Come nei serial anni Trenta di John Whitney (solo con un budget da quasi duecento milioni di dollari) Dune: Part Two inizia esattamente dove ci aveva lasciati il primo capitolo dell’adattamento del libro di Frank Herbert, in mezzo alle distese sabbiose di Arrakis, in cui Paul Atreides (Timothée Chalamet), e sua madre, la Bene Gesserit Jessica (Rebecca Ferguson), hanno trovato scampo dopo l’omicidio del duca Leto e il massacro del suo esercito.

Scampo solo per dire, in realtà, perché la fiducia accordata loro dal drappello di Freman (la popolazione del deserto che abita Arrakis e ne estrae la preziosa «spezia») in cui si sono imbattuti, e di cui Paul ha conquistato il rispetto uccidendo in duello un loro guerriero, sembra tenue. Lo guarda con un certo sospetto anche Choi (Zendaya) la misteriosa ragazza con gli occhi blu che lui vedeva nei sogni quando era ancora a Caladan, il suo pianeta nativo.

Come Whitney faceva genialmente con i suoi «tre rulli», girati in polveroso bianco nero, nei dintorni di Los Angeles, Denis Villeneuve, alla soglia di tre ore di film, nel 2021, ci aveva lasciati appesi, sull’orlo del precipizio, a chiederci cosa sarebbe successo nel sequel. Anche se la storia del giovane Paul – forse vero profeta, forse falso – uno la sapeva già, perché aveva letto il romanzo o aveva guardato l’indimenticabilmente lisergica trasposizione realizzata da David Lynch nel 1984.

Fin dall’incipit, il regista canadese imprime a questo secondo film un ritmo meno puramente contemplativo, rispetto al primo, che fu un grande successo nonostante la mancanza quasi totale di trama e (un pregio, sicuramente) di banale manipolazione emotiva. Il distillato di tragedia greca e controcultura, su cui è basata l’epica di Herbert, e che dominava Dune, qui è inframmezzato da scene d’azione, in un crescendo di battaglie sempre più enormi e distruttive – e portato avanti secondo un andamento narrativo più fitto.

Pur senza venir meno ai tempi necessari per sviluppare la maestosità grandioso/pensosa che caratterizza la sua interpretazione del libro, e che – da Arrival in poi – fa di Villeneuve un autore di fantasy più vicino al realismo materico di sublimi paesaggisti del genere, come George Miller e Peter Jackson, che ai mondi stilizzati di Star Wars (ispirato ai serial di Whitney, per ammissione dello stesso Lucas) o del Marvel Universe.

Nella qualità elementale e sensoriale (il suono è quasi un personaggio del film) del suo dittico Dune – le sabbie, la roccia, il vento, il cielo che cambia colore nella notte, l’orizzonte su cui si appoggia la palla infuocata del sole come in un quadro di Rothko – è gran parte del suo fascino. In questo senso, i due film non sono molto differenti uno dall’altro.

Diversamente da Lynch, che però di Herbert aveva colto bene i neri pece e la vena surrealista, Villeneuve amava il libro fin da ragazzo, e lo conosce a fondo: il suo controllo della taglia, dello scandire del racconto e dell’intricato rapporto dei mondi e personaggi, attraverso diverse dimensioni temporali, è preciso, sicuro.

In Dune: Part Two delinea meglio anche i grandi temi della politica che si annidavano nelle fittissime pagine di Herbert – la crisi ambientale, la tentazione maligna dello strapotere, l’effetto distruttivo della guerra, quello corrosivo dei fondamentalismi religiosi che fioriscono dalla povertà e dall’ignoranza – ma trova spazio anche per una dimensione più fan boy, quasi giocosa, in cui non solo l’ossatura mitologica ma anche il funzionamento pratico dei mondi di Herbert viene articolato in maggiore dettaglio.

Così, mentre Paul studia i modi della popolazione del deserto, per diventare uno di loro, vediamo i pistoni pulsanti con cui vengono chiamati i giganteschi vermi che i Fremen cavalcano a velocità supersonica nella sabbia; l’estrazione della spezia luccicante che spalanca il cervello; la misteriosa acqua della vita con cui si vede nel futuro (letale per gli uomini ma che alcune donne, specie se Bene Gesserit, possono sopportare); o il meccanismo con cui i Fremen risucchiano l’acqua dal corpo dei nemici e la usano per il sistema di raffreddamento delle tute protettive necessarie ad affrontare la torrida temperatura di Arrakis (mentre, più poeticamente, l’acqua estratta dai loro caduti finisce in una gigantesca, silenziosa «piscine delle anime»).

Villeneuve dedica un intero capitolo in bianco e nero a Feyd Rautha-Harkonnen (Austin Butler; era Sting nel film di Lynch), psicopatico (scopriremo) cugino di Paul, che culmina in un torneo da circo massimo a beneficio del sadico barone «galleggiante» nell’aria, Vladimir Harkonnen (Stellan Skarsgard). Tra tanti tableaux monumentali, Villeneuve ci/si lascia il tempo di osservare il topo che fa capolino da una duna immensa – unica creatura che sopravvive nel deserto in modo completamente autosufficiente. Paul prenderà da quell’animale piccolissimo e intelligente il suo nuovo nome da Freman, Muad’Dib.

Diviso tra l’amore per Chani (un simbolo di libertà e laicità, che rappresenta i suoi istinti migliori) e le ambizioni di sua madre, assurta ai vertici delle Bene Gesserit, che lo spinge sempre di più a prendere le redini della guerra santa (Jihad era la definizione di Herbert), Paul cresce nel suo ruolo di condottiero, oscillando titubante tra le luce e la tenebra. Tra pace a guerra, democrazia e tirannia teocratica.

Tra il miraggio di una galassia tornata verde e la catastrofe nucleare. Da una spiaggia nel futuro, Alia, la sorella non nata, gli promette che sarà al suo fianco. E, mentre Dune: Part Two palleggia con i punti interrogativi che stregano il nostro presente, Dune Messiah (dal secondo libro di Herbert) è già in via di scrittura.

GIULIO D’AGNOLO VALLAN

da il manifesto.it

foto: screenshot You Tube