Il fascino marziano di William Hurt, attore minimalista

Cinema. Morto a 71 anni, una carriera a Hollywood e nel teatro. Vinse l’Oscar per «Il bacio della donna ragno»

«Sono interessato a tutti gli orizzonti, e a quello che c’è oltre ognuno di essi. Conosciamo il fondo del mare meno dello spazio. Mi piace nuotare galleggiare e volare», dichiarava William Hurt in un’intervista pubblicata su «The Guardian» nel 2015, in seguito all’uscita del telefilm The Challenger Disaster. Sono parole che evocano bene quella particolare qualità ultraterrena che William Hurt – scomparso domenica a settantun anni – portava con sé, di ruolo in ruolo, insieme alla curiosità che ha animato la sua carriera, giocata tra il palcoscenico, il cinema e, più recentemente, la televisione.

Biondo, con gli occhi grigio-azzurri e il fisico di un atleta all American, Hurt era un attore minimalista, che amava lavorare di dettaglio, su gesti ed espressioni del volto impercettibili. Era capace di tradurre l’intera concettualizzazione di un personaggio nel magnetismo del suo sguardo, di trasformare la benevola calma zen che lo avvolgeva in minaccia improvvisa o in sdegno beffardo.

La studiata lentezza con cui cadenzava sia movimenti che le parole avvolgevano le sue interpretazioni di un erotismo cerebrale, un po’ «marziano», che era parte del suo fascino e che sapeva virare in direzioni inaspettate, creando intorno a sé un senso di suspense.

Il suo periodo d’oro rimane probabilmente quello degli anni Ottanta quando, dopo l’esordio in Stati di allucinazione, di Ken Russell (1980) è stato l’avvocato amante di Kathleen Turner nel neo noir di Lawrence Kasdan Brivido caldo (1981). Sempre con Kasdan (il regista con cui ha lavorato più spesso e per cui avrebbe poi interpretato anche Turista per caso e Ti amerò… fino ad ammazzarti), Il grande freddo è del 1983, lo stesso anno dell’adattamento da Martin Cruz Smith, Gorky Park, diretto da Michael Apted. L’Oscar, insieme al premio di migliore attore a Cannes, è arrivato con Il bacio della donna ragno, duetto tra un rivoluzionario di sinistra (Raul Julia) e un omosessuale condannato per stupro (Hurt), in una cella di prigione brasiliana, tratto dal romanzo di Manuel Puig e diretto da Hector Babenco.

Fu nominato agli Oscar anche per i due film successivi, Figli di un dio minore e Dentro la notizia, l’acida commedia di James Brooks, con Holly Hunter e Albert Brooks, in cui Hurt è un telegiornalista bellone e ambizioso ma superficiale. Nato a Washington – suo padre era un diplomatico, sua madre lavorava a Time Inc. e avrebbe sposato il figlio del fondatore Henry Luce, quando William aveva sei anni – Hurt si era iscritto ai corsi di teologia della Tuft University prima di passare alla recitazione che studiò a New York, alla Juilliard, insieme a Robin Williams e Christopher Reeves. Dal 1977 entrò a fare parte della Circle Repertory Company, cominciando così a farsi notare sui palcoscenici di New York.

Nel 1981, il critico teatrale del «New York Times» Frank Rich scrisse di lui: «Anche se William Hurt è stato scoperto da Hollywood, non ha perso nulla di quella folle intensità che rende una gioia vederlo a teatro. Quello che rende questo giovane attore speciale – e, inevitabilmente ne farà una star – è la capacità di creare una sua realtà propria sul palcoscenico».

«Il teatro è la lingua che parlo meglio e con cui sono più in sintonia di quanto lo sia con l’inglese» disse l’attore nel 1980, confermando la sua preferenza per il medium. Nel 1985 avrebbe vinto un Tony per Hurlyburly, di David Rabe, diretto da Mike Nichols, con Cynthya Nixon, Sigourney Weaver, Harvey Keitel e Ben Stiller.

Amato molto dagli autori europei, Hurt ha lavorato anche con Chantal Ackerman (Un divano a New York), Wim Wenders (Fino alla fine del mondo), Franco Zeffirelli (Jane Eyre) e Ivan Szabo (Sunshine). Memorabili le sue apparizioni in The Village, di M.Night Shyamalan e in A History of Violence, di David Cronenberg. E l’aura intellettuale che lo ha seguito per tutta la carriera non gli ha impedito di far parte del Marvel Universe, nel ruolo di Thaddeus Ross, a partire da Captain America: Civil War.

GIULIA D’AGNOLO VALLAN

da il manifesto.it

foto: screenshot

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