Una crisi chiamata virus tiene in sospeso il capitalismo globale

Stato di emergenza. Si chiude la peggiore settimana delle borse dal 2008 e si aprono scenari ondivaghi, anche apocalittici, mentre si spera nella ripresa. Dopo una lunga cavalcata i listini hanno perso il 10% medio del loro valore. Per la Bce l’emergenza non causerà effetti persistenti, ma nell’incertezza c’è anche chi annuncia il peggio. Pandemia previsionale. Per l’economia italiana si formulano ipotesi su possibili perdite che oscillano tra 9 e 27 miliardi a causa degli effetti del «Coronavirus»

Al termine della settimana peggiore dal crack della Lehman nel 2008, che rivelò l’esistenza della crisi economica peggiore dal 1929, quella che si chiude oggi è stata la settimana più disastrosa per il capitalismo finanziario e le catene di fornitura e del valore globale da dodici anni a questa parte. Il cigno nero Coronavirus ha messo a fuoco le praterie di un mercato globale rigonfio di azioni, bond, fondi di ogni tipo con valutazioni e rendimenti esagerati. Tutti i principali indici, da Milano a Wall Street, hanno perso il 10% del loro valore.

Nelle ultime ore sono fiorite le previsioni sulla prossima risalita che potrebbe avvenire a breve, oppure no. I mercati sono così: sanno che anche la crisi peggiore (1929,2008) è la premessa di una nuova impennata. E anche un virus può diventare l’occasione per investire oggi e riscuotere domani. Dipende quando questo domani inizierà a pagare e dove è più conveniente investire. Non è profezia, è un calcolo delle probabilità alla luce delle serie storiche dove si scommette non solo sul rialzo, ma anche sul crollo. Negli ultimi giorni c’è chi ha riproposto l’idea che siamo davanti a una crisi finanziaria a forma di V (cioè calo degli indici di borsa e rapida ripresa). Fino ad oggi non si sa però ancora se la strada ascendente della «V» sarà presa prima o dopo l’estate quando si pensa – ma ora è solo un auspicio – che il virus possa essere sconfitto da temperature tropicali. Un ragionamento ricavato da una storia quasi secolare di crisi finanziarie fatto oggi nella più grande confusione indotta non tanto dall’ignoto virus, che resta pur sempre un virus, ma dalla pandemia mediatica che si è abbattuta sulle sinapsi che collegano i mercati ai media ai governi e alle popolazioni ignare e impaurite. Tutti collegati nella stessa rappresentazione di una minaccia apocalittica, mentre la vita resta rinchiusa e si inizia a trovare normale che i diritti – quelli che ci sono, ma soprattutto quelli che vanno rivendicati – siano sospesi.

In un sistema ostaggio dell’imponderabilità del rischio di un crollo attribuito a un virus, e non alle contraddizioni prodotte da un rapporto con il capitale, c’è chi auspica un taglio dei tassi superiore ai 25 punti base a marzo, seguito da un altro taglio a giugno da parte della Federal Reserve americana. E c’è chi sa che una politica monetaria analoga è difficile che arriverà anche dalla Banca Centrale Europea che negli ultimi anni ha sparato tutte le cartucce del bazooka di Draghi e oggi resta a guardare. Per la presidente della Bce Christine Lagarde il virus non causerà effetti persistenti.

La politica monetaria può poco in una crisi emotiva e politica che sta investendo con inaudita violenza l’economia industriale e può, potenzialmente, portarla al blocco. Qui si gioca un campionato diverso ed è possibile misurare la distanza tra l’algido mondo automatizzato del robo-algoritmi che guidano gli scambi finanziari, la complicata meccanica delle catene produttive e l’arresto delle reti sociali dove molte persone possono perdere salario o reddito all’improvviso. Si può allora inondare il mercato di denaro, ma è inutile se poi questo denaro non viene speso perché le merci sono bloccate, i lavoratori sono in cassa integrazione o licenziati, le imprese sono ferme e non investono. Ogni capitalismo affronta una crisi per ristrutturarsi. Sentori di questa crisi erano stati preavvertiti l’anno scorso quando si parlava di rischio «Brexit», di guerra dei dazi tra Usa e Cina, rallentamento di quest’ultima. Ora sembra arrivata da tutt’altra parte, proiettata sulla forma di un virus. Ma era la crisi che incubava, il virus le ha dato solo la forma. Per il momento.

Anche in Italia le previsioni sulle conseguenze ipotetiche di un blocco totale della macchina globale sono diventate una costante fonte di preoccupazione. Secondo il Ref Ricerche la crisi in forma di virus costerà al Pil una perdita tra -1% e -3% nel primo e secondo trimestre 2020, pari a un buco tra i 9 e i 27 miliardi di euro. La forbice è ampia quanto la confusione prodotta dalla crisi improvvisa, ed è giustificata con il fatto che le «zone rosse» del contagio sono in Lombardia e Veneto che producono il 31% del Pil. Aritmeticamente, una contrazione del 10% del Pil in queste due regioni vale una diminuzione del 3% di quello dell’intero paese. Un’aritmetica basata su previsioni fatte sull’incognito. In questo quadro si inseriscono anche le previsioni del il Centro ricerche Nens secondo il quale la crisi potrebbe pesare in modo significativo sulla legge di bilancio 2021 e costringere il governo italiano a cercare risorse per 25 miliardi. Fondi da aggiungere ai 20 già previsti per «sterilizzare» l’Iva. E poi a quelli necessari per affrontare l’annunciata riforma dell’Irpef. Così facendo la «flessibilità» che l’esecutivo si appresta a chiedere alla Commissione Ue sarà molto ampia. Una montagna da scalare.

Visto che siamo in tema di previsioni, considerato l’infrastruttura della politica economica esistente, a quel punto si porrà un altro problema, Gli spazi della politica di bilancio concessi dai custodi dei conti di Bruxelles variano da paese a paese. Sono in molti a convenire sul fatto per cui sarebbe utile fare più deficit per contrastare l’effetto recessivo della crisi attribuita al virus, ma non tutti potranno permetterselo nella stessa misura. A partire dall’Italia a cui sarà accordata la flessibilità, ma che potrebbe risultare persino insufficiente, anche se il ministro dell’economia Roberto Gualtieri rassicura: ci sono margini di bilancio tali da assicurare l’impresa.

In un mondo contagiato da un unico problema c’è chi, come a Hong Kong, ha garantito a i cittadini di età superiore ai 18 anni 10mila dollari locali (1.170 euro) a testa per alleviare la temporanea carenza di domanda aggregata. è una versione fiscale dell’«helicopter money», ma chiamiamolo anche «reddito di base». Una politica che risponde a un’emergenza senza precedenti. A mali estremi, buoni rimedi.

ROBERTO CICCARELLI

da il manifesto.it

Foto di Gerd Altmann da Pixabay

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Finanza e capitali

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