuridico non ha alcun riscontro» aprirebbe a un percorso ancora più doloroso e ingiusto.

Sembra allora che il ddl Zan abbia risentito di deduzioni affrettate; singolare accada per un disegno di legge contro le discriminazioni e l’odio (tra cui compare anche la misoginia), perché non prende parola sul restringimento di un simbolico o della libertà femminile né sdogana tra le righe la negazione di appartenere al proprio sesso di nascita. Si sta dicendo altro.

ALESSANDRA PIGLIARU

da il manifesto.it

Foto di rihaij da Pixabay

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