Baudelaire e Flaubert sismografi di Raboni

Ottocento francese. Per il bicentenario della nascita dei due geni francesi, Patrizia Valduga ha raccolto da Einaudi gli scritti critici a loro dedicati da Giovanni Raboni, che tradusse e interpretò entrambi
Charles Baudelaire e Gustave Flaubert

«Blanche fille aux cheveux roux, come tradurlo, / come tradurti? (e dire / che l’ho già fatto, tanto tempo fa…)»: sono versi tolti da Lista di Spagna di Giovanni Raboni, la seconda sezione delle Canzonette mortali, composta da ventotto testi datati 1981. Patrizia Valduga, alla quale la serie è dedicata, compiva allora ventotto anni. L’incipit francese appartiene a una lirica di Baudelaire, À une mendiante rousse, una ragazza «bianca di carne, rossa di capelli» (così Raboni aveva reso i versi nel ’73) che si sovrappone allora, perfettamente, proprio alla dedicataria delle Canzonette.

Non è un caso che siano Les Fleurs du mal a innescare un cortocircuito associativo in questo ritratto femminile: nel corso di ventisei anni Raboni ha licenziato ben cinque diverse edizioni italiane dei Fiori. Così, la domanda di Lista di Spagna («come tradurlo, come tradurti?») suggerisce immediatamente al lettore l’esistenza di un rapporto triangolare: quello del poeta con la compagna, Patrizia, descritta nei tratti della rossa baudelairiana, e quello del traduttore con il suo autore-feticcio, Baudelaire appunto.

A quarant’anni dalla stesura di Lista di Spagna i vertici del triangolo restano invariati nonostante la figura si ripresenti capovolta. Patrizia Valduga ha infatti raccolto e riedito i saggi di Raboni dedicati a Baudelaire e Flaubert in occasione del bicentenario della loro nascita: Baudelaire (e Flaubert) La carne si fa parola (Einaudi, pp. 115, € 15,00).

La scelta di pubblicare un «doppio omaggio» si giustifica anche a partire dalle coincidenze che accomunano questi due geni della modernità letteraria: entrambi classe 1821, i loro capolavori, Les Fleurs du mal e Madame Bovary, furono processati nel 1857 per immoralità; nessuno dei due prese moglie, nessuno dei due ebbe figli. Tuttavia, oltre alle affinità che collegano le biografie di Baudelaire e Flaubert, Patrizia Valduga ripercorre anche, nella Postfazione al volume, i punti in comune che l’opera di Raboni dimostra nei confronti dell’uno e dell’altro. Come a dire, con René Girard, che ancora una volta – e persino in questa occasione – ogni storia di due è anche storia di tre.

Alla base sta, anzitutto, una triplice consanguineità di intelligenze. Con Flaubert, il poeta delle Case della Vetra condivide una specifica angolazione dello sguardo, una caratteristica per dir così posturale: quello «stare con i morti» che emerge nei versi di Quare tristis, ad esempio («così c’è / chi ignora e chi invece ha nel cuore / la comunione dei vivi e dei morti»).

Con Baudelaire il gioco di specchi si moltiplica: c’è, ad esempio, il rapporto con la figura materna, per entrambi «forte, incombente, mutilante»; c’è, ancora, il rimorso, mot-clé di alcune fra le loro liriche più belle (Au lecteurRéversibilitéOgni terzo pensieroBarlumi di storia); c’è, infine, la condivisa elezione della grande città a protagonista della loro poesia.

«Si potrebbe obiettare», chiosa Valduga, che «Raboni ha semplicemente subito l’influenza di Baudelaire. Sì, forse: ma ci può influenzare solo ciò che ci riguarda, ciò che sentiamo consanguineo». I saggi dedicati alle Fleurs offrono una conferma di questa intuizione: è lo stesso Raboni, ad esempio, a dichiarare nel 1996 che la sua «attività di scrittore in versi “in proprio”» ha subito un’evoluzione analoga a quella delle sue traduzioni, sempre più orientate a perseguire la resa dell’«arte della dissonanza» che caratterizza la lirica di Baudelaire.

Proprio la continua «divaricazione fra alto e basso, fra sublime e comico, fra “poesia” e “prosa”», peculiare nella scrittura baudelairiana (e Raboni vi insiste anche sulla scorta di un noto saggio di Auerbach, I fiori del male e il sublime) diviene allora uno dei perni della riflessione intorno all’autore delle Fleurs.

Ma le affinità tra il poeta e il suo critico si scorgono anche là dove non vengono dichiarate: la centralità di Parigi nei Fiori del male (e Raboni commenta la modernità di questa presenza sfruttando stavolta l’insegnamento del più brillante lettore dell’opera baudelairiana: Walter Benjamin) ricorda appunto da vicino il protagonismo di Milano nella poesia raboniana, dalle Case della Vetra in poi.

È in ogni caso la riflessione intorno alla pratica della traduzione a farsi centrale in questi saggi, molti dei quali coincidono con le prefazioni che accompagnano le sue edizioni dei Fiori, qui progressivamente ordinate.

Mentre il punto di vista del critico inquadra con fermezza le caratteristiche essenziali della poetica baudelairiana, lasciando come si è detto trasparire delle possibili sovrapposizioni con la sua stessa lirica (tra i saggi ve n’è anche uno dedicato ai Gatti baudelairiani, che al lettore di Raboni non potrà non ricordare la gatta Cipolla di Cadenza d’inganno), il punto di vista del traduttore si trova a dover affrontare alcune aporie.

Perché se è vero, da un lato, che «l’intraducibilità dei poeti è una verità relativa, e la sua assolutizzazione è soltanto un luogo comune», d’altro canto il lavoro del traduttore assume i tratti di un «compito infinito, un compito che è lecito immaginare concluso solo in un punto puramente ipotetico posto al di là del tempo». Nel contrasto fra queste due idee, apparentemente inconciliabili, si situa l’operazione del Raboni interprete di Baudelaire.

Flaubert, a eccezione delle pagine su Novembre, gli fornisce piuttosto lo spunto per parlare dei suoi contemporanei. Ad esempio, nel saggio intitolato Sciocchezzai, il flaubertiano Dictionnaire des idées reçues (letteralmente: il Dizionario dei pregiudizi) diviene la pietra di paragone con cui confrontare alcune pubblicazioni recenti, inconsapevoli «sciocchezzai» precettistici a finalità divulgativa, di scarso o nullo valore letterario. A essere saggiata da Raboni è soprattutto, stavolta, la letteratura che gli sta attorno, quella che si compra in libreria e che ormai rispecchia l’«incosciente fluvialità della proposta editoriale» contemporanea (così in uno dei Frammenti, estratti da interventi di vario ordine, che concludono la seconda parte del volume).

È la stessa Valduga a informarci che la diversità dei saggi dedicati all’uno e all’altro scrittore, sia per numero sia per qualità, comporta un effettivo sbilanciamento del libro in favore di Baudelaire. Ma la perdita d’equilibrio si dà solo in apparenza perché, nonostante la parentesi che nel titolo subordina la presenza di Flaubert, «Raboni li ama tutti e due, e l’uno e l’altro sono più vicini di quanto si immagini».

Non è un caso che il primo saggio sia isolato dagli altri e si intitoli Modernità, il tuo vero nome è Ottocento: un secolo che, lungi dall’aver elaborato l’oltranzismo delle avanguardie novecentesche, ha però saputo «cogliere ed esprimere le nuove dimensioni e i nuovi drammi della vita sociale», esplorando «in modo sempre più ardito e profondo i segreti dell’animo umano».

Non vi è probabilmente definizione più azzeccata per racchiudere, in un solo giro di frase, il senso dell’intera operazione di Baudelaire e Flaubert; dopotutto, è forse principalmente in ragione di questa loro capacità di agire da sismografi del loro tempo – un tempo nel quale affondano le radici di quello attuale, dalla nascita della borghesia allo sviluppo del capitalismo – che continuiamo a percepirli come nostri contemporanei. L

o ha sottolineato Giovanni Macchia in un saggio posto in apertura al «Meridiano» di Baudelaire, che tra l’altro presenta la penultima traduzione di Raboni delle Fleurs du mal: «Di solito gli autori si avvicinano e si allontanano da noi, come le navi di carta che osserviamo immoti dalla riva. Per Baudelaire … la visione è rovesciata. Come in quei prodigi d’ottica che ingannano i sensi, egli si avvicina a noi man mano che il tempo sembra distaccarlo … . Il mondo cambia … ma ci accorgiamo che esso assomiglia sempre di più al mondo terribile e affascinante, che il nostro poeta ammobiliò, indagò, sognò ….

La nostra epoca è divenuta sempre più “baudelairiana”». Raboni, che agli studi di Macchia ha dedicato un saggio raccolto in questo volume, sarebbe senz’altro ancora d’accordo.

FEDERICA BARBONI

da il manifesto.it

foto: screenshot

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