L’abrogazione della norma che da mezzo secolo tutela il diritto ad abortire è un duro colpo. Per le donne americane innanzitutto, che in metà degli stati dell’Unione sono destinate a perdere il controllo sul proprio corpo. Ma l’abrogazione di questa protezione costituzionale, sostenuta da ampie maggioranze di cittadini, segna inoltre un giornata nera per la stessa democrazia Usa che varca la soglia verso un’idea retrograda di governo e di giurisprudenza.

La sentenza che ha invalidato il Roe vs. Wade è giunta al culmine di una serie di decisioni della maggioranza conservatrice del tribunale che hanno sostenuto il diritto di scuole religiose del Maine a ricevere contributi statali e vietato a New York di limitare il porto d’armi.

Assieme hanno sancito il potere giudiziario come forza ideologica capace di tenere in ostaggio la maggioranza. È chiaro ora che la suprema corte mira a riportare le lancette del paese indietro al tempo prima dei movimenti per i diritti civili, le grandi lotte di emancipazione (delle donne, dei neri, degli ispanici) e di progresso, che non furono questioni locali ma patrimonio del progressismo mondiale. Per questo la sentenza di Washington ci riguarda tutti da vicino, perché rappresenta il culmine di un progetto cinquantennale per smantellare progressi sociali e diritti civili acquisiti in mezzo secolo. Se è successo nella prima democrazia occidentale può avvenire ovunque.

La parabola che porta alla sentenza di ieri è un’onda lunga di radicalizzazione che nasce negli anni 60 con Barry Goldwater, padre della moderna destra ideologica, e trova la sua principale espressione nel conservatorismo radicale di Ronald Reagan. Reagan è erede del liberismo radicale di Goldwater e fautore di un’alleanza ideologica con gli evangelici bianchi. Delle sette religiose integraliste traghetta in politica il fanatismo ed il dogmatismo attivato nelle “culture wars” di cui l’aborto è da subito un argomento centrale. Formazioni anti abortiste radicali come la Moral Majority e la Christian Coalition che picchettano i consultori e inveiscono contro gli atei peccatori, compattano la base della Reagan Revolution.

Con Reagan ed i suoi “soldati cristiani” passa un messaggio fondamentale: non vi sarà mediazione ne compromesso con la setta che ha scalato il governo brandendo i testi sacri di bibbia e costituzione.
Il movimento è fautore di un culto altrettanto fanatico della costituzione come verbo immutabile dei padri fondatori. L’“originalismo” è formulato come giustificazione costituzionale del programma reazionario ed è un progetto che Reagan affida ad Antonin Scalia, il togato arci conservatore che nomina alla corte suprema nel 1986.

In una carriera trentennale, il giudice italoamericano è un alfiere senza pari della dottrina reaganiana agendo da diga inamovibile al progresso sociale su porto d’armi, aborto, matrimoni gay e pena di morte. Scalia è anche una figura chiave della Federalist Society, una associazione di giuristi conservatori che, come una sorta di opus dei laico, stila una lista di candidati dalle certificate credenziali ideologiche da cui da anni hanno attinto i presidenti repubblicani per le nomine dei togati. Il processo istituzionale che prevede nomine a vita di togati da parte di presidenti in carica dovrebbe garantire un equilibrio ideologico nelle sentenze. La Federalist Society “militarizza” il sistema, arruolando la corte nella crociata ideologica conservatrice.

Un evento chiave nell’appropriazione della corte è iI boicottaggio repubblicano della nomina che spettava ad Obama, proprio per sostituire Scalia morto nel 2016. Nel suo mandato Trump, che avrà raccolto l’eredità populista del Tea Party Movement, ha potuto selezionare ben tre nominativi dalle liste della certificate dalla Federalist Society. I sei giudici che hanno firmato la sentenza di ieri, contro la volontà di oltre 70% dei cittadini, appartengono tutti a quella associazione.

L’attuale maggioranza “ortodossa di 6-3 è libera infine di perseguire il progetto ideologico “originalista.” Nella motivazione formata dal giudice Alito si legge ad esempio che l’aborto non può essere un diritto poiché la costituzione (stilata nel 1787) non ne fa menzione. Se vi fossero dubbi sul fine ultimo di questa crociata anti moderna li ha chiariti il giudice Clarence Thomas (la cui moglie ha partecipato all’assalto del 6 gennaio), suggerendo quali saranno i prossimi obiettivi della “revisione” : contraccezione, diritti e matrimoni LGBTQ.

La corte suprema è dunque espressione della stessa radicalizzazione palesata il 6 gennaio 2021 – e come quella “rivolta” esprime il sopruso di una minoranza. Ma mentre in questi giorni la commissione di inchiesta sull’attacco a Capitol Hill inchioda Donald Trump come mandante di quell’eversione, la corte suprema il suo golpe lo fa dal palazzo.

La decisione di ieri è sintomo di una patologia più profonda. Gli Usa, che malgrado le politiche dei suoi governi sono stati capaci di esprimere storici progressi grazie all’attivismo di grandi movimenti sociali, rischiano ora invece di rappresentare una regressione epocale, un arretramento che fortifica i populismi securitari e teocratici nel mondo e una linea oscurantista globale. Ce ne dovremmo preoccupare tutti – e subito.

LUCA CELADA

da il manifesto.it

Foto di Duané Viljoen