“NO”, per difendere la democrazia e la Repubblica

Sono passati 70 anni da quando l’Italia divenne, dopo il sogno risorgimentale infranto dalla predominanza della monarchia sabauda predona e predatrice della Penisola, una repubblica democratica e parlamentare. Ci...

Sono passati 70 anni da quando l’Italia divenne, dopo il sogno risorgimentale infranto dalla predominanza della monarchia sabauda predona e predatrice della Penisola, una repubblica democratica e parlamentare.
Ci aveva provato Giuseppe Mazzini insieme ad Aurelio Saffi e a Carlo Armellini quando, fuggito Pio IX dallo Stato della Chiesa e riparato a Gaeta sotto la protezione del Borbone dopo la rivolta romana, l’Urbe scelse di abbandonare il potere temporale dei papi e si rifece repubblica dopo l’esperienza giacobino – napoleonica.
Quel 1849 fu un anno straordinario, seguito da quel ’48 che era andato così male e che aveva suscitato da subito, invece, grandi speranze per farla finita con gli arcaici staterelli che dividevano lo Stivale in tanti pezzetti.
Fu un anno in cui un gruppo di uomini e di donne decise che si poteva tentare già oltre 160 anni fa l’esperienza di una repubblica fondata sulla partecipazione popolare alle decisione comuni e di governo, sulla delega a suffragio universale e diretto per l’elezione dei propri rappresentanti.
Uno stato quindi fuori da qualunque concezione oligarchica e privo di una connotazione prettamente di censo: tutto il popolo avrebbe potuto dire la sua in merito ai governi che avrebbero dovuto guidare la nuova Repubblica Romana.
Il povero Mazzini tentò, discendendo dalla Svizzera, chiamato da Mameli (“Roma, Repubblica, venite!”, fu il testo del telegramma inviato dal giovane poeta), di unire agli ex stati pontifici anche quella Toscana che aveva cacciato il granduca e che si era data un governo provvisorio ancora difficile da definire in quanto a forma di Stato.
Non ci riuscì: trovò a Firenze troppa litigiosità e dei particolarismi che negavano in nuce la sua idea di Stato unitario, di Repubblica Italiana.
Così fu solo Roma con Perugia, Ancona e Bologna a sperimentare quella grande piccola stagione riformatrice che persino Karl Marx esaltò in alcuni suoi scritti epistolari, definendola “il tentativo più avanzato fatto fino ad allora per sostenere le classi più deboli”. E siccome parlava di un liberale come Mazzini e di borghesi e nobili come Saffi e Armellini, merita sottolineare che il giudizio del Moro vale ancora di più di quel che in realtà appare essere.
Poi la Repubblica Romana conobbe il suo epilogo sotto le cannonate francesi: Luigi Napoleone sarebbe presto diventato imperatore e l’appoggio del clero di Francia serviva a questo scopo. Quale migliore occasione se non quella di rimettere sul trono il papa affermando che a Roma c’erano solo “briganti” e “giacobini”?
Il ricorso alla mistificazione, alla menzogna spudorata e senza freni era praticato, come si può evincere, già ben prima dei tempi di Berlusconi, Monti e Renzi.
La Repubblica mazziniana moriva ma lasciava dietro di sé una Costituzione che non sarebbe mai stata applicata su alcun territorio. “Ove saremo, colà sarà Roma”, aveva detto Garibaldi portandosi dietro per il centro Italia qualche migliaio di volontari cui aveva offerto “lacrime, sangue e sudore”.
Ma Roma, la Roma del popolo, la Roma di Mazzini e del generale eroe dei due mondi non avrebbe più visto ombra di democrazia se non dopo la fine della Seconda guerra mondiale.
Il referendum del 2 giugno 1946, per la prima volta nella storia dell’umanità, senza una rivoluzione di mezzo in quel momento, ma con una catastrofe comunque alle spalle appena voltate, fece passare dalla forma monarchica a quella repubblicana una Italia divisa a metà: al nord e al centro favorevole al nuovo regime democratico; al sud invece prettamente schierata con Umberto II di Savoia, con una monarchia sfinita, affranta, che non era riuscita a scrollarsi da addosso le colpe del Patto di acciaio, delle leggi razziali, della ventennale dittatura fascista che si sarebbe potuto forse evitare se Vittorio Emanuele III avesse firmato un pezzo di carta presentatogli da Facta.
I se e i ma, però, non fanno la storia e quindi solo dopo quel 2 giugno di 70 anni fa nasceva la possibilità concreta di creare quella Repubblica democratica e popolare che aveva cercato e ricercato Giuseppe Mazzini.
A distanza di sette decenni non si può fare un bilancio definitivo di una storia che è ricca di luci e di ombre, di grande partecipazione e conquiste sociali e di una deriva oligarchica che ormai da quasi venti anni s’è presa la coscienza della gente e ne ha fatto tanti piccoli particolari egoismi simili a quelli che Mazzini incontrò a Firenze nel 1849.
Il bilancio della storia della Repubblica Italiana è tutto dentro la sua Costituzione: prendete il testo di quella del triumvirato della Repubblica Romana. Fate il confronto con il testo originario della Carta del 1948. Troverete tantissime ispirazioni e addirittura tante frasi perfettamente uguali e cambiate solo nella forma più moderna rispetto alle ampollosità lessicali del tempo passato.
Poi prendete il testo del 1948 e confrontatelo con le successive modifiche e troverete che già ci si allontana da una organizzazione dello Stato dove i poteri siano nettamente distinti e dove rimangano certe determinate prerogative di alcuni e determinati limiti di altri. Persino nelle “Norme transitorie e finali” sono stati abrogati commi che avevano, se non altro, un valore storico e di monito morale e civile: permettere agli ex re di Casa Savoia il rientro nel territorio nazionale ha forse dimostrato, come sosteneva Mazzini rispetto ad altro ma similmente, “che la repubblica è forte e non teme”, ma ha sdoganato un certo filone interpretativo della storia secondo cui quella casata poteva essere perdonata e riammessa a vivere nel territorio nazionale.
Oggi il governo Renzi sta completando l’opera che va oltre il semplice revisionismo storico che si può ancora riuscire a combattere con le controdeduzioni dei fatti veramente accaduti.
Oggi il governo Renzi mette in essere la strutturazione di quel progetto oligarchico che è cominciato con il craxismo e che ha fatto del governo il dominatore del Parlamento, tentando di costruire una idea di repubblica semi-presidenziale, comunque sbilanciata, con poteri non più indipendenti e equipollenti nelle reciproche differenze.
Del resto, l’aiuto in tutto questo è arrivato anche dal Quirinale nelle esperienze passate soprattutto delle due presidenze di Giorgio Napolitano che ha di fatto scelto di condizionare la politica del Paese non ricorrendo al voto ma scegliendo, secondo le volontà della Commissione e della Banca centrale europea, chi meglio in quel preciso momento poteva garantire ai grandi poteri economici un ritorno ad una stabilità che comprendesse “lacrime, sangue e sudore”, ma senza marce forzate, solamente con prelievi forzosi su salari, pensioni e spesa sociale.
Oggi, quindi, il governo Renzi festeggerà questo 2 giugno con tutta la retorica della parata militare, mostrando dei muscoli bellici che non possiede e provando a convincere un popolo stanco, depresso, poco avvezzo a conoscere e sapere a fondo come stanno le cose che lo circondano, che la riforma costituzionale che passerà dal voto referendario è l’inizio dell’età di Saturno della Repubblica e dell’Italia.
Libere dalla tirannia delle bicameralismo perfetto, libere dalle troppe discussioni, tutte protese al decisionismo governativo.
Nel nome di Mazzini, Saffi e Armellini, di Ugo Bassi (se lo conoscete… se non sapete chi è ora è il momento di conoscerne la storia…), ma forse semplicemente nel nome della Resistenza al nazifascismo, nel nome di Antonio Gramsci e di Sandro Pertini, nel nome dei tanti lavoratori morti per la conquista di diritti fondamentali, nel nome semplice ma non banale del Popolo italiano, si può ricacciare indietro questo golpe bianco, si può evitare che l’Italia perda lentamente la sua repubblica, la sua democrazia, votando e facendo votare milioni e milioni di NO.
Così mal ridotta ma pur sempre ancora viva, la libertà anche apparente va salvaguardata per riconquistare domani quella concreta, quella dei diritti civili e sociali.

MARCO SFERINI

2 giugno 2016

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