Il nostro Berlinguer, prima e dopo la radiazione

Non era chiuso, invece era ironico; ma lo scoprii dopo. Quando faceva un comizio non strillava, ragionava, era «sincero». Perciò era popolare, il contrario di populista
Giancarlo Pajetta ed Enrico Berlinguer nel 1969

Quell’11 giugno dell’84 in cui Enrico Berlinguer si accasciò per un improvviso malore sul palco dove, a Padova, aveva appena tenuto un comizio, ero a Trieste per una iniziativa organizzata dalla federazione del Pci, non ricordo su che tema. A parlare c’era anche Aldo Tortorella e al termine, come è consuetudine, siamo andati a cena con i compagni.

È mentre stavamo mangiando che arriva al ristorante una telefonata per Aldo, membro, allora, della segreteria del Pci. La inconsueta chiamata ha una ragione: lo hanno informato che Berlinguer è stato ricoverato. Gravissimo.

È davvero troppo tardi per correre a Padova, partiamo all’alba del giorno successivo, accorati arriviamo all’ospedale e ci è concesso di vederlo da lontano. Fuori si erano addensati i compagni, tutti in un lugubre silenzio.

Il resto della vicenda la conoscete. A me che, fortuitamente, ho potuto vederlo in quel letto di ospedale quell’immagine è rimasta incardinata: ogni volta che viene nominato quel nome è a quella che ritorno.

Con sgomento e dolore. E mi ha commosso, ora, il ricordo che ne ha tracciato sua figlia Bianca, non le tante memorie agiografiche che hanno celebrato il 35mo anniversario della sua morte improvvisa.

Dolore e sgomento veri, sebbene fosse stato proprio lui – forse non proprio volente – a buttarmi dalla finestra, ché questa è stata per me la radiazione dal partito in cui avevo già militato per 22 anni.

L’avevo incontrato nel ’47, ancor prima di iscrivermi al Pci, nella sede del Fronte della gioventù, così si chiamava l’organizzazione antifascista che raccoglieva giovani comunisti e socialisti e dove appresi i primi rudimenti della militanza politica. Alla prima riunione a Roma nella sede che sorgeva nel parco del Celio, mi chiese, ricordo, di spostare una panca per far posto a chi arrivava. Si trattò solo della prima indicazione, perché poi Enrico Berlinguer divenne il mio segretario nella Fgci appena ricostituita. Dove sono rimasta a lungo, direttore, dopo Sandro Curzi, del suo settimanale, Nuova Generazione.

La Fgci abitava allora a Botteghe Oscure, al primo piano, quello dimesso con i soffitti bassi, subito sotto quello nobile del segretario del partito, ancora Togliatti. La stanza di Berlinguer restava quasi sempre chiusa. Nel senso che lui mai si univa ai nostri schiamazzi negli altri locali. Come si sa Enrico era austero. E severo. Si andava a parlare con lui solo se era proprio indispensabile e con timore. Forse – abbiamo sempre pensato – è così perché già da giovanissimo aveva dovuto subire la scorta, che per un ragazzo è reclusione.

Austera era però anche tutta la Fgci, 400.000 iscritti, solo, e a lungo, il 2 per cento di studenti, il resto mezzadri e aspiranti operai: si deve arrivare alla fine degli anni ’50 perché le fabbriche, sia pure in modo molto discriminatorio, si aprissero alla nuova generazione. Dopo la sconfitta del 18 aprile 1948 l’Italia si era spaccata in due società non comunicanti: quella dei comunisti (e per un pezzo dei socialisti) e quella degli altri. La nostra era austera perché era poverissima. E poi il tema della morale e del coraggio era dominante: da qui venne la tanto discussa indicazione di Enrico di considerare nostra eroina santa Maria Goretti, uccisa perché si era ribellata a uno stupro.

In realtà Enrico non era scontroso e chiuso, era anzi ironico; ma questo lo scoprii solo in seguito. Allora avevamo troppa soggezione per capirlo. Quando faceva un comizio non strillava, ragionava. Al suo immenso funerale una donna vicino a me ebbe a dire: «Nei suoi discorsi non ci sono mai fronzoli, si vede che è sincero». Per questo era popolare, il contrario di populista.

Qualche tentativo di dialogo con «l’altro mondo», quello dei giovani della Dc che nei primi anni ’50 erano parecchio di sinistra (tanto è vero che molti di loro finirono poi per uscirne e approdare al Pci) venne fatto. Fu proprio Enrico che mi incaricò del primo approccio ufficiale, perché io dirigevo gli studenti comunisti e nelle università, per via delle organizzazioni rappresentative, un rapporto, sia pure conflittuale, era già maturato. Mi chiese di andare a parlare con il loro segretario, Malfatti (poi ministro e perfino presidente della Commissione europea), per chiedergli se fosse stato disposto ad andare come osservatore al congresso della Federazione Mondiale della gioventù che si sarebbe tenuto a Varsavia.

Lo chiamai, ma non sapevamo dove incontrarci: che io andassi nella sede Dc di piazza del Gesù impensabile, altrettanto che lui traversasse la strada per approdare a Botteghe Oscure. Finimmo così per parlarci nella sua automobile, parcheggiata a piazza del Quirinale, interrotti dai venditori di fiori, tanto che alla fine, per avere pace, Malfatti mi comprò una rosa.

Alla nostra proposta rispose di non poter essere lui ad andare ma che avrebbe inviato un suo giovane di fiducia, uno di Bergamo: Lucio Magri.

Che conobbi così, a Milano, dove gli portai il passaporto col visto polacco, poco prima della partenza del treno, che io non potei prendere perché, per l’ennesima volta, la Questura, in nome dei miei primi reati politici, mi aveva negato il documento.

Poi tante cose, e quindi la radiazione. Che cercò di evitare, con proposte concilianti, ma tutte rigidamente chiuse nel quadro di quanto il dissenso poteva esser considerato legittimo dal Pci di allora. Noi del Manifesto, come sapete, rifiutammo.

I dieci anni successivi Berlinguer non l’ho più visto. Furono anni di rottura totale, il Pci disse di noi cose terribili. E noi attaccammo frontalmente la scelta berlingueriana del compromesso storico.

E però nel 1980 ci ritrovammo: in un famoso comitato centrale tenuto, per via del tremendo terremoto della vicina Irpinia, a Salerno ( e per questo l’evento venne chiamato la «seconda svolta di Salerno», in ricordo di quella operata da Togliatti al suo arrivo in Italia nel ’44). Berlinguer abbandonò infatti l’ipotesi delle «larghe intese», dimostratasi così infruttuosa. E rilanciò la proposta di unità delle sinistre.

Poco dopo ci fu la rottura ufficiale con il PcUs. Tardiva, purtroppo, perché a quel punto il vento degli anni ’70, che in occidente con le lotte operaie e studentesche, nel Terzo mondo con il fronte dei non allineati, e anche nell’Est Europa con le rivolte operaie in Polonia a Danzica e Stettino, aveva mutato i rapporti di forza che erano stati in favore della sinistra e si era spento. Tanto è vero che quella rottura fu interpretata da molti non come la proposta di un nuovo e diverso comunismo, ma come l’impossibilità di realizzarlo.

Non Berlinguer, che non era affatto arreso, e in qui primi anni ’80, a fronte dell’arrogante anticomunismo craxiano, radicalizzò la sua linea.

Non senza contrasti: la sua critica al degrado delle istituzioni nell’intervista a Scalfari, non fu la liquidazione della orgogliosa «diversità comunista» ( che era rifiuto dell’omologazione), ma un lungimirante attacco al potere; così come la proposta dell’austerità non fu una scelta «codina», ma un primo approccio alla tematica ecologica che muoveva allora primi passi. Si aprì anche al femminismo: ricordo la sua attenta partecipazione ad un convegno, a Milano, promosso dalla Libreria delle Donne.

Tra l’altro nell’83 nella famosa intervista a Mixer condotta da Gianni Minoli aveva definito Luigi Pintor come «il miglior giornalista italiano».

Soprattutto sostenne e mobilitò il Pci dall’81 all’83, a cominciare da quello siciliano con Pio La Torre – che venne poi assassinato – in grandi manifestazioni contro le derive della guerra fredda di cui era sempre interprete la Nato e quindi contro l’installazione a Comiso dei missili nucleari Pershing II e Cruise. Fu quella di Comiso una grande stagione del pacifismo europeo e italiano, unitaria, anche grazie a lui.

Tutto questo ci portò, a noi del Pdup (il Partito di unità proletaria), ad un inedita collaborazione col Pci. Che ebbe alla fine un esito importante, quando Enrico Berlinguer, un po’ a sorpresa, venne ad assistere all’apertura del nostro congresso, a Milano, marzo 1984. E, ascoltata la relazione di Lucio Magri, andò da lui e gli disse: «Ma perché non rientrate nel partito, adesso che le ragioni del dissenso sono state superate?». Con qualche travaglio ma con l’accordo della grande maggioranza del Pdup, accettammo la proposta.

Eravamo ai primi passi del processo quando a Padova la sua vita fu bruscamente interrotta. E tutto cambiò. Berlinguer quella richiesta di rientro l’aveva fatta perché, sebbene segretario del Pci, era rimasto isolato proprio sulla linea che a noi ci aveva invece ravvicinato. Eravamo certo un piccolo partito, ma dotato di un migliaio di quadri capaci e avremmo forse potuto influire sul dibattito che stava, sia pure mai ufficialmente, già dividendo il gruppo dirigente del Pci.

E che alla fine, Berlinguer ormai scomparso, portò alla malaugurata scelta di sciogliere il partito comunista.

LUCIANA CASTELLINA

da il manifesto.it

foto tratta da Wikipedia

categorie
Comunismo e comunisti

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