2 giugno: Repubblica e Costituzione

Buon 2 Giugno a tutti, nel giorno in cui settant’anni fa si compì il voto più alto della Resistenza con la scelta della Repubblica. Per la prima volta a quella scelta contribuirono anche le nostre madri, un’occasione storica che fu colta dopo una lunga stagione di sacrifici, lutti, devastazioni. Oggi si tratta di far tornare nelle teste e nei cuori quello spirito repubblicano, promuovendo e difendendo nella sua piena qualità democratica la Costituzione che nacque dall’esito di quella straordinaria giornata

Due Giugno, festa della Repubblica: in quel giorno nel 1946, nacque la Repubblica e si crearono le premesse perché fosse elaborata, nel giro di due anni, la nostra Costituzione.

Vale la pena, allora, entrare nel merito dell’attualità di una difesa dei principi di fondo stabiliti dalla Costituzione Repubblicana, il cui stravolgimento potrebbe significare una pericolosa involuzione del quadro democratico.

Nell’ordinamento giuridico italiano la Costituzione si colloca al vertice delle fonti, essa si trova, cioè, in una posizione primaria rispetto a tutte le altre leggi dello Stato quanto a forza, valore e contenuti.

In essa si riassumono, infatti, i principi fondamentali, organizzativi e spesso anche teleologici della comunità statale.

Diverse sono, però, le accezioni attribuite dalla dottrina al termine “costituzione”.

Da un lato, con il termine “costituzione” si suole indicare il complesso delle norme coessenziali allo Stato, per le quali, cioè, uno Stato è quello che è in un determinato momento storico; intesa così la costituzione si pone con lo stesso porsi dello Stato.

Secondo Costantino Mortati la parola “costituzione”, nel suo significato più generico “vuole designare quel carattere, o quell’insieme di caratteri, ritenuti necessari ad individuare l’intima e più propria essenza di ogni entità, differenziandola dalle altre, e pertanto destinata ad accompagnarla in tutto il suo ciclo di vita. Si parla così di costituzione della materia, di costituzione della specie o dei singoli individui che entrano a comporle, sempre per designare la qualità, elementi o parti che, esprimendone la natura sostanziale e condizionandone il modo d’essere, rimangono costanti nel tempo, suscettibili di variazioni solo quantitative, necessariamente contenute entro un margine, al di là del quale verrebbe meno la stessa identità del soggetto cui si riferiscono”.

Una seconda accezione del termine ne considera invece il significato politico, intendendo per costituzione “non già una legge fondamentale qualsiasi, ma solo quella legge fondamentale che presenti un certo contenuto, legato a scelte politiche precise”.

La nostra Costituzione, in quanto costituzione di uno Stato democratico – sociale, si presenta come patto tra varie forze.

Essa nasce, quindi, dal lavoro di un’Assemblea Costituente che vide la presenza di tutte le forze politiche, con un’articolazione ampia e particolarmente rappresentativa.

Il carattere compromissorio delle disposizioni, frutto di un accordo tra parti politiche di diversa ispirazione ideologica, è un elemento ineliminabile ed intrinseco della Costituzione Italiana (quel “margine” cui si riferiva Mortati).

Un altro carattere fondante della nostra Carta Costituzionale è quello della “rigidità”: le norme costituzionali sono sottratte, per esplicito dettato (articolo 138) alla abrogazione o deroga, da parte di leggi ordinarie; la Costituzione Italiana è quindi legge prima e suprema di tutto l’ordinamento repubblicano.

Questo carattere di rigidità è, ad un tempo, estrinseco, cioè relativo alle circostanze eccezionali che ne hanno maturato e fatto adottare la nostra Carta fondamentale e, insieme, intrinseco alle disposizioni che la compongono, particolarmente, ma non solo, quella prima parte, che concerne la garanzia dei diritti fondamentali di ogni cittadino.

Rigidità, come abbiamo visto, non vuol dire immodificabilità assoluta: essa è, infatti, ottenibile solo con un procedimento tutto particolare, rafforzato rispetto a qualunque altra legge o deliberazione degli organi dello Stato.

Vediamo brevemente come si sviluppa la normativa della nostra Costituzione: la parte prima è imposta sul criterio cosiddetto della “socialità progressiva”.

Ciò deriva dal fatto che dal titolo primo al titolo quarto vi è un progressivo ampliamento della persona sociale: dalla considerazione del singolo individuo, nelle norme concernenti i rapporti civili, si passa al contesto più ampio della famiglia e della scuola che sono contemplate nel titolo dedicato ai rapporti etico – sociali; infine, ancora secondo un criterio progressivo, si disciplinano i rapporti economici e i rapporti politici.

Ed è proprio la disciplina dei rapporti politici a costituire un efficace coordinamento tra la prima parte e la seconda, dedicata alla definizione dell’ordinamento della Repubblica.

Ed è questo, del rapporto tra la I e la II parte della Costituzione, il punto su cui si colloca l’equilibrio più delicato che fu raggiunto dai Costituenti.

Un equilibrio da conservare ed arricchire.

Lo stravolgimento del rapporto tra I e II parte della Costituzione rappresenta, invece, l’obiettivo di coloro i quali intendo trascinare l’equilibrio politico italiano mirando alla formazione di un sistema del tipo di quelli che il politologo americano Crouch, definisce già come di “post – democrazia”.

Conservare, quindi, la relazione stretta tra costituzionalismo e democrazia: il discorso su costituzionalismo e democrazia, in questa fase di trasformazioni profonde, traversa necessariamente diverse tematiche, dalla forma di governo alla partecipazione politica.

Il tema dei rapporti fra organi politici si intreccia, peraltro, a quello dei sistemi elettorali, sicuramente non dissociabile; e, insieme, al dibattito sulla rappresentanza politica, la sua funzione, la sua natura, oggi, come in tutti i momenti d crisi di nuovo diversamente interpretata, il consenso e i modi della sua formazione.

E’ un percorso a prima vista poco lineare, che traversa luoghi diversi, tutti però rilevanti ai fini dell’obiettivo che pare oggi fondamentale: indagare le sorti della democrazia.

Non penso a un futuro lontano, ma all’immediato, alle forme che la democrazia verrà assumendo in conseguenza di fattori di vario genere che gi à premono, alle limitazioni che potrà ancora subire.

Raggiungeranno, queste ultime, livelli tanto elevati da consentirne unicamente la sopravvivenza come “puro nome”? Potrà, la nostra, continuare a definirsi una “democrazia pluralista” o assumerà decisamente la natura di una “democrazia maggioritaria”? E soprattutto, questa è la questione di fondo che vorrei sottoporre al vostro giudizio, la democrazia si accompagnerà ancora ai principi del costituzionalismo che impongono la limitazione del potere?

Questi ed altri interrogativi potrebbero riassumersi in uno solo, se lo Stato democratico di diritto sia destinato a continuare.

Il “futuro prossimo” può incidere su entrambe le qualificazioni dello Stato.

Dallo stato democratico, ad esempio, si potrebbe tornare a qualcosa di simile allo Stato rappresentativo, com’era la monarchia uscita dallo Statuto Albertino; oppure lo Stato Italiano, restando in qualche modo una democrazia (trasformata, magari, in democrazia maggioritaria) potrebbe uscire dalla forma dello Stato di diritto.

Le forme di governo e le trasformazioni che subiscono in questa prospettiva interessano assai, non solo per chiarire dove sia collocato il potere di decisione politica in ciascuna di esse, e rispondere così anche la domanda circa il grado di partecipazione e di influenza del “popolo” sulle decisioni che interessano la collettività, ma per verificare fino a che punto tendenze recenti alla costruzione di ibridi (attraverso manipolazioni più o meno vistose) finiscano per incidere sulla stessa forma dello Stato.

Questo è, in definitiva, un punto d’arrivo del percorso: ribadire l’influenza delle mutazioni della forma di governo sulla forma di Stato e accertare come, attraverso alterazioni degli elementi tipici dei suoi modelli, spostando i delicati equilibri su cui si fonda, si arrivi ad incidere su di essa.

Ad esempio, intendendo la “democrazia maggioritaria” come orientata a che “l’indirizzo premiato dal voto popolare non trovi ostacoli istituzionali alla sua più completa attuazione”, si torna, in definitiva, all’idea dell’unicità e concentrazione del potere, in aperto contrasto con i principi dello Stato di diritto.

Si tende, infatti, a realizzare proprio ciò che, per convinzione condivisa, è “importante evitare: che il sistema sia “utilizzabile con esclusività, e quindi in via assoluta, da una forza sola o da un complesso organizzato più forte”.

Rivedere il punto iniziale del percorso tortuoso che ha condotto l’ordinamento costituzionale italiano all’incerta situazione attuale, può servire per comprendere meglio la realtà in cui viviamo, e ad illuminarci circa le direzioni del suo movimento.

Nel corso degli anni’80 riprese quota il dibattito sul Presidente della Repubblica, in particolare sulla sua elezione.

Per quale ragione, con quali intenti?

La domanda è più interessante considerando che la Presidenza della Repubblica, di per sé, non era oggetto di discussione che, anzi (fino ad allora almeno) poteva dirsi sicuramente l’istituzione meno soggetta a critiche.

La proposta ricorrente era l’elezione popolare diretta del Presidente della Repubblica che, si diceva, non solo avrebbe così acquistato un’autorevolezza maggiore, ma sarebbe divenuto maggiormente indipendente dai partiti.

Uno degli obiettivi reali di quelle proposte appariva evidente: tentare, attraverso l’aggancio all’elezione del Presidente della Repubblica, di semplificare il sistema politico. Dalla necessità per i diversi partiti di aggregarsi in due raggruppamenti ai fini dell’elezione presidenziale avrebbero potuto prendere vita due formazioni contrapposte e, dunque, il bipolarismo e l’alternanza.

Questo risultato, sperato ma eventuale, ne avrebbe comportato dunque un altro che era, invece, sicuro e temibile: la trasformazione del Capo dello Stato in un leader politico contro gli schemi del sistema parlamentare, la fine del suo ruolo neutrale e l’eliminazione della Presidenza come istituzione di garanzia.

Al di là dell’alterazione della forma di governo e delle relazioni fra gli organi costituzionali, l’elezione diretta induce inoltre una trasformazione sostanzialmente più grave: caricando il vincitore di una nuova forza, anche suggestiva, alimenta il mito del “Capo” e personalizza il potere.

Ho preso le mosse dagli anni’80 perché quelle idee nel tempo, hanno prodotto frutti come ora ben si vede.

Lì stanno le radici di un discorso che continua tuttora con la martellante insistenza sulle riforme.

Quali effetti si sono prodotti fin qui?

La Presidenza della Repubblica è uscita indenne(almeno e soltanto formalmente) da quei tentativi di riforma, e del resto il vero obiettivo non era il suo mutamento, quanto piuttosto i risultati che ne potevano derivare.

E alcuni di questi risultati, invero, si sono egualmente prodotti: benché la posizione del Capo dello Stato sia rimasta formalmente invariata, si è diffusa e consolidata la “personalizzazione” del potere versandosi sul altre istituzioni monocratiche, e si è pure realizzata (mediante la riforma delle leggi elettorali) la “semplificazione artificiosa” del sistema politico, o meglio, la sua artificiosa bipolarità.

Con le conseguenze che si sapevano, e da molti si volevano, che già incidono sul livello di democraticità del sistema: alcuni interessi sono rimasti senza voce, altri, pure significativamente rappresentati, senza più forza contrattuale.

Gli interessi forti, viceversa, sono diventati invincibili (anche, e forse soprattutto, in sede locale).

L’obiettivo, oggi, si è spostato dalla Presidenza della Repubblica all’intento di rafforzare comunque l’esecutivo personalizzandolo e liberandolo da ogni impaccio, orientato verso forme in cui il sistema di limiti sia più incerto e sfumato.

L’obiettivo è quello di governare senza limiti e freni del costituzionalismo, ossia fuori dalla forma dello stato di diritto.

Ho già sottolineato come le forma di governo normalmente considerate dagli studiosi, a anche ai fini di comparazione (parlamentare, presidenziale, direttoriale, assembleare) sono le forme di governo compatibili, con la nostra forma di Stato e rientrano tutti nel quadro dello Stato democratico di diritto; i modelli conosciuti sono studiati in modo, appunto, da porre limiti al potere.

Rispetto alle tipizzazioni astratte le forme di governo dello Stato di diritto possono sicuramente variare, ma non fino al punto da risultare alterate negli elementi di equilibrio essenziali a mantenerne i valori.

Appare subito, in ciò che è stato varato sul piano della modifica della forma parlamentare di bicameralismo paritario, la subordinazione, per non dire la mortificazione dell’Assemblea; un evidente squilibrio che deve essere necessariamente corretto e la sola occasione per farlo sarà esprimendo il NO nel referendum costituzionale che dovrebbe trovarsi a Ottobre.

La stessa maggioranza rischia di avere un ruolo marginale  accentrandosi il legislativo nel Governo, per non parlare della minoranza contro il principio base del sistema: giova ancora ripetere che la democrazia della Costituzione del 1948 non è una democrazia maggioritaria, ma una democrazia pluralista.

Repubblica democratica (articolo 1 della Costituzione) è una formula che impone la valutazione della rappresentanza prima ancora dei meccanismi diretti a rendere blindato l’esecutivo, meccanismi di rafforzamento ammissibili solo se e fino a che non si scontrino con il principio democratico, cardine del sistema; e sicuramente l’elezione popolare non basta a fare di un organo monocratico un rappresentante.

Democrazia e rappresentanza, insieme al rispetto delle regole dello Stato di diritto, costituiscono limiti insuperabili.

Risiede in questo punto il nesso tra prima e seconda parte della Costituzione, per cui toccare articoli della seconda significa, oggettivamente, distorcere il significato contenuto negli articoli della prima.

Nel nostro Paese il disprezzo delle regole e dei limiti dello Stato di diritto è di giorno, in giorno, più grave e frequente.

Democrazia e costituzionalismo, appaiono parimenti a rischio.

La limitazione del potere (ossia il senso profondo dello Stato di diritto) è già fortemente incrinata.

L’equilibrio complessivo, basato sul pluralismo politico e quindi su di un sistema di differenziazione assai articolato e complesso di garanzie pensate in rapporto ad un pluralismo interno alle stesse istituzioni, oggi è venuto meno.

Una situazione siffatta vanifica nella sostanza gli obiettivi del costituzionalismo, riproducendo la concentrazione del potere che esso voleva distruggere: concentrazione di potere politico, economico e, ovviamente, del potere d’informazione, oggi determinante.

A prescindere, infatti, da altre considerazioni, nella società delle comunicazioni di massa e delle più elevate tecnologie a disposizione del potere politico, l’esito totalitario deve essere comunque considerato, uno dei rischi più immanenti allo sviluppo della società contemporanea.

Proprio per questo motivo ho voluto soffermarmi ,nel quadro ampio del processo revisionistico oggi in atto in Italia, sul tema della forma di governo invitando, infine, a considerarlo anche in una prospettiva più ampia: a livello planetario, infatti, situazioni complesse si aprono interrogativi inquietanti che  riguardano in primo luogo la democrazia, al punto da farci pensare che la nostra idea di resistere, qui in Italia alla periferia dell’impero, sul nesso tra democrazia e costituzionalismo non rappresenti, semplicemente, un piccolo gesto di provincialismo.

L’esito delle elezioni presidenziali USA, prima ancora che del referendum costituzionale in Italia, ci diranno molto anche sotto questo aspetto così come è avvenuto per l’evoluzione del “socialismo reale” cinese ( un’applicazione non secondaria di alcuni “fondamenti” nell’evoluzione del rapporto tra città e campagna già presenti nel periodo della rivoluzione culturale) le forti difficoltà di un troppo facilmente decantato processo di democratizzazione nell’Europa orientale, l’arretramento del populismo di sinistra in America Latina (Venezuela, Argentina, Brasile).

La conclusione è dedicata al Referendum confermativo: è proprio il caso di ricordare, oggi nel settantesimo anniversario della nascita della Repubblica, che la sola via possibile per riaprire il discorso della già mortalmente ferita democrazia repubblicana in Italia è quello di respingere, con un secco “NO” l’insensata ambizione di accaparrarsi tutto il potere da parte di una fazione.

FRANCO ASTENGO

2 giugno 2016

categorie
Politica e società

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