Una risposta di massa al governo dei postfascisti e dei ricchi

Persino la magistratura contabile dello Stato rimbrotta l’esecutivo: starebbe facendo (anzi, sta facendo…) tutto il possibile per evitare controlli sull’applicazione del PNRR mentre racconta la favoletta di un utilizzo...

Persino la magistratura contabile dello Stato rimbrotta l’esecutivo: starebbe facendo (anzi, sta facendo…) tutto il possibile per evitare controlli sull’applicazione del PNRR mentre racconta la favoletta di un utilizzo dello stesso a fini sociali, in difesa degli interessi comuni e, quindi, prospetta una nuova stagione di riforme strutturali che si affianchino alle operatività del piano previsto dell’Europa.

Segno, questo, che del governo di Giorgia Meloni si può pensare tutto, ma che sia incoerente con la traduzione pratica dei propri programmi elettorali in tema di tutela dei privilegi padronali e finanziari, delle grandi ricchezze e dei patromoni ingentissimi, del ruolo primario del privato rispetto al pubblico, questo proprio non lo si può dire.

Il governo è un po’ da sempre quel “comitato d’affari” che Marx un tempo riferiva alla nascente borghesia moderna e che, oggi, è al servizio dell’impianto liberista ultramoderno; ma con l’era meloniana dell’ultradestra postfascista saltano tutte quelle garanzie di compromesso tra la classe dirigente imprenditoriale e un mondo del lavoro che, a dire il vero, non ha mai accettato nessuna trattativa in merito, ma che è costretto a subire una sorta di “pace sociale” da troppi decenni.

Gli stessi sindacati confederali hanno firmato accordi con le aziende che hanno mantenuto i salari al palo, nonostante gli effetti della crisi economica abbiano, senza ombra di dubbio, inciso in queste concertazioni. Ma nessun governo di centrosinistra o tecnico, fatta salva una parentesi per quello giallo-rosso, il Conte II, è intervenuto per sanare le ferite sociali che oggi emergono unitamente a quelle civili e ai tanti problemi congeniti ad un territorio che respinge proprio la logica dello sfruttamento a tutto spiano.

Quello che le destre meloniane e salviniane aggiungono a questo scenario destrutturante il mondo del lavoro con altra precarietà e altra insicurezza sociale, tramontata l’epopea del berlusconismo come nuovo fronte politico pseudo-unitario della borghesia di tardissimo Novecento, è un mutamento istituzionale che mira al consolidamento di questa nuova prospettiva di governo del Paese dal punto di vista esclusivo della grande industria e dell’alta finanza.

Un corteo di oltre diecimila persone ha percorso le vie di Roma rivendicando una lotta sempre più convinta e necessaria per un reddito garantito, sicuro, che si affianchi ad un salario minimo di almeno dieci euro all’ora, ed anche alle attuali smagrite misure che dovrebbero tutelare l’indigenza cronica e manifesta ed impedire di scivolare ancora più in basso.

Un corteo che ha giustamente posto un accento critico e stigmatizzante sulla presenza tanto dei Cinquestelle quanto del PD, promotori di una serie di politiche contradditorie: da un lato il reddito di cittadinanza (che rimane l’unica vera misura sociale di questi ultimi anni…) e dall’altro i tagli alla spesa pubblica in materia di sanità, scuola, pensioni, infrastrutture, servizi sociali che il il governo Draghi ha pianficato e di cui si avvertono i riflussi tutt’ora.

La coscienza riemergente di una piazza consapevole del rischio di una involuzione antisociale e antidemocratica del Paese è il collante migliore per una ripresa di un movimento di protesta che sia anzitutto di proposta e che, quindi, non ceda al compromesso delle controriforme costituzionali della destra nei confronti del centro e della sinistra.

E che, prima di ogni altra cosa, unisca queste lotte e metta in correlazione la difesa delle istituzioni con quella dei corpi intermedi: lavoro e sindacato, scuola e cultura, salute e beni comuni devono essere il substrato di una nuova idea di società.

Una idea che non necessariamente deve essere ideologizzata, ma che, nella sua autonoma formazione, può trovare come sponde politiche più forze della sinistra, tanto parlamentare quanto esclusa dalla partecipazione ai lavori delle Camere in modo diretto. Oggi più che mai ci si può rendere pienamente conto che le lotte sono inseparabili e che non si può andare avanti per compartimenti stagni. Ogni peggioramento della vita di ciascuno è un peggioramento per la comunità intera.

Ed ogni diritto messo in discussione è un diritto in discussione per tutti, anche se direttamente non interviene nella vita di questo o quel cittadino. Non è più possibile rinchiudersi nei propri fortilizi e portare avanti delle campagne sociali che pensino di poter essere apartitiche o, peggio ancora, apolitiche.

La stagione degli anatemi nei confronti dei partiti deve finire qui, altrimenti di veti incrociati e di stigmatizzazioni delle ideologie ne morirà prima di tutto la democrazia repubblicana, poi nemmeno tanto lentamente le istituzioni e l’Italia del melonismo sarà presidenzialista e iper-regionalista: i diritti sociali e civili verranno contrapposti in una esasperante corsa alla particolarizzazione localista dei problemi che, invece, sono comuni non solo all’intero Paese ma all’Europa.

La globalizzazione degli effetti più disastrosi del capitalismo non è affatto finita. Va di pari passo con la nuova stagione di un liberismo che risentirà di tutti gli effetti delle guerre in corso: quelle sul campo e quelle guerreggiate. Dall’Ucraina come paese preso in prestito per condurre una lotta tra due imperialismi sempre meno uguali e sempre più opposti, fino a Taiwan.

Pensare ad un’Italia dove queste logiche di spartizione del pianeta, del potere economico e militare, si riflettono in comunanza con le tante problematiche storiche della penisola (tra tutte il divario tra nord e sud) e vengono acuite dall’ “autonomia differenziata” di Calderoli e dai sogni presidenzialisti del revanchismo politico missino insito in Fratelli d’Italia, non può non far tremare le vene ai polsi.

Ma, soprattutto, impone una condivisione vasta, larga, davvero di massa di una critica intransigente che non si limiti alle invettive, ma che produca risvolti politici. Serve, quindi una nuova opposizione popolare che metta insieme partiti, sindacati, associazioni culturali e collettivi sulle lotte più disaprate che possono, che devono avere un denominatore comune, un trittico di un progressismo aggiornato: libertà civili, uguaglianze sociali, fratellanze umane ed animali.

Il governo Meloni è, al momento, la saldatura (forse un po’ imperfetta, visto che l’FMI lo bacchetta sulla tenuta del debito pubblico e la Corte dei Conti sulla messa a terra del PNRR…) tra la formulazione di uno Stato forte, che sia la garanzia di una aderenza delle istituzioni ai dettami dell’economia globale (ed europea), e una riorganizzazione privatistica dei servizi locali, la progettazione di grandi opere e il sostegno pieno alla linea bellica della NATO e degli USA in politica estera.

La lotta per un reddito garantito sta in questo quadro davvero complesso come un granello di sabbia negli ingranaggi altrettanto fitti di una macchina in movimento. Dal mondo del lavoro, della precarietà, del disagio sociale estremo può venire lo spunto di una condivisione di tante lotte che, messe una accanto all’altra, offrono una alternativa al modello delle destre, a quello liberista e alla teorizzazione del privato come solutore dei problemi sociali del Paese.

La logica del profitto e dello sfruttamento va combattuta a trecentosessanta gradi: lavoro, ambiente, diritti civili, diritti umani, diritti animali, cultura e sapere, informazione e conoscenza non possono essere variabili dipendenti dal mercato globale e dalle ultraliberiste intenzioni di un governo che è al di sotto (e questo potrebbbe essere l’unico elemento positivo di tutta questa storia).

Una opposizione sociale e politica progressista e di alternativa ha il compito di unire queste istanze. Più ancora che le organizzazioni politiche, oggi è una autonoma iniziativa di massa che può redarguire i partiti imbolsiti dalle loro eterne critiche concentriche, dalle sedimentazioni elucubranti su programmi al peggio inadeguati ai tempi, al meglio superficiali e privi di un vero riscontro con la realtà fattuale, con la partecipazione sempre più in discesa nell’arena elettorale.

Per quanto un partito comunista possa essere all’avanguardia e capace di indirizzare le masse, non potrà mai sostituirsi a loro. Dovrà imparare da un certo spontaneismo, provando ad influenzare determinati percorsi, cercando di offrire il proprio contributo per evitare che l’energia “rivoluzionaria” (nel senso di capovolgitrice dell’oggi e non in chiave meramente agiografica e inconica) venga strumentalizzata – ad esempio – da un riformismo che la porti ad approdi esattamente contrari.

Oggi questo partito non c’è. Ma forse i movimenti e le masse possono tornare protagoniste davanti a tante tragedie: nei cantieri, nelle fabbriche, nei territori devastati dalla furia climatica che è la risposta alla voracià liberista contro la natura ttuta. E davanti a tanta indigenza, a tante contraddizioni che fanno della Repubbblica una forma non di Stato pubblico, sociale e civile, ma una dépendance del capitale e della grande finanza, la risposta popolare non può più tardare a venire.

MARCO SFERINI

28 maggio 2023

foto tratta dalla pagina Facebook nazionale di Rifondazione Comunista

categorie
Marco Sferini

altri articoli