La ridicolizzazione del pacifismo nello svilimento della democrazia

Non siamo mai stati e non saremo, quanto meno nei prossimi decenni (e forse secoli), nel migliore dei mondi possibili. Ogni indicatore, economico, politico, culturale, sociale, civile e persino...
Carlo Rovelli sul palco del concertone a Roma il Primo Maggio

Non siamo mai stati e non saremo, quanto meno nei prossimi decenni (e forse secoli), nel migliore dei mondi possibili. Ogni indicatore, economico, politico, culturale, sociale, civile e persino morale ci dice che stiamo andando nella direzione opposta rispetto a quella del progressismo, dell’evoluzione contestuale, ovviamente con parametri e piani diversi di valutazione, tra scienza e coscienza, tra scienza e vita in generale.

Il consolidarsi di tutta una serie di governi che si ispirano a visioni conservatrici, che guardano ad una restaurazione dei privilegi di classe, ad una condivisione dei diritti solamente per chi condivide una determinata inclinazione etica, relegando l’universalità dell’uguaglianza ad un punto di principio e nulla più, non fa sperare di poter riproporre la questione sociale come perno di una dinamica e di una dialettica tra essere umano e natura tali da innescare una spirale virtuosa, tesa a preservare le differenze e non a stigmatizzarle.

L’Italia è tra le capofila di questa retrività. E’ la rappresentante europea di un modello politico che intende tutelare solo i più abbienti, i ricchissimi, il padronato imprenditoriale, coloro che sono ascritti al ruolo di produttori della ricchezza nazionale secondo il dogma liberista.

Lo Stato decisamente forte tanto sul piano della difesa dei privilegi quanto su quello dell’intervento interno, della stabilizzazione dei rapporti fra quelle classi che vengono negate nella narrazione ufficiale ma che, lo sa bene anche Giorgia Meloni, esistono e ogni tanto decidono anche di farsi sentire.

Questa fase un po’ globale di riemersione delle forze politiche conservatrici e reazionarie è permessa da una congiuntura favorevole alla riapertura di ferite mai sanate, di concorrenze imperialiste e militari sedimentatesi nel tempo.

Seppure con le debite differenze da paese a paese, dai tanti conflitti che si sono aperti da decenni e che oggi, complice la guerra in Ucraina, la guerra tra le guerre, quella più visibile e su cui tutti i riflettori sono puntati da un anno per le interazioni negative che provoca tra i tre principali blocchi di potere statale ed economico-finaziario (USA, Cina, Russia), è chiaramente possibile osservare come le condizioni del riarmo e dello sfruttamento intensivo della natura, degli animali e dell’essere umano siano le migliori strutture su cui far poggiare il fiorire di una politica di destra estrema.

Tutto si tiene e tutto si compenetra e si autoalimenta in un circolo vizioso che mette in gara le presunte democrazie occidenali con le oligarchie dell’Est europa e con i regimi asiatici.

L’Italia dell’epoca meloniana aderisce, con la sua politica economica, perfettamente alle prerogative richieste dalla versione atlantico-statunitense di un imperialismo che riesce a far stare insieme il democraticismo bideniano, l’espansionismo militarista stoltenberghiano e il non protagonismo di una Unione Europea incapace di una politica estera unitaria, immersa nelle contraddizioni storiche tra Ovest ed Est, tra Occidente e mondo balcanico che si protende verso la Russia, verso la Turchia e verso un Medio Oriente dilaniano dalle lotte fratricide.

L’Italia di Giorgia Meloni è, ogni giorno che passa, sempre più assorbita dal contesto che, smentendo l’impronta fintamente nazionalista data al suo partito e, in parte, anche alla coalizione divenuta maggioranza (relativa) nelle ristrettezze numeriche della partecipazione elettorale settembrina, afferma la sua decisione nel sostenere la guerra in Ucraina senza se e senza ma.

Ricevendo oggi, e non per la prima volta, il presidente Volodymyr Zelens’kyj compie l’ennesimo atto, tutt’altro che dimostrativo e solamente diplomatico, di assicurarsi come uno dei partner più attivi nella produzione di armi finalizzate a ciò che la Costituzione vieta: risolvere le controversie internazionali con la guerra. Un conflitto in cui l’Italia può dirsi estranea? Cerchiamo di essere sinceri. La definizione di “guerra per procura” è veramente la quinta essenza dell’ipocrisia politica.

Dopo un anno e mezzo di conflitto, raccontato giorno per giorno dalle televisioni, al pari delle prime guerre seguite in diretta dal lontano 1991 dal Golfo Persico,  chi prende una posizione nettamente pacifista, contro l’invio delle armi all’Ucraina è classificato come illuso nella meno stigmatizzante delle etichettature, come “putiniano” in quella forse peggiore, per dare ad intendere una sorta di intesa tra l’irragionevolezza che si esprime e l’indiretto appoggio che si darebbe alla Russia.

Ribadendo una terzietà necessaria per una Italia, che si faccia alfiere di un processo di avvicinamento tra le parti, di un dialogo frutto di un lavoro diplomatico, così come hanno tentato – per diverse strade e con obiettivi molto ambiziosi, oltre che con interessi propri da garantire nello scacchiere internazionale – Cina, Francia e Turchia, secondo i teorizzatori della “guerra per procura” altro non si farebbe se non indebolire il fronte occidentale, l’Alleanza atlantica e i rapporti con gli Stati Uniti.

Il paradosso comincia ad essere abbastanza evidente: quelli che hanno riarmato e riamarno l’Ucraina per consentirle di difendersi dall’aggressione russa hanno investito in questo conflitto tanto politicamente quanto militarmente. La questione democratica è buona solo per chi si racconta la storia da un punto di vista molto romantico che, draconianamente, divide il mondo in due: da una parte i buoni e dall’altra i cattivi. Ma non funziona così.

Non fosse altro perché gli attori in campo sono almeno tre, quelli emergenti e riemergenti. Mosca, Pechino e Washington si contendono gli spazi del pianeta da controllare e sfruttare per raggiungere se non un dominio planetario quanto meno una supremazia che punta alla differenziazione dei ruoli ma che, inevitabilmente, finisce con l’apprendere come indisgiungibile la politica dall’economia (e viceversa), il militarismo dalla politica e dall’economia.

In questo contesto così complicato, e di cui non si intravede una soluzione armoniosa, ma un ancora maggiore inasperimento dei conflitti prodotti, si inserisce, oltre all’economia di guerra, anche la messa a tacere delle voci critiche, del dissenso: da quello organizzato o spontaneo che chiama alla staffetta per la pace, alla saldatura tra rivendicazioni sociali e contrarietà alle politiche belliciste dei governi, fino a quello singolo che, però, ha una vasta eco se viene da grandi scienziati, intellettuali e studiosi.

E’ il caso del fisico Carlo Rovelli che, dal palco del concertone del Primo Maggio, ha osato esprimersi così:

«È ragionevole che in Italia il ministro della Difesa sia stato per anni legato a una delle più grandi fabbriche di armi del mondo, la Leonardo? E sia stato Presidente della Federazione dei costruttori di armi. Il ministero della difesa serve per difenderci dalla guerra, o per aiutare i piazzisti di strumenti di morte?».

Non gli è stato perdonato questo afflato di democratica e condivisa sincerità, plateale e teletrasmessa. La prova è la sua esclusione dalla fiera del libro di Francoforte. Il suo intervento, che avrebbe rappresentato l’Italia nella kermesse tedesca, avrebbe potuto generare nuove polemiche e, quindi, scrive il commissario della fiera Riccardo Franco Levi, pur rammaricato e desolato per la lettera che ha dovuto scrivere al professore, la richiesta è stata quella di desistere dal partecipare.

Possiamo anche credere al sincero rammarico, ma è evidente che un governo che non ispiri atteggiamenti di censura nei confronti dei suoi detrattori non indurrebbe nessuno a scrivere una lettera in cui, praticamente, si chiede ad una persona autorevole, ad un esimio scienziato, ad una eccellenza della cultura di farsi da parte perché le sue opinioni sono imbarazzanti.

L’imbarazzo è il prodotto di una società acquiscente nei confronti del tratto governativo che delimita ciò che è asseribile e ciò che non lo è.

Criticare il ministro della difesa, prendere parte ad una lotta per la pace, schierarsi contro la guerra, sono tutti atteggiamenti censurabili in un tempo presente in cui la difesa non c’entra niente con la difesa, ma solo con l’offesa; la pace viene adoperata come imbellettamento dei discorsi da chi vota in Parlamento per continuare a mandare armi, sempre più pesanti, moderne e in grado di allargare il conflito; l’antimilitarismo e l’antimperialismo sono indicibili come ai primi del ‘900, quando socialisti e comunisti, qualche liberale e molti anarchici erano incarcerati per le loro opinioni “antipatriottiche“.

Termometro dell’involuzione governativa è anche quanto accaduto al professor Rovelli, oltre che tutto quello che sta capitando nella nuova disorganizzazione della più grande azienda culturale del Paese: la Rai.

C’è di che riflettere, c’è molto su cui impegnarsi, su più livelli, per evitare all’Italia una regressione sociale e culturale che faccia accontentare un po’ tutte e tutti della narrazione da talk show, superficiale, banale e piena di luoghi comuni; frutto di dibattiti impropriamente detti, schermaglie vistose, anfitrionicamente disposte al consumo del telespettatore per rappresentare tutti gli stereotipi del caso. Oggi l’arte del dubitare è preziosa, ma deve essere considerata in quanto esercizio condivisibile, comune, privo di qualunque tentazione complottista.

Non dobbiamo far scadere la critica verso la guerra o verso i governi in una contronarrazione che si muova su paradigmi prestabiliti, su aggiornamenti di vecchie fraseologie unite a nuove fantasie di complotto. Dobbiamo argomentare minuziosamente, disarticolare i teoremi della politica di governo, sapendo che è più difficile penetrare la cortina fumogena dei media, e lo sarà sempre di più se non si farà appello alla difesa del diritti di ognuno di noi di poter essere libero di non approvare le azioni dell’esecutivo.

Clima ed economia di guerra rendono sbiadita l’impronta democratica della Repubblica. L’Italia che va alla guerra è quella che, prima o poi, finisce per dichiarare guerra ad una parte del suo popolo: quella che è la cattiva coscienza del benpensare, del pragmatismo a tutto tondo, dell’approccio etico di Stato che sovrasta le coscienze e gli interessi comuni.

Si usa dire che le disgrazie non vengono mai sole. Le guerre tanto meno.

MARCO SFERINI

13 maggio 2023

foto: screenshot

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