Emancipazione femminile e sociale: nulla è dato per scontato

C’è un vecchio armamentario di pensieri pregiudiziali che si è molto bene inserito nella nostra presunta modernità: riguarda il ruolo della donna in una società che dovrebbe addirittura essere...

C’è un vecchio armamentario di pensieri pregiudiziali che si è molto bene inserito nella nostra presunta modernità: riguarda il ruolo della donna in una società che dovrebbe addirittura essere post-moderna, quindi ben al di là della linea d’orizzonte in cui si finge di vedere il continuo superamento delle ancestralissime incrostazioni di un conservatorismo bigotto che ha avuto vita facile anche a sinistra.

In questo cassone in cui teniamo, chi più chi meno, gli attrezzi della prevenzione mentale, ideale, spirituale e pseudo-culturale, c’è posto per una quantità di luoghi comuni che, sia detto ad onor del vero, oggi è la destra ad ereditare prioritariamente. Come espressione di un ritrovato connubio con quel maschilismo patriarcale che, a partire dalla fine dell’800, ha caratterizzato i partiti e i movimenti che storcevano il naso al sentir parlare di suffragio universale senza altre aggettivazioni, di femminismo, di donne al di fuori della domesticità.

La sinistra è riuscita, in qualche modo, dopo la fine dei parametri ideologici stabiliti nella “prima repubblica“, ad abbandonare il familismo e la concezione esclusivamente eterosessuale che ne discendeva, come una sorta di antefatto primordiale, e per molti versi pure un po’ primitiveggiante, che avrebbe avuto nella Costituzione una legittimazione superdemocratica e, quindi, popolare, sociale, civile e morale.

In realtà, per quanto la Carta del 1948 sia stata intesa in quel modo, pur senza voler discriminare niente e nessuno, il lessico utilizzato per difendere i diritti universali di ogni cittadina e di ogni cittadino, lascia soprattutto oggi aperta all’interpretazione la norma, visto che si parla di famiglia ma non si entra nel merito della sua composizione. E’ evidente che, ricondotta al tempo della sua nascita, la Costituente si riferisce ai cosiddetti “diritti naturali” della famiglia stessa pensandola per come era stata sino ad allora pensata: uomo e donna, donna e uomo con relativa figliolanza al seguito.

Così pure, quando, sempre nell’articolo 29, al secondo paragrafo si parla di matrimonio, lo stesso dibattito nelle commissioni dell’Assemblea ci dice che le diatribe tra cattolici e comunisti – socialisti vertevano non tanto sull’elemento dato per scontato, ossia che nessun’altra famiglia potesse essere presa in considerazione se non quella “naturale“, quella “classica“, quella che oggi qualcuno appella come “tradizionale“, quanto semmai sulla questione dell’indissolubilità del legame.

Il compromesso fu trovato nel non inserire questo principio nella Carta. Di lasciare alla legiferazione ordinaria il compito di approfondire successivamente la materia, visto che non era poi così scontato che tutto sarebbe rimasto com’era uscito da vent’anni di fascismo e da cinque di guerra mondiale. I valori storico-antropologici di una società timorata di Dio, tutta Patria e famiglia (ricorda qualcosa oggi?) non avrebbero resistito nemmeno vent’anni al cambiamento.

L’introduzione del suffragio universale, la partecipazione delle donne alla vita politica attivamente e passivamente, era quella primissima innovazione che veniva ripresa dalla mai entrata in vigore Costituzione della Repubblica Romana del 1849 e che, prima al mondo, avrebbe determinato una vera rivoluzione civile in seno all’Europa delle teste coronate e dei gabinetti conservatori e timidamente liberali.

La Carta del 1948 va, come è naturale, dati i tempi e il necessario mutamento che si impone dopo la fine del conflitto e lo sconquasso globale, molto oltre in termini di uguaglianza tra cittadine e cittadini, tra donne e uomini, tra femmine e maschi. Il principio di uguaglianza lo si stabilisce quasi aprioristicamente nell’ambito familiare, anche se – per fare un esempio – rimane nel codice penale il ricorso al “delitto d’onore“, quindi alla vendetta del marito tradito dalla moglie.

Occorrerà molto tempo affinché le leggi del Codice Rocco si adeguino, piano piano, alla Costituzione stessa: le maggiori resistenze vengono proprio dalla realtà concreta della vita di tutti i giorni; da piccole Italie nell’Italia che guarda all’America, all’Europa e che, forte della presenza della Chiesa cattolica, si divide tra conservatorismo clericale e progressismo comunista e socialista.

Ma il principio di uguaglianza è in cammino. Nulla può fermarlo. A partire dalla disciplina dei contratti di lavoro, dal ruolo della donna fuori casa: in fabbrica prima di tutto. Le stesse imprese a conduzione familiare si devono uniformare al carattere di uguaglianza tra i sessi, al reciproco riconoscimento dell’equipollenza e non più della prevalenza dell’uomo sulla donna. Rimane la gerarchia organizzativa della produzione, ma si tenta di superare quella dettata dal mero aspetto del genere: il maschile e il femminile devono avere pari dignità. Pari diritti e pari doveri.

Negli anni ’70 si legifererà in tal senso, per meglio attribuire questa parificazione, per fare in modo che arrivi anche laddove è più difficile la penetrazione della società disegnata dal dettato costituzionale: in particolare nelle zone più depresse del Mezzogiorno, così come delle Isole. Ma i pregiudizi hanno la testa molto più dura delle Leggi e, a volte, finiscono col prevalere, non tanto in punta di diritto se portati in tribunale, ma nella riorganizzazione sociale.

E’ lì che la donna, pur potendo avere diritti sempre più estesi, che la sottraggono all’idea e al ruolo di cittadina di serie B, rimane intrappolata a lungo: in un tradizionalismo che sbarra alle norme la strada della traduzione pratica e del mutamento del comportamento tanto del singolo quanto della collettività. La questione dei beni patrimoniali è, proprio nei decenni successivi l’entrata in vigore della Carta fondamentale della Repubblica, uno dei nodi più intricati da sbrogliare.

Si parlerà ancora a lungo di “dote“. Mentre in molti paesi occidentali questo retaggio patriarcale sarà superato in larga parte nella prima metà del Novecento, in Italia toccherà attendere il 1975. E proprio in quell’anno, sarà inoltre fissata l’età minima per contrarre il matrimonio: non più ventuno, ma diciotto anni. Si riconosce, per lo meno, che le nuove generazioni sono sufficientemente in grado di essere mature per una scelta così importante prima di quanto li si fosse giudicati tali, sottomessi al nume tutelare della famiglia.

La questione femminile, dunque, entra nel vivo del dibattito della comunità nazionale che si risolleva dalle macerie della guerra e della dittatura. Si inizia a parlare di divorzio, di aborto, di convivenza senza matrimonio, di formalità del “” pronunciato davanti ad un sacerdote, di libera scelta, di autonomia e di indipendenza. Di pieno possesso tanto della propria mente quanto del proprio corpo. Riprendendo sempre il principio di uguaglianza già incontrato, all’articolo 30 la Costituzione affida ad entrambi i genitori il diritto uguale di crescere ed educare i figli.

La maternità e la paternità sono, quindi, equiparate come ruoli ugualmente importanti e necessari. Ovviamente, anche in questo frangente, dovrà passare parecchio tempo affinché i rapporti di forza economici consentano alle classi più fragili e disagiate di poter stabilire una connessione tra principio normativo e realtà dei fatti quotidiani. Non si smetterà quasi mai di parlare di “uomo di casa“, del “portare i pantaloni” come segno evidente di una superiorità per forza, per nervatura, rispetto al luogo comune sulla “debolezza” femminile.

La Repubblica si impegna, all’articolo 31 della Costituzione, ad agevolare proprio le misure economiche atte al provvedere per le famiglie più numerose: la condizione esplicitamente “proletaria” di molta gente è un segno della povertà crescente, contraccolpo del conflitto bellico, della cronicizzazione della miseria nel Mezzogiorno, dell’unico modo possibile per sopravvivere. Fare figli e averne un qualche ritorno in termini di provvidenza. Siamo, pure qui, come all’articolo 29, nel perimetro dei “diritti naturali“.

La Repubblica non concede, ma riconosce questi diritti. L’impegno delle istituzioni dovrebbe dunque essere quello di adoperarsi per una applicazione degli stessi, visto che non sono da formulare: esistono, ci sono e se ne prende atto senza alcun proclama necessario per il loro riconoscimento. La donna ottiene quello che le spettava dopo la dimostrazione di saper fare tutto: anche combattere accanto agli uomini nella lotta partigiana, di sostenerla con le pericolosissime azioni gappiste nelle città e non semplicemente essere considerata come una appendice della Resistenza.

Le partigiane rompono per prime questa pregiudiziale maschilista: non sono le rammendatrici delle calze dei combattenti. Sono persone, cittadine di una nuova Italia che vogliono contribuire a creare, per avere finalmente quel posto che spetta loro in una società non più patriarcale, non più brutalmente innervata sul principio della muscolarità virile del maschio che, a torso nudo, si espone alle intemperie del mondo e affronta con tutta l’accumulata eroicità del destino delle romane genti le sorti che lo attendono.

Il tempo della pietosa retorica fascista è passato. Ma la parte della conservazione, per altri versi, la farà la Chiesa cattolica, il cui potere-autorità e, soprattutto, la cui autorevolezza in campo morale reclama un ruolo nella nuova società italiana che metta un freno al progressismo, per fare in modo che non si superi quel mondo costruito in duemila anni di invenzioni e di sotterfugi che le hanno consentito di rimanere a galla.

Fatto questo breve excursus nella storia costituzionale dell’emancipazione femminile nell’Italia del secondo dopoguerra, viene d’obbligo il paragone con l’odiernità. E qui sono dolori. Perché una buona fetta di quelle enunciazioni normative, che hanno progressivamente trovato una loro concretazione nella definizione stessa, continua e incessante, di nuovi rapporti interpersonali nella costruzione della società italiana moderna, proprio oggi rischiano di essere messi in discussione. Da una destra che considera i rapporti di uguaglianza tollerabili soltanto se riferiti e declinati in un certo modo.

E questo modo è la categorizzazione dei diritti secondo princìpi che fanno riferimento al luogo di nascita, alla famiglia in cui si nasce, ai desideri ed alla sessualità che si esprimono, alla cultura che si abbraccia e non invece ad un unico punto universalitico da cui partire: le differenze sono ricchezza e non tratti iniziali di stigmatizzazione. La democrazia consente di avere libertà di parola per dire anche sciocchezze senza dover subire chissà quale gogna. E nel nome di questa libertà, caricature di uomini si permettono di enunciare nuovamente gradazioni gerarchiche di ogni tipo.

Dell’inferiorità della donna rispetto all’uomo, dell’anormalità degli omosessuali rispetto agli eterosessuali, dell’autenticità dell’italiano vero per caratteri fisiognomici, colore della pelle, espressione linguistica. E’ una retrività che la destra al governo non sostiene apertamente quando tutto ciò si spinge fino alla truculenza, alla grana grossa dell’ignoranza che si fa libro, che si fa dichiarazione di ministro. Ma che, tutto sommato, un po’ le piace e non la disdegna.

Ma i diritti universali sono minacciati non dalle parole di un generale o da quelle di un ministro che parla di “sostituzione etnica”. Sono in pericolo per il progredire delle condizioni di insicurezza sociale, di una economia disastrosa in cui annegano milioni di italiani che, per questo, non si possono permettere di scegliere tra la difesa dei diritti umani e civili rispetto a quelli sociali. E’ qui che la destra penetra ed esercita una egemonia anti-culturale.

Ed è da qui che occorre ripartire per ricreare una diffusa, capillare rete di considerazioni progressiste che siano l’antefatto delle lotte necessarie alla moltiplicazione dei diritti. Le donne muoiono, come le lavoratrici e i lavoratori, ogni giorno. Uccise per mano di uomini che le vorrebbero possedere, avere soltanto per sé, perché la concezione proprietaria è il cuore della nostra società capitalista e liberista. Ciò che non possiamo dire nostro pare privarci di noi stessi.

Ciò che conta è avere e non essere. Se non correggiamo le storture antisociali, le ineguaglianze economiche e i tantissimi disagi che ne derivano, non potremo mai riprendere in considerazione una applicazione tanto della Costituzione scritta nel 1948 quanto di un suo ammodernamento che, negli articolo citati, precisi ancora meglio l’uguaglianza senza alcun se e senza alcun ma. Per tutti i tipi di amori, di desideri, di famiglie, di unioni, di affetti.

La liberazione delle donne continua e avanza là dove retrocede e scompare ogni pulsione del privato: dell’uomo che si pensa in diritto di attribuire un dovere e non di rispettare il proprio confine emozionale, la propria incapacità di relazionarsi se non fino ad un certo punto. Di accettare che i rapporti mutano di continuo e che il nostro desiderio di infinitudine dell’amore è pari al desiderio di infinitudine dell’esistenza, della vita.

Di pari passo, diritti umani e civili devono poter accompagnarsi ad una emancipazione economica che renda davvero indipendenti tutte e tutti. C’è tantissima strada da fare: basta fare un raffronto tra salari percepiti dai lavoratori e quelli percepiti dalle lavoratrici. Viviamo in una società in cui retaggi del passato si uniscono a nuovi pregiudizi del presente per un futuro incerto, dove nulla deve essere dato per scontato.

Ad iniziare dal diritto delle donne di non morire per mano degli uomini, da quelle dei lavoratori di non morire a causa della mancanza di sicurezza nei cantieri e nelle fabbriche.

MARCO SFERINI

8 marzo 2024

foto: screenshot ed elaborazione propria

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