La mobilitazione non può che partire dal basso. A quasi un mese dall’arresto di Khaled el Qaisi al valico di Allenby, tra Cisgiordania e Giordania, da parte delle autorità israeliane, c’è un paese fatto di sigle associative, movimenti studenteschi, sindacati, organizzazioni accademiche che supera il silenzio eretto dallo Stato italiano intorno alla detenzione, ancora senza accuse ufficiali, del giovane ricercatore con doppia cittadinanza.

Assemblee pubbliche, conferenze stampa, graffiti che appaiono sui treni e sui muri dei centri sociali romani accompagnano il Comitato Free Khaled, lanciato dalla famiglia – con la moglie Francesca Antinucci e la madre Lucia Marchetti in prima fila – e che oggi si presenta in mille rivoli a presidiare le sedi della Rai per chiedere la fine di un silenzio mediatico assordante. I giornali hanno iniziato a seguire il caso, la tv pubblica stenta. Quasi a fare da specchio alle bocche cucite della Farnesina.

Alla mobilitazione nazionale di oggi aderiscono in tanti: i Giovani palestinesi d’Italia, l’Università La Sapienza (dove Khaled studia), Flai Cgil, Rete Pace e Disarmo, Bds Italia, Arci, Amnesty International e molti altri. Si ritroveranno a Roma in viale Mazzini alle 11, alla stessa ora ad Ancora, L’Aquila, Napoli e Bologna; e poi Cagliari alle 16.30, Trieste alle 10.30 e Milano il 2 ottobre alle 18 (qui l’elenco completo).

Tutti a chiedere che se ne parli ma soprattutto che el Qaisi sia rilasciato. Arrestato di fronte alla moglie e al figlio di quattro anni il 31 agosto scorso dopo una visita alla famiglia a Betlemme, si è visto rinnovare la detenzione di sette giorni in sette giorni. Fino al 21 settembre quando il rinnovo si è allungato: undici giorni.

Appuntamento, dunque, domani primo ottobre: «Il giudice ha ordinato all’ufficio requirente di formulare un’imputazione entro il primo ottobre – spiega al manifesto il legale della famiglia, Flavio Rossi Albertini – Ma sembra che la detenzione possa essere ulteriormente prorogata fino al 35esimo giorno dall’arresto». Nessun certezza e nei Territori occupati palestinesi non è che sia una novità: molto del controllo esercitato sulla popolazione occupata gioca sull’incertezza, su regole fumose e una burocrazia grigia.

E sul silenzio: «In Israele sul caso è stato imposto un gag order, il divieto cioè di diffondere informazioni, un ordine di bavaglio delle autorità che si estende alla stampa», continua Rossi Albertini. «Se il suo avvocato locale dovesse riuscire a comprendere, anche in maniera fortunosa o in via informale, quelli che sono i fatti non li potrebbe riferire».

A pesare, e tanto, è anche il silenzio del ministero degli esteri italiano. L’avvocato conferma quanto già detto in diverse occasioni da Antinucci: nessun contatto diretto, la Farnesina non ha mai alzato il telefono per parlare con la famiglia di el Qaisi. Contatti solo con il consolato a Gerusalemme, che presenzia alle udienze e ha avuto modo di incontrare Khaled nella prigione di Petah Tikva, una delle colonie costruite illegalmente in territorio occupato. A quel carcere l’associazione israeliana B’Tselem ha dedicato vari rapporti per denunciare le torture subite dai prigionieri palestinesi.

L’ambasciata rassicura: Khaled sta bene. Amnesty non concorda. «Non è l’espressione che userei – continua Rossi Albertini – Non è che non stia bene. Ma ha subito interrogatori secondo modalità che nel nostro ordinamento renderebbero nullo tutto il contenuto dell’atto: il codice di procedura penale vieta qualsiasi forma di forzatura dell’indagato. In Israele invece si possono adottare forme di interrogatorio fisico, cioè forme di pressione per ottenere informazioni».

Interrogatori che, aggiunge il legale, la Corte suprema israeliana ha avallato dopo che lo Shin Bet (i servizi segreti interni) era stato accusato svariate volte di tortura. «Penso a posizioni molto scomode da far assumere all’indagato per ore e ore e che incidono sulla sua serenità psicofisica, gambe legate alla sedia, braccia ammanettate sulla schiena, interrogatori di notte, interrogatori continuati, interrogatori senza legale. Sembra che Khaled questi abusi li abbia subiti: è detenuto in un carcere noto per essere un centro finalizzato agli interrogatori dei servizi».

Al governo italiano non basta per chiederne il rilascio.

CHIARA CRUCIATI

da il manifesto.it

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