Da Cristoforo Colombo che la “scoprì”, ad Amerigo Vespucci che le diede indirettamente il nome, l’Italia ha sempre avuto un forte legame con l’America. Legame consolidato nei primi venti anni del secolo scorso quando circa quattro milioni di italiani approdarono sulle coste dell’Atlantico in cerca di fortuna. Da quell’immigrazione nacque una forte comunità di italoamericani, testimoniata dalle tante “Little Italy” sparse per gli States, che spesso ha lasciato il segno (non sempre in positivo, basti pensare ad Al Capone).
Di origini italiane anche Eric Garcetti, il Sindaco di quella che gli spagnoli avevano chiamato El Pueblo de Nuestra Señora la Reina Virgen de los Ángeles del Rio de la Porciúncula de Asís (Il villaggio di Nostra Signora la Regina Vergine degli Angeli del fiume della Porziuncola d’Assisi… a proposito di legami con l’Italia), ma che oggi si chiama molto più semplicemente Los Angeles. Anche a Hollywood, il famoso distretto della città californiana, gli italiani hanno lasciato e continuano a lasciare il segno. Da Rodolfo Valentino, uno dei primi divi cinematografici, indimenticabile in The Sheik (Lo Sceicco) e Blood and Sand (Sangue e arena), a Salvatore Ferragamo, fondatore dell’omonima azienda, che negli USA divenne il calzolaio di Hollywood capace di realizzare nella sua bottega scarpe per David Wark Griffith, Cecil B. DeMille, Gloria Swanson, Charlie Chaplin e ovviamente per il connazionale Valentino. Negli stessi anni giunsero nella “Mecca del cinema” anche due donne uniche come Tina Modotti, fotografa, militante comunista che ebbe una breve carriera cinematografica, e Lina Cavalieri soprano e poi attrice definita “la donna più bella del mondo”. Circa cento anni dopo a Los Angeles è volata, perché ormai non si sbarca più, un’altra donna, una architetto designer che partendo da Savona, con sosta a Reykjavik, è giunta a Hollywood. Se il suo compagno di vita e di interessi, Fabio Del Percio si è laureato in Regia cinematografica a maggio, lei ha studiato sceneggiatura e recitazione. È un’amica e il suo nome è Anna Giudice.
Come e quando sei passata dalla “prima arte”, l’architettura, alla “settima”, il cinema?
L’arte per me è una forma di espressione umana di natura creativa che comprende una vasta gamma di attività, creazioni e modi di espressione, tra cui musica, architettura, letteratura, cinema, scultura, pittura, ecc. Il mio non è stato, quindi, un passaggio, ma piuttosto un’evoluzione della mia ricerca artistica.
Prima di arrivare negli States, avevi avuto qualche esperienza cinematografica in Europa?
Sí, ho avuto alcune collaborazioni importanti. Ho lavorato ad un video dell’artista Meg, ex 99 Posse, come produttrice ed assistente sul set e ho lavorato come set designer nella produzione di un paio di stagioni di Game of Thrones. Inoltre sto facendo un dottorato di ricerca presso l’Università d’Islanda in Studi Cinematografici al dipartimento di Studi Culturali. Da qui l’idea di trasferirmi a Los Angeles per approfondire la mia ricerca direttamente sul campo. In un paio di anni ho aggiunto al mio curriculum due lauree prese contemporaneamente all’UCLA in Recitazione e in Studi di Intrattenimento.
Tra i tuoi insegnanti anche Warren Lewis, sceneggiatore tra gli altri di Black Rain di Ridley Scott…
A Los Angeles ho fatto anche un corso di specializzazione in Sceneggiatura cinematografica all’UCLA. Tra gli insegnanti, appunto Warren Lewis, un ruvido sceneggiatore schivo e burbero a cui è piaciuta la sceneggiatura che ho scritto durante il suo corso e ha deciso di collaborare con me per farla diventare un film. Purtroppo i nostri incontri per lavorare al progetto si sono interrotti a causa del Covid ma siamo nuovamente in contatto per riprendere il lavoro. Non amiamo entrambi gli incontri su Zoom ma preferiamo discutere davanti ad una cioccolata in Montana Avenue a Santa Monica.
Il primo corto in cui hai recitato è Queen of Diamonds (2018) diretto da Arman Calbay. Nel film, drammatico e divertente al tempo stesso, reciti al fianco di Fabio. Successivamente sei apparsa in The Crash (2018) di Lea Volke, nella parte di una testimone dell’incidente richiamato nel titolo, e in Manga and Tea (2019) di Beituo Wang, storia di una ragazza che cerca di fermare il matrimonio della madre Lucy, da te interpretata. Quindi Marmeid e Take a shower. Come sono state e cosa ricordi di queste tue prime esperienze?
Sono sicura che non verrò ricordata per i film che hai citato. Sono stati, più che altro, esercizi di stile utilizzati durante il mio percorso formativo. Questi esempi, poi si riferiscono solo alla mia attività di attrice. Cercare di recitare il più possibile è fondamentale per un attore. È molto importante mettere in pratica la tecnica e mantenerla viva.
Vorrei porre la tua attenzione su questa bellissima riflessione scritta da Uta Hagen nell’introduzione del suo saggio “Respect for acting”: “Ho trascorso gran parte della mia vita sul palcoscenico e so che il processo di apprendimento in campo artistico non è mai finito. Le possibilità di crescita sono illimitate. Tuttavia, nel corso della mia vita, ho cambiato atteggiamento nei confronti dell’arte della recitazione. Quando era giovane, accettavo opinioni come: “Sei nata per fare l’attore”; “Gli attori non hanno la consapevolezza degli altri artisti”; “Recitare è solo un atto istintivo, non può essere insegnato.” Durante il breve periodo in cui anch’io credevo a tali affermazioni, non avevo rispetto per la recitazione”.
Sono in molti a credere che la formazione di un attore sia frutto del talento. Nei confronti delle altre arti, l’approccio è differente. Nessuno dubiterebbe del lavoro e dello studio che c’è dietro un pianista di talento nell’eseguire un concerto per pianoforte di Beethoven, o di una ballerina che interpreta Giselle. Più che nelle altre arti sceniche, la mancanza di rispetto per la recitazione sembra scaturire dal fatto che ogni profano si considera un critico valido. Mentre nessun pubblico specializzato disquisisce sul movimento del braccio del violinista o del movimento del pennello del pittore, saranno tutti disposti a dare un giudizio sulla performance di un attore. Quindi, tornando alla tua domanda, considero queste esperienze come parte del mio training.
In Dr. On (2019) diretto da Vi-Dieu Nguyen vieni ringraziata nei titoli di coda. Come hai contribuito al film?
Ho recitato in una scena che poi, per ragioni legate al montaggio, è stata tagliata. Da qui i ringraziamenti. Un po’ mi è dispiaciuto anche perché lavorare con Vi è stato fantastico. Ha una grande esperienza e ha una visione fumettistica del cinema. Pensa che è uno dei disegnatori capo del film animato Spider-Man: Into the Spider-Verse che ha vinto l’Oscar nel 2019 come migliore lungometraggio di animazione.
Hai dichiarato di voler fare film e scrivere sceneggiature, in particolare sul femminismo. Per questo hai fondato la Cowberry Films?
Credo sia importante dedicare un po’ di tempo ai progetti della Cowberry Film, la casa di produzione fondata da me e Fabio Del Percio. Innanzitutto mi piacerebbe spiegare da dove deriva il nome. Il cowberry, il mirtillo rosso, è un frutto molto comune in California e negli Stati Uniti dell’ovest in generale. È un frutto molto utilizzato in passato dai nativi americani, sia in campo alimentare, sia in quello curativo e cosmetico. Il suo succo veniva anche usato per colorare pelli e tessuti. Il riferimento alla cultura e al territorio americano è molto importante per noi. La nostra casa di produzione è una piccola realtà autofinanziata ma che speriamo possa crescere. Al momento ha prodotto un cortometraggio/video musicale e un documentario. Un altro cortometraggio è in post produzione.
Parliamo di questi film…
Il primo nostro cortometraggio si chiama Spirit ed è nato come video musicale della canzone “I’ll make you feel” della band Low Roar, che, tra l’altro, ha scritto la colonna sonora del popolarissimo video gioco “Death Stranding”. In seguito poi è stato trasformato in un cortometraggio. È la storia di un incontro onirico tra una donna cavallo e un bizzarro personaggio trovato nel deserto. È una sperimentazione senza filtri, lo spettatore deve solo entrare nel mondo di Spirit e lasciare che il resto accada davanti ai suoi occhi. È un film che lascia aperte molte domande e molte interpretazioni. Può essere considerata anche una storia LGBTQ per chi vuole guardarlo da un’altra angolazione. Mia è la sceneggiatura e mia è anche l’interpretazione del personaggio della donna misteriosa. Con questo corto siamo entrati in finale al New York International Film Festival che si terrà a Manhattan il prossimo Ottobre e stiamo aspettando il responso da altri festival. La regia e il montaggio sono invece di Fabio Del Percio.
Il secondo lavoro della Cowberry è un documentario che si intitola Soul of the Lands (L’anima delle terre), che è in finale al RIFF, il Reykjavík International Film Festival. Il tema è la condivisione della cultura, dell’arte e della spiritualità. In questo caso si parla della capanna sudatoria, la sweat lodge, una pratica nativa americana che è stata portata in Islanda da uno sciamano della tribù dei Chukchansi, Somp noh noh, 25 anni fa ed è stata adottata dalla comunità degli artisti islandesi come pratica per entrare in connessione con la spiritualità e la creatività. Un progetto molto importante per noi, in cui non viene attraversata semplicemente la barriera culturale ma la trascende. Il lavoro rivela non solo il campo inter-soggettivo della coscienza che collega il sé e l’altro, ma anche le modulazioni graduali e le caratteristiche comuni dell’esperienza tra i diversi gruppi culturali.
Il terzo lavoro si intitola Crave. È un cortometraggio surrealista e sperimentale, scritto e diretto da Fabio Del Percio e prodotto ed interpretato da me e dall’attrice turca Roksi Aciman. È un film onirico con contenuti psicologici che sconfinano nell’horror. È una costante ricerca del bilanciamento dei paradossi della vita fatta di dualità, attiva e passiva, di sguardi e di enigmi irrisolti. Ispirato a Persona di Bergman, il film tende a mostrare le visioni opposte di due donne attraverso uno gioco di specchi e di incubi ciclici. E questa ciclicità è stata ispirata dal cortometraggio rivoluzionario del 1943 di Maya Deren, Meshes of the Afternoon. Nel lavoro della Deren, come in Crave, le azioni e le immagini vengono ripetute: la visita, la torta al limone, le scale, la camera da letto, i vestiti sensualmente sfilati. Le immagini familiari servono ad attivare la memoria dei sogni, del reale e dell’irreale, in cui nulla è la verità. È la ricerca del reale nella relatività.
In Spirit, l’immagine della locandina è curata dall’amica di sempre Valeria Morando, compari come Dakota Woolf. Perché questo pseudonimo?
Mi sono data un nome, un nome che mi appartenesse e che mi facesse sentire parte del Cosmo. Sto lavorando molto su me stessa e, nel far questo, di grande aiuto sono stati i saggi scritti da Jodorowsky e Jung.
Inoltre Dakota nel linguaggio della tribù Dakota significa alleati, amici. Ed È un nome bisex. Woolf da Virginia Woolf, scrittrice femminista, pioniera nell’uso del flusso di coscienza nella narrazione. Assonanza con la parola wolf, lupo.
Hai incontrato Werner Herzog, e forse altri registi, ma c’è un tuo autore o autrice di riferimento? Esiste un tuo film preferito?
Si’, ho incontrato parecchi registi, attori e sceneggiatori qui a Los Angeles, persone con cui è sempre stato possibile fare una chiacchierata informale, da David Lynch a Jim Jarmusch, da Laura Dern a Frances McDormand. L’incontro piú bello è stato, però, con Lynn Shelton, regista indipendente di Humpday – Un mercoledì da sballo e di Your Sister’s Sister, morta, purtroppo, prematuramente lo scorso maggio per un’infezione del sangue. Un altro bell’incontro è stato con Luca Guadagnino alla festa pre-Oscar 2018 della Sony Classic a Melrose. Un grande regista sottovalutato in Italia e apprezzatissimo negli stati Uniti.
Per quanto riguarda il mio regista di riferimento, non posso assolutamente ridurre la lista e probabilmente non abbiamo abbastanza spazio qui per elencarli tutti. Mi limito quindi a rispondere alla seconda domanda. Esistono due film che mi hanno segnato molto che hanno il titolo molto simile. Uno è Once Upon a Time in the West di Leone e l’altro è Once Upon a Time in Hollywood di Tarantino. Probabilmente una scelta impopolare la mia.
Quanto è difficile muoversi nella scena del cosiddetto “cinema indipendente”, lontano dai grandi finanziatori e dalla grande distribuzione?
Non è facile per il semplice motivo che meno soldi ci sono meno mezzi si hanno per realizzare i propri progetti. È una costante ricerca di fondi.
Il percorso cinematografico che hai fatto a Los Angeles sarebbe stato possibile in Italia o come ha dichiarato Vito sulle nostre pagine, oggi il cinema italiano è solo romano e fatto dagli stessi attori?
Sinceramente non conosco molto il panorama italiano cinematografico dal punto di vista lavorativo ma da quello che posso vedere da spettatrice credo che Vito abbia ragione. Inoltre ritengo la recitazione italiana molto antiquata e stereotipata. Se vuoi su questo facciamo una bella discussione la prossima volta per evitare di rilasciare proclami sterili. Ma purtroppo è quello che penso. E il romanesco come lingua nazionale del cinema sicuramente non aiuta. Non credo sia un caso che Guadagnino abbia scelto un cast internazionale per girare il film Suspiria.
Progetti per il futuro?
Come ti ho detto prima, vorrei sicuramente finire il cortometraggio Crave che ora è in post-produzione. Vorrei anche trovare un agente in Italia che si possa aggiungere a quello americano per fare nuove esperienze e per mettere in pratica la mia tecnica nella mia lingua. Voglio, poi, completare il mio dottorato e, se sarà possibile, insegnare nuovamente all’Università come ho fatto in passato. Mi piacerebbe scrivere anche articoli di cinema, ma su questo ci sto ancora lavorando.
redazionale
Immagini gentilmente concesse da Anna Giudice.