Monsignor Luigi Bettazzi testimone del dialogo e della pace

Nel dicembre ’92 è con don Tonino Bello a Sarajevo. Diceva che l’aggressione di Putin all’Ucraina «è follia», ma sulla Nato ammoniva «non solo non l’abbiamo abolita, l’abbiamo allargata»
Monsignor Luigi Bettazzi

Ha partecipato al Concilio Vaticano II sostenendo la linea di aggiornamento che spingeva la Chiesa a innovarsi e aprirsi al mondo moderno. È stato fra i protagonisti del dialogo fra cattolici e comunisti nel nome del comune impegno per la solidarietà e la giustizia fra gli esseri umani. Si è schierato sempre per la pace, condannando la corsa agli armamenti e tutte le guerre, comprese quelle “per la democrazia” portate avanti dai Paesi occidentali.

Sono state queste le principali direttrici dell’azione pastorale e sociale di monsignor Luigi Bettazzi, già vescovo di Ivrea e presidente di Pax Christi, morto all’alba del 16 luglio nella sua residenza ad Albiano d’Ivrea, quattro mesi prima di raggiungere il traguardo dei cento anni, che avrebbe compiuto il prossimo 26 novembre. Con lui se ne va l’ultimo vescovo italiano che partecipò al Concilio. Soprattutto se ne va il testimone di una Chiesa evangelica, schierata con gli oppressi, aperta ai “lontani”, pacifista e nonviolenta, che non sarà facile rimpiazzare.

Nato a treviso nel 1923 in una famiglia antifascista (il padre militava nel Partito popolare di Sturzo), Bettazzi si trasferisce a Bologna (città della madre), dove nel 1946 viene ordinato prete. Studia teologia alla Pontificia università Gregoriana di Roma e filosofia nella laica Alma mater di Bologna, segue gli universitari cattolici della Fuci. Nel 1963 Paolo VI lo consacra vescovo e lo nomina ausiliare a Bologna.

Qui sarà il più stretto collaboratore del cardinale Giacomo Lercaro, fra i leader della maggioranza progressista al Concilio e arcivescovo della città emiliana fino al 1968, quando verrà incoraggiato alle dimissioni dopo una severa omelia contro i bombardamenti Usa in Vietnam.

Bettazzi partecipa a tre sessioni del Concilio. Pochi giorni prima della conclusione dell’assise, si ritrova, unico italiano fra la quarantina di vescovi del gruppo della “Chiesa dei poveri”, nelle catacombe di Domitilla per firmare il “Patto delle catacombe”, un elenco di impegni individuali di povertà da mettere in pratica nel proprio ministero: la rinuncia ad abiti sfarzosi, a titoli onorifici, a conti in banca, ad abitazioni lussuose.

«Paolo VI non gradiva che al Concilio si parlasse della Chiesa dei poveri (il tema era stato lanciato da Giovanni XXIII, n.d.r), perché temeva che il dibattito finisse in politica e che, in epoca di guerra fredda, si facesse un favore a Mosca e si danneggiasse l’Occidente capitalista», spiegò Bettazzi in un’intervista al manifesto (14 novembre 2015). «E così prendemmo noi l’iniziativa firmando il Patto, che poi ciascuno ha cercato di applicare nella propria diocesi».

Nel 1966, finito il Concilio, Bettazzi viene nominato vescovo di Ivrea, cittadina operaia, sede dell’Olivetti, alternativa “umanista” alla Fiat degli Agnelli. E due anni dopo, nel 1968, è anche scelto come presidente nazionale di Pax Christi. Dalla periferica Ivrea – dove resterà come vescovo fino alle dimissioni per raggiunti limiti di età, nel 1999 – Bettazzi diventa punto di riferimento per quell’area del cattolicesimo sociale e del dialogo che guarda a sinistra e si impegna per la pace.

Nel luglio 1976 scrive una lettera pubblica al segretario del Pci Berlinguer (dopo aver già scritto a Zaccagnini e prima di scrivere a Craxi), sulla laicità della politica e sulla necessità del dialogo «perché si realizzi la giustizia e cresca una più autentica solidarietà tra gli uomini». Berlinguer gli risponderà nel 1977, accogliendo l’invito al dialogo e rilanciando la collaborazione. Ma Wojtyla, eletto papa l’anno successivo, non sarà molto d’accordo e bacchetterà Bettazzi (non sarà né la prima né l’ultima volta), ribadendo la propria fobia anticomunista: «Si fa presto a scrivere una lettera a Berlinguer, quando non si è vissuto sotto i comunisti».

Alla guida di Pax Christi, Bettazzi è presente a tutte le battaglie del movimento pacifista: l’obiezione fiscale alle spese militari, l’obiezione di coscienza al servizio militare, le campagne per il disarmo, le manifestazioni contro tutte le guerre. Nel dicembre 1992 è insieme a don Tonino Bello (a cui nel 1985 lascia la guida del movimento) a Sarajevo per marciare per la pace sotto le bombe. E ancora pochi mesi fa interviene contro la guerra e l’aggressione di Putin all’Ucraina («è follia») ma anche contro le provocazioni della Nato («non solo non l’abbiamo abolita, ma l’abbiamo allargata e la stavamo portando all’Ucraina»).

Partecipa al dibattito pubblico, con posizioni sempre libere ed evangeliche, contestando i «principi non negoziabili» di Ratzinger e Ruini («l’unico valore non negoziabile è la solidarietà)»: favorevole alle unioni civili quando ai tempi di Prodi si chiamavano Dico, contrario alle condanne ecclesiastiche dell’omosessualità («l’omosessualità è una condizione naturale che va riconosciuta»), aperto alle famiglie arcobaleno («il bene del bambino su tutto»).

I «tratti essenziali» di Bettazzi sono stati «la capacità di leggere la storia e di portare il messaggio di pace», ce li lascia «come eredità preziosa per camminare al fianco degli uomini e delle donne del nostro tempo», il pensiero dell’arcivescovo di Bologna e presidente della Cei cardinale Matteo Zuppi che, a proposito di pace, da ieri si trova a Washington per incontrare le autorità Usa nell’ambito della missione vaticana per la pace in Ucraina.

LUCA KOCCI

da il manifesto.it

foto: screenshot

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