Per festeggiare la vera Repubblica serve l’uguaglianza

La parata militare non mi ha mai particolarmente entusiasmato, forse perché in vita mia non ho mai impugnato un’arma. Forse qualche coltello da cucina, ma non credo possa considerarsi...

La parata militare non mi ha mai particolarmente entusiasmato, forse perché in vita mia non ho mai impugnato un’arma. Forse qualche coltello da cucina, ma non credo possa considerarsi propriamente un uso da “arma bianca”.
Dunque tutto ciò che è militare mi è contrario per cultura, logica e modo di interpretare una esistenza che è stata mortificata, in chiave universale, dall’utilizzo delle armi come elemento di offesa, transitando dalle prime costruzioni di lance dei “sapiens” al fine di cacciare il cibo nelle foreste e nei boschi del primitivismo tempo umano, dallo scopo di difesa a quello di utilizzo per il dominio, la supremazia, la forza adibita a strumento di coercizione e non messa al servizio del bene comune.
Caratteristiche sociologiche di una umanità che controgredisce pensando di avanzare in meravigliosi secoli a venire con eccellenze tecnologiche e, con una inversione proporzionale devastante, mette in essere le condizioni per una sempre maggiore propensione alla propria infelicità alimentando il dominio di un sistema economico che concentra le ricchezze in un sempre minore stretto gruppo di persone e affama e impoverisce e rende allo stato di mera sopravvivenza più di sei miliardi di esseri viventi.
Il militarismo, dunque, non lo posso festeggiare, anzi lo avverso e mi fa sempre molto male vedere una repubblica dover coreograficamente esaltarsi mediante mezzi armati piuttosto che con grandi opere di popolo, con una festa simile a quella del Campo di Marte del 1790 in Francia, ad un anno dai primi eventi propriamente rivoluzionari, quando il popolo di Parigi partecipò al suo allestimento, salvo poi dover subire il giuramento costituzionale proprio di un militare: il celebre eroe della guerra di indipendenza americana, il marchese di Lafayette.
Una festa di popolo quella del 2 giugno non lo è da tempo e non basta una parata militare, non basta un tricolore steso dalle mura del Colosseo per ricordarci che settantadue anni fa nasceva quella repubblica fortemente voluta da Mazzini nel corso del Risorgimento (e non solo da lui, si intende).
All’epoca dei plebisciti che inglobavano le varie parti d’Italia al Regno di Sardegna facendolo diventare quel “regime unitario” più che altro subito e patito da tanta parte del Paese, proprio Mazzini scriveva della necessità di dare vita ad una Costituente italiana: una idea di assemblea vagheggiata anche con il triumvirato toscano che aveva preso il potere e instaurato una specie di regime repubblicano dopo aver cacciato il granduca nel 1848.
Ma già all’epoca le divisioni politiche avevano impedito a Mazzini e Montanelli di stipulare un patto unitario e di iniziare ad unificare il centro Italia mettendo insieme i territori della Toscana e dei domini pontifici che sarebbero, di lì a poco, divenuti la Repubblica Romana.
La Costituente italiana, si intende, avrebbe messo in aperta discussione l’istituto monarchico che aveva ostacolato determinate imprese di liberazione del Paese ma che le aveva anche favorite con l’intento cavouriano di estendere i domini dei Savoia e di creare, quanto meno, un Regno dell’Alta Italia che poi, con l’avvicendarsi degli eventi nel 1860, fu costretto ad essere ripensato come Regno d’Italia, pur senza Roma e senza il Triveneto.
Mazzini vide la sua proposta discussa a livello accademico, forse politico ma su un piano meramente intellettualistico. Non c’era spazio per nessuna repubblica in Italia nel 1861. Crispi lo avrebbe ripetuto di lì a poco, trasformisticamente: “La monarchia ci unisce, la repubblica ci dividerebbe”.
Mazzini si diceva certo, poco prima di morire, che prima o poi l’Italia sarebbe diventata una repubblica: ciò che non poteva prevedere era la terribile storia attraverso cui il Paese sarebbe dovuto passare per arrivarvi.
La celebrazione della Repubblica Italiana è qualcosa di più di una parata. Comprendere il significato pieno di “res publica” è proprio ciò che oggi manca al popolo stesso: la difesa dei beni comuni, la valorizzazione di una vita sociale e politica fondata sulla dialettica, quindi sul confronto-scontro, ma nell’interesse esclusivo del Paese.
Una frase questa che è divenuta così banale a causa dell’utilizzo che ne hanno fatto coloro che hanno gestito il governo in questi decenni mostrando che, anche dopo Tangentopoli, ben poco era cambiato e l’interesse privato veniva sempre prima di quello pubblico.
La repubblica è un prima di tutto un sentimento, una propensione a percepirsi come singoli nella collettività e ad essere consapevoli che, come diceva Robespierre, “non può esistere un vero amore per il proprio Paese senza un amore vero per l’uguaglianza”. Perché soltanto nella piena realizzazione della vita individuale in armonia con quella collettiva, costruzione per l’appunto di tante individualità, risiede il valore della repubblica.
Uguaglianza e repubblica (e viceversa) non sono soltanto una correlazione intuita dal leader giacobino: il movimento comunista, fin dai suoi albori, individua nella forma repubblicana di governo quella più vicina al permettere l’affermazione dei valori di giustizia sociale e, quindi, di avanzamento progressista dell’intero popolo.
La repubblica ci dovrebbe unire, dunque. Ma non canticchiando stonatamente il “Canto degli italiani” di Mameli. Nemmeno sventolando bandiere tricolori o guardandole sventolare da leader politici che oggi siedono al governo del Paese e che fino a poco tempo fa si dichiaravano secessionisti.
La repubblica è vera e unisce quando è elemento costituente di un popolo che si organizza per migliorare la propria vita fondando i propri princìpi sull’uguaglianza civile, sociale, politica e culturale di tutti: italiani e non. La repubblica unisce le persone, i cittadini, non bada al colore della pelle.
La più bella festa repubblicana sarebbe quella di un popolo italiano che ne conoscesse la Costituzione in ogni suo articolo e non considerasse ciò come un puro, semplice, innocuo e banale formalismo.
La repubblica può varcare i confini nazionali ed essere un giorno quella universale condivisione mondiale che Lenin auspicava sovieticamente: una grandiosa utopia, una immagine accecante quasi. Ma la repubblica a questo si avvicina maggiormente. Non alle parate, alle fanfare e allo sventolio “patriottico” delle bandiere.

MARCO SFERINI

2 giugno 2018

foto tratta da Wikipedia

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