Sempre più prossimi ad uno Stato autoritario del mercato

Il processo democratico, quindi l’alternanza al governo del Paese delle forze politiche espressione della volontà popolare che si riuniscono in una maggioranza parlamentare e danno vita ad un esecutivo,...

Il processo democratico, quindi l’alternanza al governo del Paese delle forze politiche espressione della volontà popolare che si riuniscono in una maggioranza parlamentare e danno vita ad un esecutivo, si fonda sul principio costituzionale del mutamento della vita sociale, dello sviluppo e delle prospettive della Nazione secondo i programmi che quei partiti e movimenti hanno espresso in campagna elettorale.

L’avvicendamento tra diverse visioni tanto della gestione istituzionale, quanto della traduzione delle linee di intervento nella legislazione mediante l’azione dei gruppi parlamentari, dovrebbe essere non qualcosa che ogni volta prova a sconvolgere le fondamenta della Repubblica, ma che, semmai, preso atto del fatto che determinati valori dovrebbero essere comuni a tutti, mette in pratica da un differente punto di vista, ma puntando sempre all’ottimizzazione del bene comune, l’insieme delle garanzie contenute nella Carta del 1948.

Questa è, sostanzialmente, la descrizione di quello che dovrebbe essere il rapporto tra politica ed istituzioni, tra istituzioni e corpo sociale ed elettorale, tra questo e la politica. Un trittico di relazioni che, nelle intenzioni, ambirebbe ad una crescita tanto materiale quanto spirituale dell’Italia in quanto organizzazione di un popolo su un territorio e, più ancora, in un contesto continentale e internazionale molto, molto dinamico.

Ma la descrizione appena fatta non corrisponde nemmeno in minima parte alla realtà concreta tanto dell’ieri quanto dell’oggi. Nessuno credo si sia mai illuso, dall’Assemblea Costituente sino alla più recente modernità conservatrice del melonismo imperante, che la fondazione della Repubblica avrebbe significato il passaggio dalla dittatura fascista all’età dell’oro per il popolo italiano.

Di sicuro, però, le tante aspettative che il dopoguerra aveva regalato ad un’Italia mortificata, vilipesa e ridotta a brandelli materiali e e morali, andavano almeno nella direzione di una convergenza tra diritti umani, civili e sociali. La fine della monarchia e dell’uomo solo al comando, del “duce“, avevano segnato, con la lotta partigiana e la liberazione del Paese dal nazifascismo, quella “premessa per la rinascita” anche culturale di un intero popolo.

Per alcuni decenni, in effetti, la grande partecipazione di massa alla vita politica e sociale ha garantito una rappresentanza parlamentare degna di nota; ha permesso alle organizzazioni del movimento dei lavoratori di svilupparsi e di crescere, pur nel contesto liberale di un Paese che aveva spazzato via il re e il fascismo mediante una acquisizione in buona parte spontanea di una controvalorialità rispetto ai dettami del regime che era stata la reazione cosciente ad una oppressione non più tollerabile.

La rovina dell’Italia intera aveva coinciso con la rovina di ciascun italiano, perché nessuno era stato risparmiato dagli orrori, dalle brutalità repressive, dalle violenze, dalla miseria e dalla fame che il fascismo di Benito Mussolini e la guerra cercata e voluta avevano scaraventato prepotentemente nella vita di ciascuno, distruggendo i rapporti personali, familiari e del contesto quotidiano.

La democrazia nata con l’antifascismo e la lotta resistente, nella sua più bella espressione repubblicana, aveva significato proprio questo: riprendersi quella libertà personale che non sarebbe stata tale senza la proclamazione della libertà di tutti in una nuova Italia in cui il governo non avesse l’arbitrio esclusivo del potere, dal pensare al fare le leggi, dal farle all’applicarle, dall’applicarle a contestarle ai cittadini mediante una magistratura totalmente rispondente al suo volere.

Ma fondare una Nazione in cui il primo presupposto della libertà fosse la separazione dei poteri entro una cornice di nuovi valori civili e sociali, in cui il lavoro divenisse la pietra angolare dello sviluppo di ognuno e di tutti. Non si trattava di un sogno, ma di costringere la durezza dei rapporti di forza tra le classi a scendere a patti con la necessità di un compromesso tra pubblico e privato, tra proletariato e borghesia, tra lavoratori e padroni, con la mediazione dei corpi intermedi anzitutto sindacali.

Fino a che si è dovuto ricostruire dalle macerie della Seconda guerra mondiale, e fino a che la ricostruzione ha riguardato la crescita di nuove generazioni che ridessero un senso all’identità nazionale riproposta nei termini della Costituzione, per somigliare sempre meno all’Italia fascista e sempre di più invece a quella di un futuro proiettato nel nuovo millennio, pur in mezzo a molti scontri, lotte e contraddizioni, la tenuta del compromesso in un certo qual modo ha retto.

Poi, a partire dagli anni ’80, quando la ricostruzione era terminata e la politica aveva consolidato le sue reti di potere e le sue consorterie, il mondo delle imprese ha iniziato a guardare ad una crescita economica esclusivamente privata, senza più pensare alla necessità di mantenere un rapporto con il mondo del lavoro. La fase liberista, quindi, aveva sostituito quella liberale e si era presa il controllo della scena: economica, politica, sociale e civile.

L’antifascismo è, quindi, divenuto un orpello del passato, visto che la tendenza mirava a mostrare le magnifiche sorti e progressive di un capitalismo capace di soddisfare finalmente ogni bisogno medio e piccolo borghese e che, pertanto, aveva la necessità di proiettare la coscienza dell’italiano nato e cresciuto nel dopoguerra in un miraggio incosciente di un futuro in cui le lotte del passato altro non avrebbero echeggiato che vecchi scontri tra classi dichiarate obsolescenti al pari del concetto di “giustizia sociale“.

La mutazione genetica del panorama politico ha corrisposto alle necessità del mercato, uniformandovisi in tutto e per tutto e facendosi inebriare dalla dietrologia della teorizzazione della “fine delle ideologie“: come se aderire quasi istintivamente ad una weltanschauung tratta da una contestualizzazione dei bisogni rivendicati attraverso analisi critiche, sommate tra loro e divenute correnti di pensiero secolari, fosse una antitesi rispetto al dettato costituzionale o, più ancora, ad una innovazione collettiva del progresso nazionale.

Un progresso letto ormai attraverso le lenti di un privatismo che, grazie alla compiacenza anche di forze progressiste che avevano giurato di difendere il mondo del lavoro e del non lavoro, delle garanzie e dei diritti sociali, mentre si sono convertite alla compiacente tesi della condivisione delle responsabilità universali con l’altro mondo, quello dell’impresa, è passato dall’essere prodotto collettivo a indirizzo di mercato.

Se negli anni ’60 e ’70 la speranza di vedere applicati sempre più articoli della Costituzione nella vita concreta del Paese era considerabile un auspicio tutt’altro che privo di afferenza con la realtà, mano a mano che la politica è stata sedotta dall’interesse privato e si è fatta portavoce dello stesso, allontanandosi dal pubblico come concetto mediamente più ampio e comprendente ogni sorta di attività sociale, civile e culturale, a partire dagli anni ’80 e ’90 con craxismo e berlusconismo questa speranza diviene una vera e propria utopia.

Una chimera, si potrebbe più propriamente definire. Un’araba fenice: qualcosa di cui si continuava a parlare ma che nessuno poteva riscontrare in alcuna volontà politica delle forze di maggioranza, in particolare di quelle del centro atomizzato e della destra consolidatasi attorno al binomio formatosi tra potere imprenditoriale e potere politico.

Gli ultimi trent’anni di vita italiana sono stati, quindi, la conseguenza di una mutazione genetica della società che, certamente si è vista uniformare ai canoni della globalizzazione ultraliberista tutt’ora in atto, ma che nell’ambito nazionale è ritornata a pensare ad uno sviluppo rischioso se lasciato al dibattito tra le forze politiche che avrebbero, attraverso le ideologie, rallentato la crescita del Paese, dibattendo su piccolezze del tutto trascurabili, mentre serviva un ritorno ad un decisionismo concreto e rapido.

La fine dei grandi partiti di massa è stata la conseguenza, ed in parte anche l’anticipazione, di una disaffezione progressiva nei confronti della partecipazione alla formazione della politica nazionale; un elemento coltivato con grande accuratezza da tutti coloro che hanno inteso fare del processo democratico una mera formalità al servizio dell’impresa e a tutto discapito del lavoro.

Il privato, così, è divenuto il sostituto permanente del pubblico e ha utilizzato lo Stato – nella piena coerenza della logica liberista – per essere sempre più indispensabile ad una cittadinanza ridotta ad utenza, a consumatrice e niente di più. Tutto questo è accaduto (ed accade, pur tra mille trasformazioni contingenti) con la compiacenza di una rappresentanza politica sempre meno reale, fintamente dedita al benessere sociale, tutta tesa a salvaguardare la poca tenuta sui mercati di un capitalismo italiano definito, a ragione, da molti economisti come “straccione“.

Tutto questo è, altresì, avvenuto con la destrutturazione progressiva dello stato-sociale, con la conversione aziendalista della sanità pubblica, con la privatizzazione delle ferrovie, delle poste, delle autostrade, delle aziende più importanti nate nel dopoguerra e diventate delle eccellenze persino nel contesto europeo: dalle telecomunicazioni agli idrocarburi, dalla rete elettrica a quella idrica. Non c’è un settore che non sia stato fatto oggetto della logica privatizzatrice.

Nel nome dello sviluppo, della crescita di quelle decine di milioni di italiani che invece si sono sempre più impoveriti e che, oggi, proprio oggi, non hanno più la possibilità di mettere a risparmio una parte del loro salario, della loro pensione. Se, quindi, proviamo a fare un bilancio inerente la condizione di sopravvivenza di gran parte della popolazione, è impietoso constatare come la grande stagione dell’inebriamento privatizzatore, portato avanti anche dalla sinistra moderata, abbia reso la maggioranza degli italiani più poveri, meno sicuri, meno garantiti.

Lo Stato del mercato ha preso il posto dello Stato sociale e non c’è più nessun compromesso, anche solo lontanamente da ipotizzare, nel nome di una Costituzione che viene nuovamente messa sotto attacco esattamente laddove c’è più resistenza al mutamento strategico da parte delle forze liberiste, per escludere definitivamente il Parlamento dalla formazione concreta delle Leggi, quindi dalla discussione democratica in merito ai tanti temi che investono la vita di chiunque ogni giorno.

Autonomia differenziata e premierato non sono solamente uno scambio politico tra le forze di una maggioranza che, altrimenti, finirebbe per rovinare precipitosamente dalle scale interne di Palazzo Chigi fino in piazza Colonna e anche ben oltre… Prima di tutto sono la nuova riformulazione dello Stato nell’ambito di una stagione mercatista estrema, in cui le crisi globali (dall’ambiente alle migrazioni, dalle guerre agli impoverimenti strutturali di interi continenti) spingono l’imprenditoria ad esigere una politica iperdecisionista.

La velocità con cui la crisi investe i settori dell’economia italiana è pari a quella con cui si decompone sempre di più ciò che rimane dell’assistenza pubblica, dei servizi sociali, di una sanità regionalizzata e svilita nel suo ruolo, utilizzata come palestra di prova per l’estensione di tutta una serie di competenze ai territori che svuoteranno l’essenza del ruolo dello Stato, facendo della Nazione un “paese arlechinizzato“.

A nord la ricchezza che rimane al nord, al sud la povertà che nessuno vuole prendersi. Questo è molto più di un pericolo figurativamente interpretabile come una “semplice” (molto tra virgolette) riforma costituzionale e, quindi, interpretabile quasi soltanto in punta dell’omonimo diritto.

E’ il rigor mortis di una Repubblica in cui, al piano economico-egoistico dell’autonomia differenziata corrisponde quello di modificazione del rapporto (anche empatico) tra elettorato passivo ed attivo, tra popolo e politici, tra persone e partiti, tra cittadini e istituzioni che incede con l’ipotesi premieristica unica al mondo. La destra di Meloni e Salvini progetta quindi un’Italia del futuro in cui i diritti siano subordinati ai doveri e siano la variabile dipendente dallo stato economico di ciascuno.

Chi potrà curarsi lo farà rivolgendosi al privato che farà saltare sempre più facilmente le liste di attesa lunghe anni per una TAC o anche per delle semplici radiografie. Chi vorrà accedere a studi universitari di eccellenza lo dovrà fare passando per scuole private e si verranno anche qui a creare difformità di ceto, negando qualunque uguaglianza sostanziale tra tutti i cittadini, tra tutte le ragazze e i ragazzi.

I contrasti finiranno col prevalere su quelle misere prospettive di crescita che sono sempre state annunciate, tanto da governi di centrosinistra quanto di centrodestra, e che invece si sono rivelate dei pannicelli caldi, mentre si regalavano soldi alle imprese, si raddoppiavano le spese militari e non si investiva un centesimo sulla tutela dei più fragili.

La democrazia muore così. Non solo sotto scroscianti applausi, ma anche nell’indifferenza sempre più crescente, e nonostante tante lotte ma troppo separate fra loro. Muore nella rassegnazione ad un futuro inimmaginabile, che si ritiene inevitabile e contro cui sembra non si possa fare nulla.

E’ una illusione ottica dettata da una narrazione quotidiana di giornali, televisioni e rete in cui non si fa altro se non tramettere il messaggio che si può pensare locale senza poter fare nulla di più se non sostenere “patriotticamente” gli interessi del Paese e agire globalmente in questo senso, creando una frustrazione non da poco, visto che quello che avviene a livello mondiale è molto poco influenzabile dalla realtà italiana.

Questa narrazione va capovolta: bisogna pensare globalmente e agire localmente, perché solo con una chiara disamina critica del mondo in cui ci troviamo possiamo anche comprendere appieno lo stato del nostro Paese. Era un vecchio slogan zapatista che, guarda caso, è attuale ancora oggi. Più di ieri. E qui sta l’epitaffio da scrivere sulla lapide del dramma in corso…

MARCO SFERINI

19 gennaio 2024

foto: screenshot ed elaborazione propria

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