Raffaella, che ci ha insegnato a scrandare la mela

Raffaella la chiamavi così, come avresti chiamato tua sorella, anche tua madre. O la cantavi alla Tiziano Ferro, asserendo con piglio sicuro e deciso: «E’ mia!» perché tantissime volte...

Raffaella la chiamavi così, come avresti chiamato tua sorella, anche tua madre. O la cantavi alla Tiziano Ferro, asserendo con piglio sicuro e deciso: «E’ mia!» perché tantissime volte «canta a casa mia». Suo malgrado, “la Carrà” era nazionalpopolare: capace di unire l’Italia così come la partita degli europei o dei mondiali dove, per novanta minuti, si prova a considerarsi un popolo senza troppi asti che vagano da nord a sud e viceversa.

Ero bambino quando, ancora alla tv in bianco e nero, la vedevo ballare e si capiva che quel caschetto di capelli invidiabilissimo era biondo, biondissimo. Perfetto nella sua caduta sulle spalle e su un corpo che era da contemplare, tanto era dolce nelle sue linee: dal viso ai fianchi, dalle gambe alle braccia con cui Raffaella accompagnava coreograficamente ogni suo movimento, ogni suo spettacolo e persino quella sua coinvolgentissima e contagiosissima risata che Gianfranco D’Angelo aveva provato ad imitare con qualche successo.

A differenza di altri conduttori, la Carrà entrava con discrezione nelle case degli italiani: non lo faceva con cipiglio un po’ saccente di taluni mostri sacri della prima televisione, quella dove esisteva solo il “Programma nazionale” o con il tratto un po’ bigotto e autorepressivo dell’uniformità alla morale imperante, nella democristianità della tv di Stato che guardava con un certo disappunto le movenze e i passi del “Tuca tuca“.

«Sono un cuore vagabondo / che di regole non ne ha»: anticonformista di sicuro, empaticamente anarchica, non trasgressiva per il gusto di trasgredire, ma ribelle a modo suo, capace di dialogare nei suoi salotti con il presidente di turno di Confindustria e, dietro protesta operaia, di invitare anche i lavoratori proprio sullo stesso divano e senza un minuto in meno di quello avuto dal padrone.

Del resto, lo aveva detto lei, arrivata da una Bologna ancora da ingrassare in un tragico dopoguerra, in una contesa tra padroni e lavoratori lei avrebbe sempre saputo da che parte stare: dalla parte di questi ultimi. Per questo – aveva dichiarato ai giornali della sua seconda patria, la Spagna – aveva sempre votato comunista. Istintivamente, mettendosi con chi era in difficoltà, entrando nei panni della povera gente che era, poi, in milioni e milioni, quella che la seguiva davanti ad una televisione che cambiava rapidamente.

Raffaella la ballavi, la cantavi, la vivevi davvero come una immagine inscindibile dalla televisione italiana: ne era divenuta la “regina” non senza quelle difficoltà che aveva imparato a sopportare con una “leggerezza” che lei stessa citava e che però considerava non superficialità o banalità, ma un consapevole modo d’essere, di rapportarsi con la cattiveria altrui, con tutte le insidie dello straordinario mondo dello spettacolo in cui, se sei davvero un talento, puoi farti largo senza sgomitare troppo, senza dover accondiscendere e anzi incutendo un certo rispetto.

Un rispetto che Raffaella si era conquistata con tutta la sua particolare capacità espressiva, con il dinamismo della sua mente unito a quello del corpo, dando scandalo con il famoso “ombelico” scoperto, in tempi in cui esisteva ancora il delitto d’onore e le donne erano trattate come appendici esclusive del mondo maschile e patriarcale. Le rivoluzioni si fanno anche così: scandalizzando, essendo per un po’ di tempo unitamente icone di un nuovo modo d’essere, parlare e comportarsi e evitando accuratamente di lasciare qualunque alibi al potere per censurarti, allontanarti e metterti in disparte.

La RAI, per quanto fosse allora bacchettona e moralista, non poté fare a meno della Carrà: Corrado ne aveva intuito tutte le potenzialità, della soubrette di spettacolo, della conduttrice, della ballerina armoniosa e impetuosa. Della donna che sapeva stare eccezionalmente bene su ogni palcoscenico e trasmettere davvero allegria e buonumore alle persone.

Raffaella è stata discretamente schierata, senza nascondere mai nulla del suo rapporto col pubblico, con la società e con quel mondo della cultura televisiva in cui è stata protagonista per oltre quarant’anni. Ma ha tenuto per sé i suoi affetti più belli, più intimi e non ha mai permesso ai paparazzi di farne strame, di ridurre in pezzi la sua vita che, privatamente, era così diversa da quella che mostrava in tv. E’ tipico delle persone estremamente sensibili operare questa scissione e mantenere comunque una unità tra pubblico e privato, permettendo al secondo di informare il primo con innovazioni caratteriali e intuizioni del tutto personali, ma delimitando bene i confini e impedendo al primo di scavalcare nella sfera introspettiva e riservata.

La grande regina della televisione italiana si domandava, un po’ stupita, come avesse potuto diventare una “icona gay“. Forse era una domanda, a suo modo, compiaciutamente retorica. Raffaella sapeva di essere amata dal mondo della ribellione al moralismo, ad ogni bigotteria e ottusità; sapeva di essere il simbolo di una trasgressione gentile ma impetuosa e di aver aiutato tutte quelle cause di liberazione dal pregiudizio che avevano le loro radici in ottocenteschi retaggi di padroneggiamento della femminilità ad uso e consumo del maschilismo più becero, fino ai più moderni rigurgiti omofobi, contro ogni diversità, contro ogni fuoriuscita dal sicuro recinto della presuntuosa “normalità” della maggioranza.

Umana, libera, libertaria e piena di amore per il suo lavoro, per la voglia di vivere gettando ai parrucconi giudicanti e ai sentenziosi per disciplina tutta quella straordinaria “leggerezza” che può essere tradotto in: “Una risata li seppellirà!“.

Nel 2009 mi trovato al Pride di Genova, dietro un carro dell’Arcigay di Milano. Ballavano tutti. A me piacerebbe ballare, ma in questa società si ha sempre troppo poco tempo per essere felici e si deve trovare invece tanto tempo per lottare per poterlo essere. Quindi si balla poco. Non parlo del ballare in discoteca – che ora forse so perché mi ha sempre quasi per niente interessato – ma del ballare per gioia vera, per felicità altrettanto vera, scambiando quei balli con altri, facendo una festa di colori e di sentimenti liberati dalle gabbie quotidiane dei pregiudizi e delle tante dita puntate contro menti, anime e corpi.

Ad un certo momento, dopo una serie di canzoni straordinarie di Elton John, partì un mix delle canzoni di Raffaella. Fu una esplosione di mani in aria, di bacini che si muovevano all’impazzata, di articolazioni che alteravano ogni camminata: la musica è un potente veicolo di desideri e sentimenti, ma la voce della Carrà completava il tutto. Acuti, toni decisi e altri dolcissimi. L’armonia che ne veniva fuori era il Pride, era un arcobaleno di suoni che avrebbe cancellato qualunque pensiero cupo, qualunque tristezza e qualunque pesantezza sul cuore.

Raffaella Carrà, per questo, era oltre la televisione, era l’amica cui avremmo confidato i nostri segreti più intimi. Perché di lei ti potevi fidare: «E allora fidati, fidati, fidati, / se non fidarsi è meglio, / stavolta fa uno sbaglio». Alla fine c’era sempre l’amore, fosse da Trieste in giù o in ogni altra parte del mondo, ricercando quel mondo migliore in un ottimismo tutto umano, sapendo bene quanto fosse terribile la condizione di miliardi di esseri umani su questo pianeta.

La cocciutaggine di Raffaella ha contagiato tante e tanti di noi: ci ha spinto a cantare quando non avevamo nulla da dire, ed era meglio sognare per riempire la mente con un po’ di vita piuttosto che lasciarla nel vuoto della mera esistenza. «Sorprendersi è vivere». Aveva ragione: la meraviglia è scoperta, è apertura mentale, è guardare al futuro con occhi nuovi, istinto davvero rivoluzionario.

Per “scrandare la mela” che, anche se non esiste come verbo, è assolutamente intuitivo: scrandare, spaccare, disarcionare le comuni opinioni, fuggire dalla conformità asfissiante. Per lasciare la riserva, uscire dal guscio della stupidità pregiudizievole, dalla condanna della diversità; per essere sé stessi, per non dover dimostrare niente a nessuno. Ma per essere un esempio, una realtà contro cui ogni stupido deve sbattere il muso. E per mettersi a sedere tra le nuvole senza dimenticare che di questo mondo facciamo parte e che al sogno va sempre accompagnato l’esempio di ognuno di noi. Per migliorarlo. Come, a suo modo, ha contribuito a fare anche Raffaella Carrà.

Addio grande Raffaella.

MARCO SFERINI

6 luglio 2021

foto: screenshot

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