Il fucile di Kyle nel Grande Paese di Trump

Kyle dice di essere andato lì, dove neri e bianchi manifestavano, protestavano contro il ferimento quasi mortale di Blake: sette pallottole alla schiena al posto delle manette. Poi anche...
Kyle e il suo fucile nella notte folle di Kenosha

Kyle dice di essere andato lì, dove neri e bianchi manifestavano, protestavano contro il ferimento quasi mortale di Blake: sette pallottole alla schiena al posto delle manette. Poi anche quelle. Ed un’America che torna ad indignarsi per la spregiudicatezza dei metodi violenti, omicidi con cui la polizia tratta la popolazione di colore prima e durante lo stato di fermo.

Kyle ha diciassette anni e imbraccia un fucile semiautomatico e pensa di dover “dare una mano” agli agenti. Si posiziona nei pressi di un distributore e punta con gli occhi verso la linea della rabbia di chi ha tanti visi scuri per la pelle ma che non proteggono camaleonticamante nel buio della notte a tal punto da sfuggire alle pallottole.

Kyle ha aderito ad un appello lanciato su Facebook: una autonominata “guardia civile” del Wisconsin, della città di Kenosha, ha deciso di radunarsi quella sera per “difendere le proprietà” dall’assalto dei manifestanti, dalla collera di chi ha sempre un pregiudizio puntato addosso, un pregiudizio talvolta armato. Come in questo caso.

Sono tre giorni che la terra brucia, che gli animi esplodono, che la furia non si contiene con le semplici urla, con gli slogan, con qualunque laico od evangelico richiamo alla non-violenza. I “Black lives matter” sono la cattiva coscienza del 2020 di una nazione che ha riscoperto ennesimamente di non aver mai superato il razzismo: ceti popolari, grandi finanzieri, politici e istituzioni convivono con la plurisecolare storia che contrappone metà della popolazione statunitense all’altra metà.

Magari non sarà più geo-social-politicamente un Nord contro Sud, non sarà una guerra civile ma vi somiglia molto se un ragazzo, un adolescente è ispirato da una morale che gli consegna un’arma in mano e l’autorizzazione del tutto privata, istintivamente singolare ma calata dentro un contesto plurale e collettivo, di agire senza dover rendere conto a nessuna legge, senza doversi fermare davanti ad alcuna remora.

Kyle va avanti e indietro dal distributore allo schieramento dei polizia. Chiede dell’acqua ma probabilmente vuole sondare meglio il terreno, vedere dove sono appostati i manifestanti.

Poi la situazione degenera, la autoproclamata milizia popolare di difesa della proprietà individuale viene a contatto con i neri che non imbracciano alcun fucine, non hanno nelle mani alcuna pistola. Hanno i volti pieni di rancore e una voglia di ribellarsi che non è contro la proprietà, semmai è contro un sistema che discrimina, reprime e giudica in base al colore dell’epidermide.

Kyle si becca dello spray al peperoncino negli occhi ma parla alle telecamere o ai telefonini che lo riprendono. «Ho una buona mira», si vanta. Non è al tiro al piattello: davanti a lui ci sono esseri umani. Ma lui ripete di avere una buona mira. Come motto, al posto di “Black lives matter“, lui su Facebook ha “Blue Lives Matter” (“Le vite dei poliziotti contano”). Si fa ritrarre imbracciando il suo fucile e delle calzature con le “star and strips“: le stelle nella scarpa destra, le strisce in quella sinistra.

E’ probabile che con quelle pacchiane scarpe sia andato ad un comizio di Donald Trump: di sicuro Kyle non è un simpatizzante di Bernie Sanders! Forse non è nemmeno classificabile come razzista, come suprematista bianco. E’ un ragazzo che è cresciuto in in quel “grande Paese” dove il possesso delle armi è legittimato da una Costituzione emendata ma che autorizza i cittadini alla “difesa della proprietà privata“. A qualunque costo. A costo della vita.

Il modello che in Italia accarezzano i sovranisti: se mi entri in casa di notte e sei armato anche solo di un coltellino da campeggio e di una torcia, addio legittima difesa, devo poter avere il diritto di spararti, farti secco senza avere alcuna conseguenza penale. Difesa della proprietà. Prima di tutto. Prima del diritto.

Kyle, mentre i manifestanti si lambiscono e la tensione sale vertiginosamente, restra imbrigliato nel caos. Si sente sparare in colpo nei video della notte violenta di Kenosha: non si capisce chi l’abbia esploso. Kyle fugge, cade, rocambola in terra e si trova accerchiato dai quei neri le cui vite per lui, forse, contano meno di quelle dei poliziotti.

Ha paura Kyle, reagisce e non lo fa a pugni, calci, sberle. Lo fa con il fucile. Spara e ne colpisce due. Ha una buona mira Kyle, ma serve a poco se sei rannicchiato per terra in una contorta posizione di difesa: uno dei manifestanti raggiunti dai proiettili è al suolo e non si muove. L’altro pare ferito. Ma i morti, alla fine, saranno due.

Spara ancora Kyle, si fa largo col piombo tra la folla inferocita: scappa verso le camionette della polizia. Alza le braccia, sa cosa ha fatto. Conosce i metodi dei poliziotti. In America è sempre meglio alzare le mani davanti ai “blue“, anche se ti fermano soltanto per un controllo stradale. «Mani in alto!», è la frase più nota dai film del vecchio West fino ai polizieschi moderni.

Ma la polizia non lo blocca, lo lascia praticamente libero. Così tenta la fuga ma viene preso. Il capo della polizia di Kenosha, rispondendo alle domande dei cronisti, minimizza: «Se le gente non fosse scesa in strada violando il coprifuoco, non sarebbe accaduto nulla». La colpa è dei neri, dei manifestanti.

Kyle ora dovrà rispondere di omicidio di primo grado: intenzionale e plurimo. E’ la fine, o forse è solo il principio, dell’ennesima cronaca di sangue che ricade sulla piattaforma politica e istituzionale dell’egoismo esasperato, dell’individualismo liberista, del trumpismo come declinazione statunitense del sovranismo che ha ringalluzzito le formazioni più conservatrici liberali e quelle più fanatiche da Ku Klux Klan.

La crisi del coronavirus ha accentuato anche negli USA differenze abissali sul terreno sociale su cui si diffondono le proteste di massa che mettono a rischio la rielezione di Donald Trump colpevole di non aver creato quell’America grande che aveva promesso a finanzieri, speculatori, uomini d’affari e politici che hanno il sostegno di tutto il sottobosco delle destre neonaziste e fasciste che ricevono dollaroni sonanti per il loro appoggio elettorale durantre le consultazioni nei vari stati e durante quelle presidenziali.

Ma la crisi pandemica non ha aiutato il trumpismo a diffondersi proprio a ridosso delle elezioni per la Casa Bianca. C’è tutta una corte imperiale che rischia di essere sostituita, tante teste che salteranno se Biden vincerà lo scontro con Trump. Rimarrà inalterata la struttura economica, così come non cambieranno molti aspetti di politica estera (Palestina, Medio Oriente in generale), ma indubbiamente verrà meno l’intercolutore diretto e onnipotente alla Presidenza della Repubblica stellata.

Trump è una icona, un emblema, una immagine rassicurante per le destre americane. Biden metterebbe fine a questa idolatria e non garantirebbe più alcuna percezione di impunità per tutti coloro che oggi si sentono in diritto di essere razzisti in tutta evidenza, manifestandolo senza alcuna vergogna, magari imbracciando anche un fucile e sparando. A soli diciassette anni.

E un sistema dove i ragazzi come Kyle restano stritolati dalla massificazione della crudeltà, dalla mistificazione della verità oggettiva dei fatti fagocitati da tanti e tali pregiudizi che crescono sulla mitizzazione della forza come unico metodo di risoluzione delle controversie: da quelle di vicinato a quelle internazionali.

Kyle è una vittima, dunque? E di chi? Dei sovranisti trumpiani che esacerbano gli animi sulla base dei peggiori pilastri del conservatorismo puritano, del nazionalismo a tutto tondo, del primato americano su ogni altra nazione del Pianeta? Oppure è una vittima anche dei democratici che, nello scontro con Trump, non sostengono fino in fondo le ragioni di una America ribelle che si muove sulle gambe delle centinaia di migliaia di “Black lives matter“?

La “presentabilità” di Biden è irrinunciabile: la garanzia alle alte sfere del potere economico e finanziario di essere un candidato rassicurante politicamente, capace di gestire i movimenti sociali, deve poter essere data per certa. Movimenti di massa come il “Black lives matter“, proprio perchè tali sono da un lato difficilmente gestibili, essendo privi di una guida politica, dall’altro facilmente manipolabili e indirizzabili nelle linee di contenimento degli eccessi.

La protesta che non riesce ad imporre un cambiamento, anche se grandiosa, imponente e partecipatissima “coast to coast“, finisce per esaurirsi in un autoreferenzialismo che, a poco a poco, la spegne. Rimarranno le promesse di Biden e dei democratici di voltare pagina rispetto al trumpismo: ed è sicuro che, come accade anche in Europa, i soggetti progressisti che fanno politiche economiche liberiste e di destra hanno una sensibilità tutta liberale per i diritti civili.

Ma nulla deve tracimare dal vaso che contiene il regime economico che produce i disastri sociali di cui finiscono vittime tanto i neri di Kenosha quanto i diciassettenni come Kyle. L’assassino è un ragazzo, ma il mandante è ben più grande, vecchio, magari anche decrepito se qualcuno non lo sottraesse alla morte davanti alla mano della corruzione che seduce un po’ tutti: endemicamente le destre, ipocritamente le pseudo-sinistre di mezzo mondo.

MARCO SFERINI

27 agosto 2020

foto: screenshot

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