Il balbettio istituzionale nel “tira e molla” sui vaccini

Dopo un anno e mezzo di pandemia dovremmo essere abituati al rimbalzare delle notizie, così come al repentino cambio di strategia nella produzione dei vaccini, nella loro diffusione e...

Dopo un anno e mezzo di pandemia dovremmo essere abituati al rimbalzare delle notizie, così come al repentino cambio di strategia nella produzione dei vaccini, nella loro diffusione e nel loro inoculamento nella popolazione.

Ne abbiamo viste di tutti i colori: scienziati che negavano la virulenza del Covid-19, forti delle certezze fornitegli dai dati riguardanti i precedenti coronavirus; altri che, invece, per la loro cautela, venivano additati come vecchie civette del castello, menagrami e fiaccatori dell’italico ottimismo; autorizzazioni date e poi, nel giro di un giorno, ritirate nel nome di nuove evidenze scientifiche; opinioni del CTS capovoltesi altrettanto repentinamente e confronti fra gli Stati europei sull’evolversi della crisi sanitaria, economica e sociale, spingendosi sul terreno della solidarietà e del mutuo soccorso soltanto quando si era certi di non penalizzarsi troppo.

Insomma, dopo un anno e mezzo di tira e molla, di dati e controdati, di punti e contrappunti, stabilite le norme generali sulla governabilità dell’emergenza a livello europeo (tradotto: spartiti i soldi del “Next Generation UE” scambiati con adeguamenti alle politiche liberiste continentali, tese sempre e soltanto a favorire i paesi più competitivi sul piano internazionale e globale), siamo nuovamente qui a discutere se il vaccino di Astrazeneca può o non può nuocere ai minori di anni 50.

Se fosse una telenovela, sarebbe una delle più lunghe e anche più complicate da seguire per sceneggiatura e per continui, improvvisi colpi di scena: fino a pochi giorni fa il Comitato Tecnico Scientifico aveva, al pari di EMA, dato parere favorevole alla somministrazione anche tra i più giovani. Tanto che le regioni si erano affrettate  a dare il via ai cosiddetti “Open day” per ragazze e ragazzi desiderosi di mettersi al sicuro e poter andare in vacanza.

Ma due casi di trombosi riscontrati in due giovani donne liguri mettono tutto nuovamente in discussione. Non solo abbiamo imparato in questo biennio pandemico termini  come “lockdown“, “cluster“, “hub“, “contact tracing“, “DAD“, “DPCM” e così via (i primi altrimenti detti: “chiusura totale“, “focolaio“, “centro [vaccinale]” e “tracciamento dei contatti“) che, altrimenti, ci sarebbero stati del tutto sconosciuti. Abbiamo imparato che tutte queste parole sono state usate per determinare una serie di comportamenti cui ci siamo dovuti adeguare per tutelare la salute nostra e di tutte e tutti. Ed abbiamo altresì imparato un binomio curioso, non fosse altro per quello che ci vuole comunicare in quanto a sicurezza: il “rapporto rischi-benefici” di una determinata cura. In questo caso, dei vaccini.

Abbiamo seguito tutte le regole, nella stragrande maggioranza dei casi, con correttezza e senso di responsabilita: diciamo in un rapporto da 70 a 30 a favore della coscienziosità, della consapevolezza del pericolo rappresentato dal Covid-19 per chiunque ma, prima di tutto, per le persone più anziane, fragili e già malate. Tre italiani su dieci invece hanno maturato opioni slegate dall’oggettività scientifica e hanno preferito affidarsi alle fantasie di complotto, creando nuovi negazionismi e riduzionismi di un fatto epocale che ha cambiato e cambierà il corso della storia del mondo. Almeno nell’immediato.

Ma effettivamente, anche per il più razionale dei cittadini di questo Paese, ascoltare i discorsi degli scienziati che misurano i benefici dei vaccini in termini di relatività, lasciando all’eventualità il compito di disporre le future rettifiche in merito, non è assolutamente rassicurante. E’ vero: su milioni di dosi di Astrazeneca inoculate in Gran Bretagna, i casi di trombosi sono, per la legge dei grandi numeri, relativamente pochi. Ma non trascurabili. Ed infatti non vengono trascurati,:ma la comunicazione scientifica è molto diversa da quella giornalistica.

Se per un infettivologo o un microbiologo tutto si misura con confronti e incroci di dati che, alla fine, permettono di garantire un rapporto tra rischi e benefici a favore dei secondi, per un cronista un caso di trombosi è per l’appunto un caso; due casi cominciano ad essere un indizio e tre – avrebbe detto Agatha Christie –  fanno una prova. Ma va messa la dovuta attenzione a non biasimare il dovere di fare informazione e di farla dando le notizie così, per come sono e per il semplice – a volte drammatico – fatto che esse così sono e devono essere riportate all’opinione pubblica.

La percezione del sentire comune, per ognuno di noi, finirà con l’essere la somma dei diversi approcci con cui è stata trattata la tematica sia dei casi di trombosi sia dei grandi numeri sulle vaccinazioni che non hanno avuto effetti gravi o letali. Casi di questo tipo possono essere differentemente letti a seconda che si appartenga al 70% degli italiani che coltivano il dubbio fondandolo sulla ragionevolezza e sul senso civico, oppure al 30% che nega la pandemia, che pensa che una calamita si possa attaccare ad un braccio dopo l’iniziezione vaccinale.

Per questo, sarebbe imporante che le istituzioni preposte alla tutela della salute pubblica abbandonassero una certa improvvisazione sia nella comunicazione, sia nella traduzione in pratica delle raccomandazioni e dei consigli del CTS. Ci sono dichiarazioni e dichiarazioni: alcune sono innoque perché finiscono con il risultare più che altro dei lapsus, nonostante abbiano creato un po’ di scompiglio, come: «Basta sprecare dosi, chiunque passa va vaccinato»; ce ne sono altre invece che lasciano il segno: sono quelle che riguardano la sicurezza delle persone che potrebbe essere inficiata dal grado di eventualità lasciato al caso proprio sugli effetti dei vaccini stessi.

Il tira e molla su AstraZeneca, dismessa dagli ordinativi futuri per l’approviggionamento di dosi in tutta l’Unione Europea, non fa bene all’opinione pubblica e non fa bene nemmeno all’opinione che chiunque di noi può avere sulla fondatezza delle risultanze scientifiche. E’ ovvio che si finisce per sentirsi un po’ cavia anche chi perora la causa della immunizzazione, non nega il Covid-19 e ritiene giusto affidarsi al parere degli scienziati.

Dovremmo forse dismettere uno sguardo fideistico nei cofronti della medicina e guardarla come terreno di sperimentazione continua, per l’appunto di “ricerca” che non è però da stigmatizzare; semmai è da valorizzare proprio per la naturale persistenza cui obbedise il principio di studio, di acquisizione di sempre maggiori scoperte per il bene comune. Nonostante le multinazionali del farmaco, nonostante il capitalismo che tutto mercifica e tutto vende e compra.

Ecco, se anche le nostre istituzioni facessero la loro parte, evitando di sopravvalutare da un lato la capacità critica della popolazione e provando, dall’altro lato a mettersi nei panni di chi è bombardato ogni giorno da informazioni che si contraddicono nel giro di un nanosecondo, allora forse anche la fiducia nel grande lavoro medico fatto sarebbe maggiore e avremmo tutti più certezze e più senso critico, nella migliore delle sue declinazioni intellettuali e sociali.

Sapendo che i vaccini non sono prodotti dalle multinazionali per salvarci, ma per fare profitto. Ma sapendo altresì che dietro tutto questo c’è comunque il lavoro di donne e uomini che, tante volte, scavalcano questi dettami del mercato e ciò che fanno è anche merito della loro passione, della loro dedizione per diminure le sofferenze, per sostenere quel bene comune troppe volte messo in secondo, terzo piano.

MARCO SFERINI

10 giugno 2021

foto: screenshot

categorie
Marco Sferini

altri articoli