Raztinger, il papa inadatto alla modernità della Chiesa

La morte di Joseph Ratzinger, attesa da giorni, dopo l’annuncio dell’aggravamento delle sue condizioni di salute, è più che giustamente un elemento emblematico, perché un emblema, per molti versi,...
Joseph Ratzinger

La morte di Joseph Ratzinger, attesa da giorni, dopo l’annuncio dell’aggravamento delle sue condizioni di salute, è più che giustamente un elemento emblematico, perché un emblema, per molti versi, è ciò che ha rappresentato in vita il prefetto del Dicastero per la dottrina della fede divenuto il papa più conservatore e tradizionalista, dopo la rivoluzione di Wojtyła.

E siccome gli stravolgimenti nell’oggi possono essere dei capovolgimenti dell’esistente, ma nettamente in chiave regressiva, è abbastanza corretto poter affermare che non si deve mai dare per scontato che una rivoluzione sia sinonimo di progressismo.

Questo vale per gli accadimenti religiosi e teocratici del Vaticano, e vale anche per quelle occasioni di mutamento radicale che nascono in un ambito popolare, molto laico e, anzi, sovente nettamente in contrasto con quello status quo che è sigillato, guardato a vista proprio da una istituzione bimillenaria come la Chiesa cattolica apostolica romana.

In vita, Benedetto XVI, nel continuare l’opera di Giovanni Paolo II, affermò, tra le prime sue parole pubbliche, che il grande nemico della fede moderna era il moderno relativismo. La pluralità delle morali, dei pensieri e delle discordanze non voleva forse essere messa completamente sotto giudizio e attacco, ma almeno in quel momento parve così. Non senza qualche incertezza anche oggi, il discorso dell'”umile lavoratore nella vigna del Signore” parve riguardare una superiorità etica del cristianesimo sulle altre fedi e della morale cattolica entro il mondo cristiano.

Se ne risentirono un po’ tutti: protestanti, anglicani, ortodossi e, naturalmente, i culti monoteisti che hanno lo stesso dio in comune: islamici e ebraici. Di soddisfacente vi fu che Raztinger parlò chiaro, da fine teologo quale era. Bisogna riconoscerglielo. Non mise mezze parole tra ciò che intendeva dire e ciò che voleva far capire.

Il messaggio era forte e spedito: i valori veramente importanti sono quelli che la Chiesa di Roma difende da sempre, pur in mezzo a mille incespicature, inciampi di ogni sorta che sono quelle evidenti contraddizioni tra il dire e il fare, tra la predica e la messa in pratica della stessa. Teoria e prassi nella storia del potere pontificio si sono intrecciate tanto quanto si sono distanziate.

La religione smette i panni della consolatrix afflictorum nel momento in cui diviene instrumentum regni e si fa potere di dio attraverso gli uomini: quale più altra autorità della divinità si potrebbe immaginare? Far derivare la propria legittimità di comando da dio stesso è il comando per eccellenza, incontestabile, inconfutabile, irreprensibile.

Moralmente, quel potere è dogmaticamente giusto a prescindere. Non ha bisogno di essere interpretato, ma solo eseguito giorno per giorno senza discutere.Del resto, quando il papa parla ex cathedra, è infallibile. Non c’è errore possibile, poiché l’ispirazione divina discende sul vicario di Cristo e si fa quindi esplicita attraverso lui.

Ratzinger, ma non solo lui si intende…, ha, nel corso del suo breve pontificato, dato tanti segnali in questo senso: il tentativo della Curia romana di dare una virata “a destra” (ci si perdoni la semplificazione geopolitica tutta italianeggiante) dopo i ventisette anni di conservazione innovatrice wojtyłiana, dopo il crollo del grande Satana dell’Est e la fine del nemico storico novecentesco della Chiesa, tuttavia non ha funzionato.

Nel reclamare in conclave la funzione creatrice dello Spirito Santo, i cardinali devono aver fatto appello ad una politica di continuità che è sembrata non avere la possibilità di essere riproposta nei termini in cui era stata bene assorbita con la figura di un Giovanni Paolo II duttile, capace di una straordinaria empatia di massa, vicino ai giovani e ai sofferenti, mitigatore delle sofferenze con quell’appello e quella dedizione totale alla Madonna che aveva, in un certo modo, rappresentato una timida apertura al mondo femminile della Chiesa cattolica.

Oggi la potremmo definire “resilienza“, quella di Wojtyła: ma forse è più semplice ancora chiamarla scaltrezza, sagacia, capacità politica di stare in equilibrio tra il mantenimento della tradizione e della catechesi e una innovazione nel proporla a grandi masse smarrite proprio da quella modernità che si affacciava prepotentemente nelle vite e nelle sopravvivenze di tutti dopo i primi anni del pontificato del papa polacco.

Ratzinger, da questo punto di vista, è stato, per sua stessa natura e carattere, un papa molto meno politico: uno studioso di teologia, un maestro della raffinatezza dialettica, uno scrittore, un attento esegeta, adatto alla preservazione del culto, della morale, della disciplina interiore ed esteriore, ha dovuto confrontarsi con quella esplicitazione del potere che è, oggi nella persona di qualunque pontefice, fenomeno di cultura di massa, di costume, oltre che emblema religioso, icona permanente della fede.

La sua impronta di teologo di matrice agostiniana, di formazione nettamente preconciliare, ha avuto un ruolo nella determinazione dell’unicità etica di un fideismo pressoché indubitabile, ben al di là di quel pluralismo interpretativo delle Scritture che il Concilio Vaticano II aveva messo come punto di novità rispetto ad un passato in cui era solo la Chiesa ad essere l’unica e sola interprete di ogni declinazione interpretativa tanto del Nuovo quanto dell’Antico Testamento.

Ratzinger rimane ancorato a questo passato e se ne rende conto, amaramente, proprio quando si trova a dover scegliere se continuare nel ministero petrino oppure lasciare. La pesantezza degli scandali che sono emersi indebolisce oltre modo la credibilità dell’istituzione ecclesiastica e quell’altezza di intermediazione tra dio e i fedeli che lui vuole ancora attribuire alla Curia romana, guardando esclusivamente alla tradizione, diventa un disvalore che non può essere sopportato.

Non si è trattato di arrivare ad un compromesso tra fide et ratio; semmai tra idealità e pragmatismo, per consentire alla Chiesa di superare un momento estremamente difficile e complicato.

Di sicuro, prendendo a prestito proprio l’incipit del primo discorso di Benedetto XVI, dopo quello che tutta la Chiesa considerava un “grande papa“, che aveva contribuito alla caduta del socialismo reale e che si era imposto come traghettatore verso il nuovo millennio, sarebbe stato utile al potere cattolico avere un pontefice non solo nuovamente conservatore, ma anche altrettanto capace di entrare in simpatia oltre i confini del popolo dei fedeli.

Per quanto si sia sforzato di entrare in sintonia con milioni e milioni di fedeli in tutto il mondo, la sua marcata identità di studioso e di scrittore ha prevalso sul ruolo soprattutto pubblico che oggi un pontefice esercita attraverso, ad esempio, i grandi mezzi di comunicazione.

Raztinger è stato un teologo che è diventato papa e che, proprio partendo dalla definizione del concetto di “relativismo” che voleva confutare sulla base di un discorso teleologico, ha puntato alla dimostrazione che la fede ha la sua ragione d’essere proprio e soltanto in sé stessa, in quello che noi laici e agnostici potremmo chiamare un “autoconvincimento radicato“, e che quindi nessuna incertezza è ammessa, ha svolto il suo ruolo di capo della Chiesa sempre nelle vesti di prefetto del Dicastero per la dottrina della fede.

Il conclave ha probabilmente sottovalutato i tempi, ritenendo la transizione verso un nuovo modello di pontificato (quello, per intenderci, inaugurato da Francesco) attribuibile ad uno studioso così attento e meticoloso molto poco propenso ad uscire da questi panni e a divenire una sorta di fenomeno mediatico, così come lo era divenuto Giovanni Paolo II, suo malgrado soprattutto negli ultimi anni della malattia.

Il cannibalismo dei mass media è davvero feroce e non perdona, soprattutto se sei poco duttile, se la tua rigidità deriva, anche in “buona fede” (il gioco di parole è tutt’altro che voluto),  da una convinta adesione a princìpi che ritieni assoluti, indiscutibili: soltanto proponibili al mondo intero come vera interpretazione dell’esistenza, come unico viatico verso quella “salvezza” dal male che è una ricompensa che dio darebbe ai suoi figli in cambio della fede sincera.

Al di là delle questioni teologiche, su cui tanto vi sarebbe da scrivere, dire e discutere, il dibattito che si sviluppò immediatamente dopo le dimissioni di Benedetto XVI da pontefice è stato ampiamente viziato da una serie di illazioni che non hanno forse individuato la più semplice delle ragioni: una somma di cause che stavano minando la credibilità della Chiesa nel suo complesso e la tenuta presso le nuove generazioni di una vitalità spirituale aderente ai valori espressi e richiesti ai fedeli.

Raztinger invita sempre al rispetto degli altri culti, vi si interfaccia costantemente: mostra un interesse verso la condivisione delle idee come arricchimento reciproco, ma alla fine è sempre il richiamo alla dottrina della Chiesa, alla morale cattolica, alla parola d dio così interpretata (e scritta nel corso dei secoli dei secoli…) che prevale su tutto.

«Avere una fede chiara, secondo il Credo della Chiesa, viene spesso etichettato come fondamentalismo. Mentre il relativismo, cioè il lasciarsi portare “qua e là da qualsiasi vento di dottrina”, appare come l’unico atteggiamento all’altezza dei tempi odierni. Si va costituendo una dittatura del relativismo che non riconosce nulla come definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie.».

Il nuovo concetto che si affaccia sulla scena, con il suo pontificato, è quello di “dittatura del relativismo“. Il timore che prevalga il libero arbitrio interpretativo delle cosiddette “sacre scritture” e che, quindi, il primato della Chiesa cattolica entri progressivamente in crisi. I primi contraccolpi, in quel caso, si avvertirebbero proprio ai livelli monarchico assoluti dello Stato, del teocraticismo romano, la cui autorità verrebbe messa in discussione nel momento in cui la sua interpretazione catechistica fosse, appunto, relativizzata.

Ciò che è “cattolico” (“universale“) deve rimanere tale e ciò che è assoluto altrettanto. Ratzinger, per certi versi, amplifica la difesa della Chiesa rintracciabile nel ministero petrino di Giovanni Paolo II e diventa un custode del potere nell’essere fermamente un custode dell’originalità indiscutibile della fede trasmessa dalla Curia romana.

Questo rigore teologico-teocratico è l’errore a posteriori del conclave: male si coniuga con la difficile realtà dei tempi che cambiano. I cardinali progressisti e i cardinali conservatori, se possiamo così semplificare le posizioni interne al Vaticano sui mutamenti stessi della Chiesa davanti alla realtà odierna, sono pressoché unanimi nel convenire sulla importanza della figura ratzingheriana, che prescinde dai tratti agiografici scontati (tra gli altri un quasi rituale ringraziamento di Francesco al Signore per averlo donato al mondo e alla comunità dei fedeli…).

Risponde ad una verità tutta da analizzare un assunto che si legge in queste ore: Raztinger fallisce come pontefice moderno, come papa della transizione, come continuatore della politica di Giovanni Paolo II e, forse, proprio per questo fa da cartina di tornasole ad una oggettività invisibile per i principi della Chiesa fino ad allora.

Se vuole sopravvivere, il cattolicesimo ha bisogno di discontinuità con i pontificati degli ultimi quarant’anni. Ed anche con la riproposizione di uno schema ormai desueto.

Senza il fallimento di Ratzinger non sarebbe stata possibile l’elezione di Jorge Mario Bergoglio al soglio di Pietro. Un gesuita che comprende i grandi problemi di questa umanità, pronto ad accompagnare la sua Chiesa in una piena aderenza ad una espressione moderna della fede e della religione che torna ad essere così uno strumento di persuasione e di convincimento delle masse della bontà di una illusione ancestrale, che affonda nella notte dei tempi dell’incoscienza umana, tutta alla ricerca di una ragione per cui vivere e per cui patire le ineguaglianze e le sofferenze.

La sottigliezza teologica resta appannaggio delle sacre stanze in cui si dibatte di argomenti che sono per lo più estranei alla stragrande maggioranza delle persone. Bergoglio non è l’opposto di Ratzinger e nemmeno il suo completamento, la correzione dei suoi errori. E’ quello che la Chiesa andava cercando come compromesso tra il passato, il presente e il futuro.

Un volto umano da offrire ad una umanità persa tra capitalismo liberista, fame, miseria, povertà in aumento e, per ultimo, pandemia e guerra in Europa. Un papa certamente conciliare, più aperto al confronto anche con il mondo laico e con tutte le altre religioni. Un papa che garantisce oggi ad un potere di potersi dire ed essere, almeno per il momento, ancora salvo e in buona forma.

MARCO SFERINI

3 gennaio 2023

Foto di heblo da Pixabay

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