Stanley Kubrick. Viviamo in un mondo di merda, ma siamo vivi

ALLA WARNER. Da regista a leggenda

TERZA PARTE

Dopo lo straordinario successo di 2001: Odissea nello spazio, film fondamentale per i registi della “New Hollywood” a partire da Steven Spielberg e George Lucas, Stanley Kubrick si concentrò su un film storico. Per quanto l’esperienza di Spartacus fosse stata negativa, il regista aveva subito il fascino di comandare, letteralmente, un esercito. Già alla fine del 1967 confessò ad Andrew Birkin, suo creativo assistente in 2001, di avere la MGM in pugno e di voler realizzare un film, anzi il film, sulla vita di Napoleone.

Kubrick, con la consueta meticolosità, assoldò Felix Markham, il principale esperto britannico di Napoleone, che coinvolse nel progetto venti studenti di Oxford incaricati di riassumerne le oltre cinquecento biografie esistenti sul condottiero francese. Lo stesso regista iniziò a leggere migliaia di pagine sull’Impero francese e l’età napoleonica.

1. Napoleon (1927) di Abel Gance

Il regista visionò, inoltre, tutte le pellicole su Napoleone, dal Napoleon (1927) di Abel Gance, tutt’ora insuperato e probabilmente insuperabile, che alla fine degli anni sessanta era reperibile solo in copie frammentate, a Désirée (1954) di Henry Koster dedicato alla fidanzata del futuro generale interpretato nel film da Marlon Brando. Kubrick non aveva dubbi, il suo Napoleon sarebbe stato il migliore, concentrato non semplicemente sulle gesta eroiche, ma sulla fallibilità di un essere umano dalle battaglie alla vita amorosa.

I piani iniziali del film, le cui riprese avrebbero avuto inizio nell’inverno del 1969, erano grandiosi e prevedevano l’utilizzo di un autentico esercito, quarantamila uomini per la fanteria e diecimila per la cavalleria, perché “Le battaglie napoleoniche sono meravigliose, come grandiosi balletti letali […] Possiedono tutte una brillantezza estetica che non richiede una mente militare per essere apprezzata […] Si avvicinano a una grande composizione musicale, o alla purezza di una formula matematica” affermò Kubrick. Per realizzare quelle scene, il regista inviò Bob Gaffney Sr., altro suo collaboratore in 2001, nell’Europa continentale alla ricerca di un autentico esercito. Ne trovò due. Stipulò, infatti, accordi sia con la Jugolasvia di Tito sia con la Romania di Ceausescu per l’utilizzo di oltre sessantamila comparse provenienti dagli eserciti di entrambe le nazioni. Per le comparse jugoslave era previsto il pagamento di 5 dollari giornalieri a uomo, mentre i romeni ne richiedevano solamente due. Nel suo viaggio Gaffney scoprì anche che il produttore italiano Dino De Laurentis stava preparando la produzione del kolossal Waterloo con John Huston alla regista e Peter O’Toole nel ruolo del protagonista. Ma qualunque film potessero fare, lui l’avrebbe fatto meglio.

Parallelamente Kubrick incaricò Birkin delle ricerche per il suo Napoleon. “Voglio che tu vada dovunque sia andato Napoleone” fu l’ordine del regista, poco importava se le ricerche si svolsero anche nella Parigi attraversata dal maggio del 1968. L’allora Ministro francese della cultura, lo scrittore André Malraux, inviò una lettera che autorizzava Birkin e le due troupe che lo avevano accompagnato, ad entrare in qualsiasi monumento nazionale. Alla fine del 1968 per Birkin si aprirono le porte dell’Hôtel des Invalides che, oltre alla monumentale tomba, contiene i tesori più intimi del primo Imperatore dei francesi, inclusi il suo anello e la sedia da campo.

2. Waterloo (1970) di Sergej Fëdorovič Bondarčuk

Nel luglio del 1968 la MGM e Kubrick annunciarono il nuovo progetto, ma la “major” si stava lacerando in scontri dirigenziali e affari disastrosi. A fine anno il regista, vista l’impossibilità di trovare finanziamenti adeguati per il suo film, licenziò tutti i ricercatori e accantonò il film. Continuò, tuttavia, a coltivare quel sogno anche perché, lui sapeva cosa stava facendo De Laurentis. Waterloo, che aveva cambiato regista (Sergej Bondarchuk) e protagonista (Rod Steiger), copriva solo “i cento” giorni” compresi fra la fuga di Napoleone dall’Isola d’Elba e la sua sconfitta ad opera di Wellington. Kubrick puntava a raccontare la vita intera.

Per la parte di Napoleone, Kubrick, dopo aver pensato a Marlon Brando e ai britannici David Hemmings (Blow-Up, Profondo Rosso) e Ian Holm (Momenti di gloria, Il Signore degli Anelli), scelse un giovane attore americano che aveva interpretato l’avvocato progressista e ubriacone in Easy Rider. L’attore all’anagrafe risultava chiamarsi John Joseph, ma per tutti era “Jack”, Jack Nicholson (Neptune City, 22 aprile 1937). A Nicholson l’idea piacque, ma prima che Kubrick sviluppasse la sceneggiatura, il mondo del cinema si interessò improvvisamente a Napoleone. In pochi anni vennero realizzati The Adventures of Gerard (Le avventure di Gerard, 1970) di Jerzy Skolimowski e Eagle in a Cage (1971) di Fielder Cook che, insieme al già citato Waterloo (1970), furono insuccessi commerciale e fecero calare le possibilità per Kubrick di farsi finanziare il progetto.

3. Jack Nicholson, scelto da Kubrick per il ruolo di Napoleone

Tutti i materiali racconti, libri, materiali di scena, piani di battaglia, schizzi sugli esterni e gli interni, abiti di scena, cinquemila illustrazioni venivano accumulati a Borehamwood, sede britannica della MGM dove, tra l’altro era stato girato 2001: Odissea nello spazio.

Verso la fine del 1969, Kubrick si concentrò così su progetti più “realizzabili” capaci, tuttavia, di dimostrare di essere tenere il passo con la cosiddetta “New Hollywood”. Il cineasta chiamò Terry Southern per chiedergli di un libro. Durante la lavorazione de Il dottor Stranamore, infatti, Southern era rimasto impressionato da un romanzo di Anthony Burgess ispirato da una storia vera.

Burgess ai tempi dell’università aveva conosciuto la giovane Llewela “Lynne” Isherwood Jones. I due si erano innamorati e sposati il 22 gennaio del 1942. A quel tempo Anthony era arruolato nella British Armed Forces e combatteva sul fronte orientale, mentre Llewela viveva a Londra. Nel 1944 la ragazza, durante un black out bellico (una pratica attuata durante la guerra per rendere meno visibili gli obiettivi dei nemici), venne picchiata, derubata e violentata da quattro disertori americani. A causa di quella violenza Llewela perse il figlio che stava aspettando. Anthony in quei mesi era in servizio a Gibilterra e gli fu perfino negato il permesso di visitare la moglie. Un episodio che segnò violentemente la vita della coppia.

Burgess negli anni seguenti divenne insegnante, musicista e scrittore, ponendo al centro delle sue opere l’individuo minacciato dalla violenza, limitato nella libertà dai condizionamenti ideologici, oppresso dalla macchina dello Stato. Tematiche che espresse in modo esemplare quando, nel 1962, ispirandosi a quel “crudele e inconsulto atto” vissuto, diede alle stampe un romanzo destinato a divenire non solo una pietra miliare della letteratura del ‘900, ma anche della storia del cinema: “A Clockwork Orange”, noto come “Un’arancia a orologeria” nella prima traduzione italiana e poi definitivamente “Arancia meccanica”. Il curioso titolo venne spiegato dallo stesso scrittore, “sballato come un’arancia a orologeria” era, infatti, un’espressione dello slang Cockney (parlata fortemente dialettale dei quartieri popolari londinesi) che Burgess aveva sentito dire in un pub londinese, prima della Seconda guerra mondiale.

4. Anthony Burgess

Ambientato in Inghilterra in un futuro prossimo, il romanzo descrive una Londra in preda a piccole bande di adolescenti che vagano per le sue squallide e fatiscenti periferie, derubando, uccidendo e violentando impunemente, caricati dal “latte più” (latte e droga). Una di queste bande, quella dei “”Droogs” (“Drughi” nella versione italiana), è capeggiata da Alex, un quindicenne più intelligente e colto dei suoi coetanei, che ama la musica classica, soprattutto Beethoven. Dopo svariati crimini, tra cui il pestaggio e lo stupro della moglie di uno scrittore, Alex viene catturato e condannato a 14 anni di reclusione. Sarà allora che, attraverso la “cura Ludovico” (una terapia sperimentale che induce il soggetto a provare disgusto per la violenza), il giovane teppista sarà “normalizzato” dal potere, neutralizzato e privato del suo libero arbitrio. La prima edizione inglese (la stessa tradotta in italiano) si chiudeva con un seguito più rassicurante e moralista, in cui Alex ormai innocuo, rientra totalmente nei canoni borghesi, arrivando anche a mettere su famiglia.

Per “A Clockwork Orange”, Burgess creò uno straordinario linguaggio a parte, il nadsat, mix di neologismi, inglese cockney, russo, espressioni forbite e linguaggio infantile. La cui ricchezza, incredibilmente conservata nella traduzione italiana che arrivò in libreria nel 1969 per Einaudi, non piacque a Kubrick. Secondo il regista, nessuno avrebbe capito il termine “groodies” per indicare i seni, o “rockers” (ruka) per mani e braccia, o ancora “noga” per piedi e gambe fino ad arrivare alla più grande espressione di entusiasmo “Horrorshow”, cui deve molto The Rocky Horror Picture Show. Nonostante questo iniziale scetticismo Southern opzionò i diritti per sei mesi e iniziò a scrivere autonomamente una sceneggiatura insieme al fotografo Michael Cooper. Tuttavia questo tentativo non andò in porto per il timore che la censura incuteva nei produttori. Fu così che il primo a ispirarsi, molto liberamente, al romanzo di Burgess fu Andy Warhol che nel 1965 realizzò Vinyl in cui Alex diventa il teppista Victor (Gerard Malanga) in una versione sperimentale e in pillole dell'”Arancia a orologeria”.

5. Vinyl (1965) di Andy Warhol, il primo film tratto da Arancia meccanica

Nel frattempo i diritti dell’opera erano passati all’avvocato di Southern, Si Litvinoff, che, dopo aver prodotto alcune commedie off-Broadway, voleva trasformare il romanzo in un veicolo pubblicitario per i Rolling Stones con Mick Jagger, estimatore del libro, nella parte di Alex. Ma gli “Stones” non avevano bisogno di pubblicità e il progetto cadde.

Kubrick, che aveva abbondantemente giocato con la lingua ne Il dottor Stranamore, cambiò idea, ricontattò Southern e, visto che Litvinoff non aveva accantonato l’idea di realizzare un film da “A Clockwork Orange”, ottenne i diritti del libro a caro presso: 200.000 dollari più il 5% dei profitti.

Finito il rapporto con la MGM, che tra l’altro aveva deciso di non finanziare più alcun film, Kubrick dovette trovare nuovi produttori. Dopo aver tentato con la neonata American Zoetrope fondata da Francis Ford Coppola e George Lucas (uno dei primi film prodotti dalla società fu Apocalypse Now), il regista si rivolse alla Seven Arts, già in prima linea per Lolita, che nel frattempo era stata assorbita dalla Warner Brothers. La “nuova Warner”, che stava investendo in progetti per attrarre un pubblico giovane (su tutti American Graffiti di Goerge Lucas) stipulò un contratto di tre film con Kubrick e decise di finanziare la pellicola con soli due milioni di dollari (2001: Odissea nello spazio ebbe un budget di 12 milioni) per paura di divieti e censure. Un film a basso costo.

Kubrick fu costretto così a risparmiare su tutto. Non potendosi permettere la sceneggiatura già preparata da Southern, la scrisse di suo pugno, aiutato da un restio Burgess, restando molto fedele al testo e mantenendo lo stesso titolo. Cambiò solo l’età del protagonista, quell’Alex, “A-lex” senza legge e senza lessico, logorroico e violento. Il regista, come era accaduto anni prima per Lolita, fu costretto a cambiare l’età del protagonista, a renderlo adulto. “Non sono riuscito a trovare un attore di sedici anni in grado di recitare la parte”, disse Kubrick, e fu così scelto il “semidebuttante” Malcolm McDowell, nome d’arte di Malcolm John Taylor (Leeds, 13 giugno 1943) notato da Kubrick per la sua interpretazione in If… (Se…, 1968) di Lindsay Anderson, con più di un debito nei confronti di Jean Vigo.

6. Malcolm Mcdowell in Se… (1968) di Lindsay Anderson

Gli altri personaggi furono tutti affidati ad attori britannici. Patrick Magee (Armagh, 31 marzo 1922 – Londra, 14 agosto 1982), attore prevalentemente teatrale noto per le collaborazioni con Samuel Beckett e Harold Pinter, interpretò lo scrittore Frank Alexander; Michael Bates (Jhansi, 4 dicembre 1920 – Cambridge, 11 gennaio 1978), l’anno prima interprete di Patton, prestò il volto al capo guardia della prigione; Anthony Sharp (Londra, 16 giugno 1915 – Londra, 23 luglio 1984) impersonò il Ministro dell’Interno. Philip Stone (Leeds, 14 aprile 1924 – Londra, 15 giugno 2003) divenne il padre di Alex, mentre Godfrey Quigley (Gerusalemme, 4 maggio 1923 – Dublino, 7 settembre 1994) il cappellano del carcere. E poi i “Drughi”: Warren Clarke (Oldham, 26 aprile 1947 – Londra, 12 novembre 2014), James Marcus (Romford, 23 giugno 1942), Michael Tarn (17 dicembre 1953) che non recitò nella scena dello stupro poiché all’epoca ancora minorenne.

Infine, per la parte di Julian, l’istruttore di body building che aiuta l’ormai storpio Frank Alexander, Kubrick scelse David Prowse, un energumeno di oltre due metri che aveva conosciuto da Harrods mentre faceva dimostrazioni di attrezzi sportivi. A Clockwork Orange lanciò così, un po’ per caso, una futura star. Irriconoscibile con maschera e mantello e doppiato da James Earl Jones (che aveva recitato in Stranamore), David Prowse divenne il Darth Vader (Dart Fener) di Star Wars. Kubrick, seppur indirettamente, contribuì così a creare uno dei più grandi “cattivi” della storia del cinema.

I ruoli femminili, ad esclusione della madre interpretata da Sheila Raynor (Londra, 15 marzo 1906 – Suffolk, 17 febbraio 1998) e di Miss Weathers, la signora dei gatti che ebbe il volto di Miriam Karlin (Londra, 23 giugno 1925 – Londra, 3 giugno 2011), servivano per alimentare le fantasie di Alex. Kubrick era attratto dai seni e si fece mandare centinaia di “foto di tette” per scegliere con McDowell le più “adatte”. Adrienne Corri, che aveva debuttato con Jean Renoir per poi lavorare con David Lean e Vittorio De Sica, inizialmente rifiutò, ma poi divenne la signora Alexander che subisce lo stupro. Scelte grazie ai seni la ragazza denudata dalla banda guidata da Billyboy, l’infermiera, le due ragazze che Alex incontra nel negozio di dischi e Katya Wyeth (1 gennaio 1948), apparsa nella serie televisiva Monty Python’s Flying Circus, che interpretò la scena che chiuse il film.

7. Adrienne Corri, diretta da Jean Renoir

Non meno importante fu la scelta della musica dalla “Nona” di Beethoven al “Guglielmo Tell” di Rossini, riarrangiate elettronicamente da Walter Carlos, per commentare ironicamente le immagini violente del film. Decisive anche altre note. Kubrick, con una “sceneggiatura in divenire”, lavorava improvvisando, cercando di cogliere il meglio dagli attori. La scena dello stupro, la più cruda del film, costò diversi giorni di lavoro. Il regista fece cambiare arredamento, modificò le posizioni degli attori, ma non era ancora soddisfatto. Poi chiese a McDowell se sapesse cantare. “Solo una canzone” rispose l’attore e iniziò a cantare “Singing in the Rain”.

La canzone era stata scritta per il film The Hollywood Revue of 1929 (Hollywood che canta) di Charles Reisner in cui le star della MGM “festeggiavano” l’arrivo del “sonoro”. Nel film anche il grande Buster Keaton, ma fu un tenore a cantarla accompagnato da “Ukulele Ike” Edwards (poi voce del grillo parlante in Pinocchio). Dopo di allora “Singing in the Rain” venne utilizzata in altri film, ma fu Gene Kelly a portarla al successo nell’omonimo musical diretto da Stanely Donen noto in Italia come Cantando sotto la pioggia. Kubrick si attivò subito per avere i diritti. Stanely Donen, che si trovava a Londra, non fece alcuna obiezione.

Visti lo scarso budget, Kubrick e lo scenografo John Barry (Londra, 3 luglio 1935 – Londra, 1 giugno 1979), che poi vinse l’Oscar Star Wars, sfogliarono centinaia di cataloghi per definire uno stile architettonico futuribile e trovano quegli squallidi paesaggi di cemento armato, fatti di sottopassaggi e periferie degradata, nella Londra reale. Furono solo quattro che scenografie realizzate: il Korova Milk Bar dove il film ha inizio, la sala d’accesso della prigione, l’ingresso e il bagno della casa degli Alexander.

Ma il film fu anche un’antologia della moda pop di quegli anni. Come non ricordare l’arredamento del Korova Milk Bar formato da statue di donne nude realizzate da Liz Jones, ma ispirate all’opera “Hatstand, Table and Chair” (“Appendiabiti, tavolo e sedia”) dell’artista pop Allen Jones, che rifiutò a Kubrick una collaborazione diretta. O ancora i quattro cristi che “ballano” e il “Rocking Machine”, il fallo gigante che Alex usa per uccidere la signora dei gatti, opera dei fratelli olandesi Herman e Cornelius Makkink.

8. Herman Makkink, con la sua opera più celebre

Un’ultima menzione la meritano i costumi curati dall’italiana Milena Canonero, poi vincitrice di quattro premi Oscar, che raggiunsero vette inarrivabili di grottesco. Da bombetta, anfibi e completo bianco per i “Drughi” agli abiti luccicanti della madre di Alex passando per l’abito dello stupro per il quale ne vennero realizzati a decine, uno nuovo per ogni ciak.

Le riprese si svolsero nell’inverno tra il 1970 e il 1971. Poco dopo, nell’aprile dello stesso anno, ben prima cioè dell’uscita sugli schermi di A Clockwork Orange, un produttore della Warner, John Calley, annunciò a sorpresa che il successivo lavoro di Kubrick sarebbe stato tratto dal libro “Traumnovelle”, conosciuto in inglese col titolo “Rhapsody: A Dream Novel” e in Italia come “Doppio sogno” (uscito per Adelphi). Scritto da Arthur Schnitzler, un medico viennese che dedicò romanzi, racconti, commedie all’esplorazione del mondo viennese tra Ottocento e Nocevento, il libro raccontava la storia del dottor Fridolin e della moglie Albertine, tipica famiglia borghese, attraversati da un’ombra di avventura, di libertà e di pericolo fino a quel momento sconosciuta. Una visione decadente, quella di Schnitzler, che affascinava Kubrick fin dal 1950 quando vide La Ronde di Max Ophuls, film tratto dallo stesso autore. Ma il progetto “Rhapsody” fu abbandonato, le energie di Kubrick erano tutte per Napoleon e A Clockwork Orange.

I rapporti lavorativi tra Kubrick e Burgess furono tutt’altro che semplici e la fase di post produzione accentuò il divario. Lo scrittore non voleva che il suo romanzo fosse ricordato solo per un film a base di sesso e violenza, mentre il regista, come sempre, voleva fare di testa sua. I due, tuttavia, avevano un bel rapporto personale e una passione comune, quella per Napoleone. Se il film di Kubrick giaceva ancora in un cassetto, Burgess stava scrivendo il romanzo “Napoleon Symphony” con la speranza che l’amico regista l’avrebbe usato come base per il suo film.

9. Arancia meccanica (1971)

Nel frattempo la Warner decise di far uscire A Clockwork Orange (Arancia meccanica) a New York appena prima del Natale 1971. L’Inghilterra in un futuro prossimo. Alex De Large (Malcolm McDowell) e i suoi tre “Droogs” (“Drughi”) ovvero Dim (Warren Clarke), Pete (Michael Tarn) e Georgie (James Marcus), affrontano prima un barbone (Paul Farrell), poi i membri della banda rivale di Billy Boy (Richard Connaught), quindi invadono la casa isolata dello scrittore Frank Alexander (Patrick Magee) e violentano la moglie (Adrienne Corri) al ritmo di “Singing in the Rain”. Tornato a casa, Alex si rilassa con la “Nona” di Beethoven. Il giorno seguente mentre i suoi genitori (Philip Stone e Sheila Raynor) vanno al lavoro, riceve prima la visita dell’assistente sociale Deltoid (Aubrey Morris), poi incontra due ragazze in un negozio di dischi (notevole nello scaffale il disco con la colonna sonora di 2001: Odissea nello spazio) e con esse si butta, sulle note del Gugliemo Tell di Rossini, in un’orgia frenetica. Dopo aver riaffermato la sua supremazia sulla banda (ripreso dal basso come lo “scimmione” di 2001), Alex invade la casa di Miss Weathers, la signora dei gatti (Miriam Karlin) che riesce ad avvertire la polizia prima che lui la uccida. Picchiato e abbandonato dai suoi ex compagni, Alex viene arrestato e condannato a quattordici anni di prigione, ma dopo due anni accetta una terapia, la “cura Ludovico”, introdotta dal Governo nella lotta contro la criminalità. Subisce la “cura”, in cui, con gli occhi spalancati (McDowell si graffiò una retina) e aiutato da un dottore (vero), Alex è costretto a vedere immagini sempre più violente fino a quelle della Germania nazista, accompagnate dalle note dell’amato Beethoven. Ormai incapace di qualunque violenza, fisica e sessuale, e di resistere alle note della “Nona”, dopo un’umiliante prova in carcere (il povero McDowell si ruppe una costola), Alex viene liberato. Tornato a casa scopre che la sua camera è stata affittata ad uno giovane (Clive Francis). Lasciato dai genitori, è aggredito prima dal vecchio barbone, poi dagli ex amici “Drughi” divenuti poliziotti (ancora una volta McDowell non se la passò bene e rischiò di morire annegato!!!). Il giovane trova rifugio in una casa sperduta. È quella del signor Alexander che, divenuto vedovo, è aiutato in casa da un ragazzone palestrato di nome Julian (David Prowse). Lo scrittore, ormai anche attivista politico, non riconosce il giovane fino a quando Alex non fischietta nella vasca da bagno “Singing in the Rain”. Per vendicarsi e per mettere in difficoltà il Governo, l’uomo spinge Alex al suicidio. Benché malconcio il giovane sopravvive, viene curato in ospedale e diventa un caso nazionale poiché la “cura Ludovico” è considerata la vera responsabile del tentato suicidio. Per recuperare la sua immagine, il ministro dell’Interno (Anthony Sharp) lo va a trovare in ospedale, lo imbocca, gli offre un lavoro in cui la sua aggressività può essere funzionale al sistema e, per la gioia dei fotografi, gli stringe la mano. Alex è “guarito” ed è tornato quello di prima. Il giovane riesce finalmente a riascoltare la gloriosa “Nona” mentre immagina di fare sesso con una giovane donna (Katya Wyeth) in mezzo a borghesi in abiti vittoriani. L'”Inno alla gioia” lascia il posto a “Singing in the Rain” cantata da Gene Kelly che accompagna i titoli di coda.

10. la “cura Ludovico”

Un nuovo capolavoro per Kubrick che anticipò la disumanizzazione della civiltà contemporanea. Un’opera antiutopica “sul nostro futuro prossimo, dove dominano violenza e frustrazione sessuale frutti del disorientamento e dell’impossibilità di realizzare i propri desideri” (Mereghetti). Al centro della pellicola, e del romanzo, il tema della libertà di scelta mostrato senza filtri e senza falsi moralismi. Le scene di violenza, brutali e a tratti insopportabili, sono necessarie e non gratuite. Burgess volle sottolineare “Che è meglio essere malvagi per propria scelta che essere buoni grazie a un lavaggio scientifico del cervello” a questo Kubrick aggiunse una riflessione sul potere: “Uno dei problemi sociali più difficili da risolvere oggigiorno è in quale modo chi detiene l’autorità possa mantenerla senza diventare repressivo”.

Negli Stati Uniti Arancia meccanica, venne vietato ai minori, ma non suscitò troppe polemiche. I veri problemi iniziarono quando il film arrivò in Gran Bretagna. Poco prima aveva debuttato Straw Dogs (Cane di paglia) di Sam Peckinpah con Dustin Hoffman come protagonista, dove la violenza ambientata nella campagna inglese fece scatenare l’opinione pubblica conservatrice inglese, sempre pronta ad attaccare il liberalismo della “New Hollywood”. Tredici critici lamentarono dalle pagine del “Times” la crescente presenza di sesso e violenza sugli schermi britannici. In quel clima, il 13 gennaio del 1972, la Warner distribuì Arancia Meccanica. Fu uno shock.

Il film divenne oggetto di dibattito politico. Il deputato laburista Maurice Edelman scrisse: “Le arance meccaniche sono bombe ad orologeria […] quando A Clockwork Orange verrà distribuito in tutte le sale porterà ad un culto meccanico che esalterà la violenza adolescenziale”. Gli fece eco il segretario dei conservatori, Reginald Maudling, che chiese di visionarlo, benché il film avesse già ottenuto il visto della censura, e di tagliarlo.

11. la scena dello stupro, la più cruda di tutto il film

Alla fine Arancia meccanica venne distribuito senza tagli e ottenne un ottimo incasso di 15,4 milioni di dollari per la Warner (poi divenuti 26) che, probabilmente con Kubrick, si godeva tutta quella pubblicità gratuita. Ad affrontare TV e giornali per difendere l’opera, intanto, erano Malcolm McDowell, Adrienne Corri e Anthony Burgess.

Ma l’offensiva contro Arancia meccanica non era terminata. Vennero segnalati centinaia di aggressioni e stupri che parevano ispirarsi alle azioni di Alex, con tanto di “Singing in the Rain”. Ovviamente il collegamento non esisteva, fu infatti provato che nessuno degli aggressori avesse visto il film. Ma il caso divenne sempre più ingestibile e portò Kubrick a ritirare il film prima, nel gennaio del 1972, dalle sale cinematografiche della Florida, poi progressivamente nelle altre sale in giro per il pianeta. Ma ancora oggi, a distanza di oltre quaranta anni, ogni delitto efferato, ogni stupro di gruppo viene definito “degno” di Arancia meccanica.

Nel marzo del 1972 il film ottenne quattro nomination all’Oscar (Miglior film, Migliore regia, Migliore sceneggiatura non originale, Miglior montaggio), ma quando l’Academy contattò le “stelle” per la consegna dei premi, molte rifiutarono di partecipare alla cerimonia, inclusa Barbra Streisand, per paura di dover omaggiare un film così “malfamato”. A Clockwork Orange non vinse alcun Oscar.

In Italia Arancia meccanica uscì il 7 settembre del 1972 con il divieto per i minori di diciotto anni. Umberto Eco vide la pellicola come un elogio della destra “una sorta di affermazione nixoniana della necessità della violenza al fine di mantenere l’ordine sociale”. Diversa lettura per Alberto Moravia sulle pagine de L’Espresso: “Alex è un povero ragazzo traviato e fa più compassione delle sue vittime”. Più generalmente Kubrick venne definito anarchico per il suo attacco sia alla destra sia alla sinistra.

12. “Blue movie” il romanzo erotico di Terry Southern

Dopo il tormentato successo di Arancia meccanica, al regista vennero proposti nuovi soggetti. Nel 1970 era uscito il romanzo erotico “Blue Movie” che l’amico Terry Southern aveva dedicato “Al grande Stanley K”. Un romanzo sul tentativo di un regista affermato di realizzare il primo film porno di Hollywood, con scene interpretate da una vera star. Lo scrittore sperava che fosse Kubrick a portare sul grande schermo il film, ma l’autore di 2001 rifiutò e non certo perché privo di immaginazione sessuale. Southern scrisse comunque la sceneggiatura che rimase nel cassetto fino al 1974 quando John Calley e la Warner decisero di produrlo con un budget di 14 milioni di dollari. Calley viveva all’epoca con l’attrice Julie Andrews (che aveva debuttato con Mary Poppins) e la convinse “per amore, per l’arte e per un mucchio di soldi” disse Southern, ad interpretare il ruolo dell’attrice che diventa una pornostar. Mike Nichols, grande estimatore di Deep Throat (La vera gola profonda) primo film hard legale della storia, accettò di dirigerlo. I diritti di “Blue Movie” erano, tuttavia, nelle mani di un vecchio amico di Southern, il batterista dei Beatles, Ringo Starr. Il musicista era pronto a cederli, ma il suo avvocato, voleva una percentuale sui profitti e l’accordo saltò. “Blue Movie” venne successivamente offerto a David Lean che, dopo un iniziale interesse, rifiutò. Nel 1981 Blake Edwards, che aveva sposato Julie Andrews, utilizzò alcuni spunti per il suo S.O.B. (Son of Bitch), in cui un regista decide di trasformare il suo ultimo fiasco in un porno-musical. La Andrews comparve provocatoriamente a seno nudo.

Grazie ad Arancia meccanica Kubrick non venne più semplicemente visto come un affermato regista di mezza età, ma come un cineasta in grado di “rivaleggiare” con i talenti emergenti della “New Hollywood”. Nel 1973 gli venne proposto di portare sul grande schermo un romanzo sulla possessione diabolica tratto da un libro di William Peter Blatty, “The Exorcist” ovviamente “L’esorcista”. Kubrick declinò l’invito dichiarando che avrebbe realizzato un film horror autonomamente. Rifiutarono anche Arthur Penn e Mike Nichols. Alla fine fu William Friedkin a dirigere L’esorcista, il regista che l’anno prima aveva strappato a Kubrick l’Oscar come Miglior regista per il film The French Connection (Il braccio violento della legge).

13. Albert Speer e Adolf Hitler

Un progetto più intrigante venne presentato a Kubrick dalla Goodtimes, una società di produzione cinematografica britannica, diretta da David Puttnam e Sanford Lieberson. Nel 1971 Puttnam aveva iniziato ad occuparsi della vita di Albert Speer, l’architetto di Hitler, dopo aver letto una sua intervista su “Playboy”. Sebbene responsabile di aver ridotto in schiavitù migliaia di lavoratori, negò di essere stato a conoscenza dello sterminio sistematico di ebrei, omosessuali, zingari, oppositori politici. Venne comunque condannato a venti anni di prigione al processo di Norimberga e, una volta uscito, pubblicò “Inside the Third Reich: The Secret Diaries” (“Dentro il Terzo Reich: i diari segreti”). La Goodtimes acquisì i diritti cinematografici e Andrew Birkin venne ingaggiato per scrivere la sceneggiatura. Birkin descrisse Speer come un ragazzo buono, ma debole che veniva distrutto perché non riusciva ad opporsi alla forza della Storia. Un progetto dalle forti ambiguità morali che interessò, tuttavia, la Paramount. Birkin, che aveva lavorato con lui in 2001: Odissea nello spazio e per le ricerche su Napoleone, suggerì come regista Kubrick, ben conoscendo il fascino che quel periodo storico esercitava sul regista. Stanley era interessato, ma rifiutò: “Sono ebreo non posso essere coinvolto in questo progetto”.

Le attenzioni di Kubrick, tuttavia, rimanevano concentrate sul Napoleon che, nel 1974, non aveva visto progressi. Anthony Burgess, stanco di aspettare, aveva pubblicato il suo “Napoleon Symphony” dedicato alla moglie e a Kubrick “maestro di color”.

14. William Makepeace Thackeray

Il regista cominciò così a cercare autonomamente un film da offrire alla Warner in cui poter sfruttare le minuziose ricerche napoleoniche. Dopo “Guerra e pace” di Lev Tolstoj, il romanzo ambientato in quel periodo che vantava più adattamenti cinematografici era “Vanity Fair: A novel without a Hero” (“La fiera della vanità”) di William Makepeace Thackeray che, oltre a dare nel 1983 il titolo all’omonimo periodico di costume, era stato portato sullo schermo ben sei volte, la prima nel 1911 l’ultima, col titolo di Becky Sharp nel 1935 (e lo sarà ancora nel 2004), per cui Kubrick lo scartò per poi imbattersi, disse per caso, in un altro romanzo di Thackeray, “The Luck of Barry Lyndon” (“Le memorie di Barry Lyndon”) edito nel 1844, ma talmente sconosciuto da risultare invisibile. Il testo narrava di un giovane che vive di espedienti nella Londra di inizio Ottocento, si sposa per soldi, rifiuta suo figlio, perde sua moglie e, dopo non aver fatto altro che rovinare la vita a quelli che gli erano attorno, è più triste, ma non più saggio.

Il regista rimase affascinato poiché il libro conteneva l’elemento centrale di molti suoi film. Come Johnny Clay in Rapina a mano armata, Dax in Orizzonti di gloria, Spartacus nel film omonimo, Humbert in Lolita, Alex in Arancia meccanica, anche Barry Lyndon era un uomo che combatteva a suo modo contro un ordine sociale sociale precostituito.

Il romanzo di Thackeray era fuori dai diritti e chiunque avrebbe potuto portarlo sullo schermo “bruciando” Kubrick. Il regista scrisse così una semplice sceneggiatura di 243 pagine, in cui eliminò alcune parti satiriche del libro e quelle che riteneva come troppo forzate (dal corteggiamento al finale). Inviò quindi copia alla Warner, ma solo dopo aver cancellato ogni traccia relativa all’ambientazione, al periodo e alla fonte della storia.

15. Ryan O’Neal in Love Story (1970) di Arthur Hiller

La prima scelta per la parte di Barry Lyndon fu Robert Redford che si trovava in Inghilterra per le riprese di The Great Gatsby (Il grande Gatsby, 1974) diretto da Jack Clayton, ma dopo un iniziale accordo con il regista, l’attore rifiutò. La Warner e Kubrick fecero così un rapido esame delle stelle a disposizione e annunciarono l’uscita di un film con Ryan O’Neal, all’anagrafe Charles Patrick Ryan O’Neal (Los Angeles, 20 aprile 1941) e Marisa Berenson, nome d’arte di Vittoria Marisa Schiaparelli Berenson (New York, 15 febbraio 1947). Titolo e argomento del film rimanevano un mistero.

O’Neal aveva raggiunto la notorietà nel 1970 nel ruolo di Ali MacGraw, lo sfortunato eroe di Love Story diretto da Arthur Hiller (celebre anche la canzone “Where Do I Begin?” scritta dal francese Francis Lai, recentemente scomparso). Da allora la carriere dell’attore era proseguita con alcune commedie demenziali, su tutte What’s Up, Doc? (Ma papà ti manda sola?, 1972) e Paper Moon (1973) entrambe dirette da Peter Bogdanovich. Non certo capolavori, ma Ryan O’Neal era all’epoca il secondo attore al mondo per gli incassi al botteghino, dietro solo a Clint Eastwood. Il compenso venne fissato in 800000 dollari.

Marisa Berenson, sorella maggiore dell’attrice Berry Berenson morta negli attentati dell’11 settembre, discendeva da parte di padre dallo storico d’arte Bernard Berenson e da parte di madre dalla stilista d’alta moda Elsa Schiapparelli. La Berenson aveva recitato in Morte a Venezia (1971) di Luchino Visconti e in Cabaret (1972) di Bob Fosse. Kubrick in lei vide la melanconia altezzosa che affiorava dai ritratti degli inglesi benestanti del XVIII secolo.

16. Marisa Berenson in Cabaret (1972) di Bob Fosse

Per il resto del cast, il regista, sempre meno a suo agio con i “provini”, si affidò per quanto possibile alle persone con cui aveva già lavorato. Vennero pertanto scritturati Patrick Magee, Philip Stone, Godfrey Quigley e Steven Berkoff (Londra, 3 agosto 1937) che avevano già recitato in Arancia meccanica e Leonard Rossiter (Liverpool, 21 ottobre 1926 – Londra, 5 ottobre 1984) già apparso in 2001: Odissea nello spazio. Altri attori furono scelti per procura, tramite video registrati. Caratteristi come Hardy Krüger (Berlino, 12 aprile 1928), Murray Melvin (Londra, 10 agosto 1932) e Leon Vitali, pseudonimo di Alfred Leon (Leamington Spa, 25 luglio 1948) che entrò a far parte dell’entourage di Kubrick.

Con la solita attenzione al dettaglio, Kubrick volle ricreare l’età dei lumi e per questo, dopo aver ingaggiato Wilfrid Shington, si rivolse a Ken Adam già geniale scenografo ne Il dottor Stranamore. Adam era riluttante, ben conosceva i modi maniacali del regista, ma alla fine accettò. Si mise subito al lavoro, ma i due si scontrarono poco dopo. Lo scenografo cercava uno studio dove poter ricostruire gli ambienti del film, Kubrick voleva girare tutto in vere abitazioni del XVIII secolo e per questo aveva sguinzagliato i suoi collaboratori a Londra alla ricerca delle giuste location. Non solo. Voleva girare gli interni a lume di candela.

Kubrick, che aveva già effettuato delle ricerche per Napoleon, cercò disperatamente delle lenti che facessero entrare più luce nella macchina da presa. Impiegò tre mesi, ma le trovò. Erano delle Zeiss da 50 mm progettate dalla NASA per le riprese sulla luna. Il regista, grazie all’ingegnere californiano Ed Di Giulio, le adattò alla cinepresa. Si arrese, invece, all’idea di poter trovare degli edifici autentici del XVIII secolo a Londra e dintorni e fu costretto a girare il film in Irlanda.

17. la repressione del tristemente celebre “Bloody Sunday”

Il biennio 1973-1974 fu il più gelido, per usare un eufemismo, nei rapporti fra Gran Bretagna e Irlanda. Oltre alle crisi politiche, dopo il tristemente celebre Bloody Sunday, avvenuto nel gennaio del 1972 (magnificamente cantato dagli U2 in “Sunday Bloody Sunday”), l’esercito repubblicano irlandese (IRA) aveva intrapreso una campagna di terrore permanente in Gran Bretagna. Fu in quei mesi che Kubrick, statunitense di nascita, ma britannico d’adozione, ricevette la visita di uno sconosciuto a casa. Non si saprà mai chi fosse quell’uomo, ma la produzione il giorno dopo partì per l’Irlanda, protetta da alcuni membri dell’esercito irlandese agli ordini del colonnello in pensione Bill O’Kelly.

Il 17 settembre del 1973 iniziarono le riprese di Barry Lyndon. I modi maniacali del regista, i ripetuti ciak e la costante pioggia, misero a dura prova l’intero cast. Non solo. Il sindacato degli elettricisti irlandesi, protagonista di scioperi incisivi tra il 1962 e il 1964, aveva ottenuto, tra le altre cose, che per ogni produzione cinematografica straniera in terra irlandese, dovevano essere assunti un certo numero di elettricisti. Minacciò di bloccare la produzione, per cui Kubrick, che sceglieva personalmente i suoi collaboratori, risolse a suo modo la questione. Assunse una dozzina di fieri elettricisti irlandesi e li mandò “a bere il tè” fino alla fine delle riprese.

18. Stanley Kubrick e Ryan O’Neil sul set di Barry Lyndon

Ma il clima durante le riprese si faceva sempre più pesante, aumentando l’immagine di un Kubrick tiranno. Con l’avvicinarsi del Natale il regista, capita la situazione, concesse delle ferie non pagate all’intera troupe. Tutti le accolsero con gioia. Le riprese ricominciarono con l’anno nuovo, ma vennero subito bloccate: secondo i servizi segreti, Kubrick era un potenziale bersaglio dell’IRA. Se la prima minaccia, quella in Inghilterra, pare non fosse legata all’esercito repubblicano irlandese, la seconda lo era di certo. Secondo alcuni il motivo era la rappresentazione, nella prima parte del film, dell’esercito inglese in marcia, girate a County Kilkenny, località storicamente legata al repubblicanesimo radicale.

Per Kubrick, invece, quelle minacce erano legate ad Arancia meccanica. Per questo il regista, insieme alla Warner, decise ad inizio del 1974 di ritirare il “film maledetto” dalla distribuzione in Gran Bretagna e progressivamente negli altri paesi. Divieto che rimase fino alla morte di Kubrick, impedendone anche la messa in onda televisiva, finché la Warner vinse un ricorso che “sbloccò” il film abbassando il divieto ai 14 anni. In Italia a rompere il tabù fu l’allora Tele+ nel 1999 e poi si dovette aspettare il 2007 per vederlo su una TV in chiaro, La 7.

Le riprese di Barry Lyndon, terminate a Londra, durarono 300 giorni in due anni, con un budget che salì fino a 11 milioni. Nel lavoro di post produzione venne aggiunta la colonna sonora. La musica, da Stranamore, aveva assunto un ruolo centrale nei film di Kubrick. I brani acuti, con piffero e percussioni, che caratterizzano la prima metà della pellicola, vennero suonati dal gruppo folk irlandese The Chieftains. Il regista scelse, inoltre, brani rimasterizzati di Bach, Mozart, Schubert, Vivaldi e la “Sarabanda dalla Suite n. 4 in re minore” di Georg Friedrich Händel, tema centrale della pellicola. Il film fu il primo prodotto dal cognato del regista Jan Harlan (Karlsruhe, 5 maggio 1937), che produrrà anche i successivi. Il 18 dicembre del 1975 si tenne la prima di Barry Lyndon.

19. Barry Lyndon (1975)

Una voce fuori campo (Michael Hordern nell’originale, Romolo Valli nella versione italiana) ci porta nell’Irlanda del XVIII secolo. Redmond Barry (Ryan O’Neal, magnificamente doppiato da Giancarlo Giannini) è un bel giovanotto senza nessuna speranza. La morte del padre, avvenuta in un duello, gli ha lasciato pochi possedimenti che non gli garantiscono alcun futuro. Lo sa bene anche alla madre (Marie Kean). Il giovane, incosciente e coraggioso, si innamora della cugina Nora Brady (Gay Hamilton), ma la ragazza è destinata al capitano inglese John Quin (Leonard Rossiter). Barry lo sfida a duello e vince. Convinto di averlo ucciso, fugge a Dublino. Viene subito derubato da dei banditi di strada ed è costretto ad arruolarsi nell’esercito inglese. Prende così parte alla Guerra dei sette anni. Nella compagnia anche un suo vecchio amico, il capitano Grogan (Godfrey Quigley), il quale gli confessa che il duello era combinato, Quin non era morto e aveva sposato Nora. Ma la guerra è guerra e quando Grogan muore in battaglia, Barry decide di disertare. L’occasione gli si presenta quando scopre due ufficiali omosessuali intenti a dialogare sul loro amore e sui loro incarichi mentre fanno il bagno in un fiume. Barry prende un loro cavallo e scappa. Durante la fuga incontra un alleato prussiano, il capitano Potzdorf (Hardy Krüger), che lo smaschera e lo costringe ad entrare nel suo esercito. Viene così incaricato di spiare lo Chevalier de Balibari (Patrick Magee), un irlandese come lui, ma Barry gli confessa la sua missione e diventa il suo protetto. I due fuggono e iniziano a truffare ingenui aristocratici al tavolo da gioco. Chi non paga, come Lord Ludd (Steven Berkoff), viene sfidato a duello da Barry. Al tavolo da gioco incontra anche la ricca contessa Lady Lyndon (Marisa Berenson) accompagnata dal nobile marito Sir Charles Reginald Lyndon (Frank Middlemass), dal figlioletto Lord Bullington (Dominique Savage) e dal reverendo Samuel Runt (Murray Melvin). Alla morte del vecchio Lyndon, Barry sposa la donna che gli da il suo nome. Redmond Barry diventa così Barry Lyndon. Dalla coppia nasce il piccolo Bryan Patrick Lyndon (David Morley). L’uomo, tuttavia, tradisce ripetutamente la moglie ed entra subito in conflitto col figliastro. Ma l’arrampicata sociale continua. Deciso a diventare “Lord”, Barry intraprende numerose spese, dai quadri al finanziamento di una compagnia di soldati da mandare in America. Al suo ingresso a corte, viene presentato a Re Giorgio III (Roger Booth) che lo liquida “Ah, magnifico signor Barry. Armatene un’altra e andate con loro”. È l’inizio della fine. Barry Lyndon prima si scontra in pubblico con Lord Bullington ormai adulto (Leon Vitali), che lascia pertanto casa, poi viene ignorato dai nobili che l’avevano appoggiato, come Lord Gustavos Adolphus Wendover (André Morell) che si rifiuta perfino di mangiare con lui. Barry Lyndon si consola dedicando sempre più attenzioni all’amato figlio Bryan, ma quando quest’ultimo muore in un incidente a cavallo (una delle scene più toccanti del cinema di Kubrick), si allontana sempre più dalla moglie, che tenta perfino il suicidio. Lord Bullington, venuto a sapere della situazione e del peso che Barry Lyndon e la madre hanno assunto, torna e sfida a duello il patrigno. Lo sconfigge solo perché l’uomo decide di perdere. A Barry Lyndon viene amputata una gamba e, con l’anziana madre, deve lasciare l’Inghilterra in cambio di un vitalizio. Qualche tempo dopo Lady Lyndon, con gli occhiali grigi e gli occhi assenti, e Lord Bullington, precocemente invecchiato, sono in un grande salone a sbrigare le pratiche della loro tenuta. Tra le tante carte da firmare c’è il vitalizio per Barry. La donna lo guarda, per un attimo pensosa, e lo firma.

2o. l’ascesa di Barry Lyndon

Barry Lyndon, il più lungo film di Stanely Kubrick (184 minuti), dietro il ritratto di un eroe ambiguo, descrisse una società violenta, classista, che nasconde le proprie miserie con la maschera del perbenismo. Un film elegante dalle ricostruzioni accurate, al punto che gli storici, anche quelli più pignoli, apprezzarono, e apprezzano, quel Settecento illustrato come i quadri di Watteau, Hogarth, Gainsborough.

Il pubblico, invece, accolse con freddezza il film, non gradendo quel “pessimismo diffuso sulle possibilità dell’uomo di conquistare un reale progresso” (Mereghetti) e giudicando la pellicola troppo lenta e noiosa. Barry Lyndon, diviso in due parti “Con quali mezzi Redmond Barry acquisì lo stile e il titolo di Barry Lyndon” e “Resoconto delle sventure e dei disastri che accaddero a Barry Lyndon” (in mezzo un breve intervallo di quaranta secondi di schermo nero), fu così un disastro al botteghino e incassò 9,5 milioni di dollari, assai meno dei 30 milioni necessari alla Warner per conseguire un profitto. Generalmente positive, invece, le recensioni dei critici. Per il francese Michel Ciment (autore di un preziosissimo volume su Kubrick, tra i pochi autorizzati dal regista) la pellicola aveva il ritmo maestoso dei film muti. Un paragone che fece piacere a Kubrick secondo cui il cinema muto aveva molte più qualità del cinema sonoro.

La Warner si consolò in parte durante la notte degli Oscar. Come il regista aveva assicurato, Barry Lyndon ottenne più nomination vincendo quattro statuette: la Migliore fotografia a John Alcott, Migliore scenografia a Ken Adam, Roy Walker e Vernon Dixon, Migliori costumi a Ulla-Britt Soderlund e Milena Canonero e Miglior colonna sonora a Leonard Rosenman. Una volta di più a secco Stanley Kubrick candidato, senza successo, per il Miglior film, la Migliore regia e la Migliore sceneggiatura non originale.

21. il regista Cary Fukunaga porterà sullo schermo il Napoleon di Kubrick

La Warner era entusiasta del lavoro del regista che continuava a ricevere offerte. Kubrick sperava ancora di poter realizzare Napoleon, ma ammise che le possibilità erano ormai minime. Aveva calcolato che il film sarebbe costato tra i 50 e i 60 milioni di dollari e che sarebbe durato tre ore, ma nessun produttore fu disposto a finanziarlo, ancor più dopo il flop di Waterloo che era costato 25 milioni e ne incassò solo 1,4. Kubrick non rinunciò mai completamente all’idea, ma non riuscì più a realizzarlo. Nel luglio del 2018 la HBO, emittente televisiva statunitense a pagamento, ha annunciato che produrrà, in accordo con la famiglia Kubrick, una miniserie di sei ore ispirata al progetto incompleto del regista. La serie sarà diretta da Cary Fukunaga (Oakland, 10 luglio 1977). In ogni caso, Napoleon rimane, e probabilmente rimarrà, il più grande film mai realizzato.

Verso la fine del 1974 Ed Di Giulio, che aveva già sistemato le lenti per riprendere a lume di candela gli interni in Barry Lyndon, presentò a Kubrick una breve bobina realizzata con una nuova invenzione, la steadicam. Brevettata dal direttore della fotografia Garrett Brown, la steadicam (talvolta chiamata steadycam) era una cinepresa che permetteva all’operatore di camminare, correre, salire scale continuando a mantenere stabile l’immagine. Sarà molto utile a Kubrick.

La Warner, benché Kubrick avesse rifiutato di girare L’esorcista, gli propose di dirigere il seguito. Ottenne solo un nuovo rifiuto. Al regista, comunque, l’idea di realizzare un horror era sempre piaciuta. Dopo i successi degli anni trenta con Bela Lugosi e Boris Karloff, il genere stava attraversando un buon periodo tra riedizione dei grandi classici (Dracula, Frankenstein, Nosferatu) e produzioni originali. Tra gli autori più apprezzati c’era Brian Aldiss che fondeva fantascienza, futuri apocalittici e horror. Lo scrittore era un ammiratore di Kubrick, in uno dei suoi romanzi, intitolato “Billion Year Spree”, aveva citato Il dottor Stranamore, 2001: Odissea nello spazio e Arancia meccanica. I due si conobbero e Aldiss regalò al regista una copia di un suo breve scritto, edito nel 1969, intitolato “Supertoys Last All Summer Long” (pubblicato in Italia nel 1999 col titolo “Supertoys che durano tutta l’estate”). Il racconto è ambientato in un futuro in cui il controllo delle nascite è imposto rigidamente. In attesa di poter generare un figlio vero, un dirigente di una società che produce androidi fatti di carne e sangue, si porta a casa un ragazzo artificiale. La trama piacque a Kubrick opzionò il racconto, ma nel 1977 uscì Star Wars e il progetto si fermò. Pare che Kubrick fosse molto geloso del film di Lucas… ovviamente solo del primo.

22. Stephen King

Il regista si concentrò così su un altro progetto che non aveva superfici di contatto con la fantascienza. Dopo aver letto, pare, centinaia di horror, l’attenzione di Kubrick si era fermata sul nuovo romanzo di un giovane scrittore che gli era stato spedito dal solito “uomo Warner” John Calley, il romanzo si intitolava “The Shining” (in italiano semplicemente “Shining”) e l’autore era ovviamente Stephen King. Nel 1977 King, ad appena trent’anni, era all’inizio della sua sfolgorante carriera, ma aveva già visto portare sul grande schermo Carrie per la regia di Brian De Palma. “The Shining” era l’opera, in allora, più lunga ed ambiziosa di King. Ambientato in un hotel, l’Overolook, il romanzo raccontava dettagliatamente il deterioramento mentale e morale del custode d’inverno, Jack Torrence, sotto l’influenza maligna dell’edificio.

Kubrick accettò di girare The Shining, ma entrò subito in contrasto con King. Il contratto dello scrittore con la Warner stabiliva, infatti, che lo stesso avrebbe redatto la prima versione della sceneggiatura, incentrata sull’hotel stregato e sul salvataggio dei personaggi innocenti. Kubrick vedeva, invece, il libro sotto una luce diversa. Per il regista, The Shining era la storia di Jack Torrence, e ogni altra cosa, inclusa la costruzione dell’hotel su un cimitero indiano, era del tutto marginale. Questa ispirazione proveniva dal romanzo di Stephen Crane “The Blue Hotel” adattato da James Agee e presentato al regista durante la lavorazione di Mr. Lincoln nel 1952. La storia raccontava di una partita a carte, tra tre uomini in un hotel isolato dalla neve, che finiva in tragedia. Ma tra i libri che Kubrick aveva incontrato nelle sue disordinate letture, c’era anche “The Shadows Knows” della scrittrice Diane Johnson, basato sulla disperazione e la debolezza di una donna che sprofonda nelle paranoia. Kubrick la volle per scrivere la sceneggiatura. Un altro schiaffo a King, la cui sceneggiatura venne cestinata.

23. Jack Nicholson in Qualcuno volò sul nido del cuculo

The Shining divenne una produzione da 13 milioni di dollari e per il ruolo del protagonista venne ingaggiato Jack Nicholson. L’attore, nel 1978, era un uomo diverso da quello relativamente sconosciuto a cui Kubrick aveva offerto la parte di Napoleone. Era oscuro, amaro, disilluso. Aveva recitato, tra gli altri, in Chinatown (1974) di Roman Polanski, The Passenger (Professione: reporter, 1975) di Michelangelo Antonioni e One Flew Over the Cuckoo’s Nest (Qualcuno volò sul nido del cuculo, 1975) diretto da Miloš Forman, per il quale vinse l’Oscar come Miglior attore. Ma Nicholson era altrettanto conosciuto per le sue feste e i “tornei” a base di droghe leggere.

Due fatti avevano scosso nel profondo l’esistenza dell’attore. Nel 1974, quando aveva già trentasette anni, venne a sapere che la donna che lui riteneva sua madre era in realtà la nonna e la ragazza con cui era cresciuto non era la sorella, ma la vera madre. Un trauma. A questo si aggiunse un altro episodio. L’attore aveva avuto una lunga relazione con Angelica Huston, figlia del regista John Huston, e nonostante la separazione i due condividevano la lussuosa casa di Mulholland Drive. Nel marzo del 1977 l’attore prestò la casa all’amico Roman Polanski per un servizio fotografico sulle giovani ragazze della California. Poco tempo dopo Polanski fu accusato di aver stuprato una modella tredicenne. Ne la Huston, ne Nicholson vennero mai accusati, ma Polanski, piuttosto che affrontare una condanna in carcere, volò in Francia nel gennaio del 1978. Questi fatti, combinati all’uso di droghe, avevano provocato nell’attore uno stato mentale che alternava un umore maniacale alla depressione e alla paranoia.

Per il ruolo di Wendy Torrance, la moglie del protagonista, Kubrick scelse la texana Shelley Duvall (Houston, 7 luglio 1949) che, se si esclude un cameo in Annie Hall (Io e Annie, 1977) di Woody Allen, aveva lavorato solo con Robert Altman. L’attrice incontrò molte difficoltà durante la lavorazione del film.

24. Shelley Duvall

Leon Vitali, dopo l’interpretazione in Barry Lyndon, divenne un collaboratore stretto di Kubrick e fu inviato negli USA per “trovare” Danny, il figlio con doti extrasensoriali della coppia. Vitali intervisto oltre 5000 bambini, videoregistrò tutto e inviò al regista. Alla fine Stanley Kubrick scelse Danny Lloyd (Chicago, 13 ottobre 1972), figlio di un ferroviere, che di fatto non recitò più dopo il film.

Per l’ultimo ruolo importante del film, quello di Dick Hallorann, il cuoco dell’hotel che riconosce in Danny lo “shining” (in italiano la “luccicanza”), Kubrick pensò subito a Slim Pickens che aveva già lavorato con lui in Stranamore, ma proprio per questo l’attore rifiutò. Il personaggio nel libro era tra l’altro un afroamericano e la parte, dopo un contatto tra agenti, venne data Benjamin Sherman Crothers, noto come Scatman Crothers (Terre Haute, 23 maggio 1910 – Los Angeles, 22 novembre 1986). Ex cantante e leader di un gruppo musicale, Crothers aveva recitato in diversi film negli anni cinquanta e aveva già recitato al fianco di Nicholson in Qualcuno volò sul nido del cuculo. Fu sottoposto a centinaia di ciak.

Le riprese del film iniziarono nel maggio 1978 e terminarono nell’aprile del 1979. Per girare The Shining, Kubrick non lasciò l’Inghilterra dove ricostruì tutti gli interni. Gli esterni, comprese i campi lunghi sul paesaggio che aprono il film o le riprese dell’Overlook Hotel che Diane Johnson aveva “trovato” nel Timberline Lodge in Oregon, vennero girati dalla seconda unità guidata da John Alcott (Londra, 27 novembre 1930 – Cannes, 28 luglio 1986), storico collaboratore del regista. Un contributo per le ricerche della location lo ebbe la figliastra di Kubrick, Katharina, che venne accreditata nei titoli del film. Vivian, la secondogenita di Kubrick con qualche ambizione registica, realizzò durante le riprese del film il documentario Making The Shining. Supervisionato dal padre, che aveva comunque l’ultima parola, il documentario venne trasmesso dalla BBC (in Italia su Rai 3 nel solito grande Fuori orario e nelle più recenti versioni DVD).

25. il Timberline Lodge in Oregon divenne l’Overllok Hotel

Dopo aver terminato il montaggio Kubrick cominciò a lavorare sulle musiche. Aveva nuovamente deciso di non far comporre una colonna sonora originale, ma di affidarsi ad un’antologia di musica classica contemporanea. György Ligeti, benché addolorato per quello che aveva giudicato un cattivo uso della sua musica in 2001, concesse il suo “Lontano” per il film. Il regista scelse anche il “Quinto Movimento della Sinfonia Fantastica” di Hector Berlioz come tema principale di The Shining e alcuni brani di Krzysztof Penderecki, tutti riarrangiati da Walter Carlos che dai tempi di Arancia meccanica aveva cambiato sesso e di faceva chiamare Wendy Carlos. Da segnalare, infine, “Midnight, the Stars and You” canzone del 1934, tra le più popolari di Al Bowlly.

Per gli Stati Uniti Kubrick autorizzò la distribuzione di una versione da 146 minuti, poi ridotta a 142, che tra l’altro sottolineava maggiormente l’alcolismo di Jack e la sua irresistibile pulsione alla sconfitta oltre ad alcune battute misogine sulla moglie. La versione europea non contiene quelle scene ed è lunga 119 muniti. The Shining (Shining) uscì negli Stati Uniti il 23 maggio del 1980, mentre in Europa arrivò solo in autunno (2 ottobre nel Regno Unito, 22 dicembre in Italia).

26. Shining (1980)

Lo scrittore Jack Torrence (Jack Nicholson) accetta di fare il guardiano invernale di un hotel deserto e isolato dal mondo, l’Overlook Hotel. Il direttore Ullman (Barry Nelson), nell’affidargli l’incarico, gli confessa che anni prima il vecchio custode Delbert Grady, aveva ucciso la moglie e le figlie prima di suicidarsi. Jack, per nulla impressionato, accetta e si trasferisce insieme alla moglie Wendy (Shelley Duvall) e il figlio Danny (Danny Lloyd) che ha poteri extrasensoriali e un “doppio”, di nome Tony, che vive nella sua bocca e gli comunica muovendo il dito indice. Prima di lasciare l’hotel il direttore Ullman e il capocuoco Dick Hallorann (Scatman Crothers) mostrano alla famiglia le strutture dell’Overlook. Proprio quest’ultimo stabilisce col piccolo Danny una connessione particolare, entrambi posseggono lo “shining” (la “luccicanza”) che gli permette di leggere e vedere cose che altri non colgono. L’uomo consiglia, inoltre, al bambino di evitare la camera 237 e di chiamarlo in caso di necessità. L’inverno è ormai alle porte e Jack diventa sempre più nervoso, irritabile e si isola per scrivere il suo romanzo nella sala principale dell’hotel, mentre moglie e figlio esplorano un grande labirinto adiacente alla struttura. Ma l’abisso continua. Jack inizia a frequentare il bar dell’Overlook gestito dal sinistro Lloyd (Joe Turkel) e Danny ha visioni sempre più inquietanti: dai corridoi che si riempono di sangue alle gemelle figlie del vecchio custode che lo invitano a giocare con loro (le inquietanti Lisa e Louise Burns). Il bambino girando con il suo triciclo per i corridoi (grandissime riprese di Kubrick con la steadicam) trova la stanza 237 aperta. Vi entra. E torna dai genitori con una strana ferita al collo. Jack, spronato da Wendy, va a controllare e nelle stanza trova una giovane donna (Lia Beldman) che lo abbraccia per poi diventare una vecchia decrepita (Billie Gibson). Jack è sempre più in preda alla follia. Ritorna nel bar dove, negli anni ’20, si sta svolgendo una festa. Un cameriere di nome Grady (Philip Stone) lo urta involontariamente e lo accompagna in bagno per pulirsi. Jack Torrence riconosce nel cameriere il vecchio custode Delbert Grady che, non casualmente, gli consiglia di essere più severo con la moglie e il figlio. Nel frattempo Wendy legge le centinaia di pagine del romanzo del marito, che contengono un’unica frase “All work and no play makes Jack a dull boy” (“Solo lavoro e niente divertimento rendono Jack un ragazzo annoiato”, ma tradotto in italiano come “Il mattino ha l’oro in bocca” per scelta dello stesso Kubrick). Jack sopraggiunge, sempre più aggressivo, ma la donna riesce a stordirlo con una mazza da baseball e a rinchiuderlo nella dispensa per poi rifugiarsi, insieme a Danny, nell’appartamento che era stato messo a disposizione della famiglia dentro l’hotel. Jack, ancora nella dispensa, viene risvegliato dalla voce di Grady che gli rimprovera di non essersi saputo occupare della famiglia. Torrence chiede un’altra possibilità e la porta si apre. Wendy nell’appartamento dorme, mentre Danny, in trance e con un lungo coltello in mano, ripete ossessivamente la parole “REDRUM” che scrive anche su una porta. La donna si sveglia dalle urla del bambino e vede riflesso dello specchio la scritta sulla porta “MURDER” (“MORTE” nella versione italiana). Ma non riesce a chiedere spiegazioni al figlio perché Jack, munito di ascia, li ha raggiunti nell’appartamento con quell’inquietante “Wendy? I’m home” (Wendy? “Sono a casa amore”). Il bambino riesce a fuggire dalla finestra del bagno mentre la donna rimane impotente nell’appartamento dove tenta di difendersi dal marito (con vere crisi isteriche dell’attrice Shelley Duvall). Jack sta per raggiungere la donna, ma sente la motoslitta di Hallorann, che dopo essere stato “chiamato” dal bambino, era giunto direttamente dalla Florida. Jack lo uccide con un colpo d’ascia e si getta alla ricerca del figlio nel labirinto adiacente all’Overlook. Danny, astutamente, riesce a fuggire al padre e corre a riabbracciare la madre, mentre Jack muore congelato nel labirinto. Le note di “Midnight, the Stars and You” accompagnano una carrellata su delle foto d’epoca appese ad una parte. Una di queste, datata 4 luglio 1921, ritrae Jack Torrance sorridente ed in abito elegante durante una festa.

27. il finale di Shining, il male esiste, è sempre esistito ed esisterà sempre

Il primo horror epico della storia del cinema, in cui Kubrick rivisitò i canoni del genere, con una essenzialità narrativa straordinaria, riempendoli di suggestioni e ambiguità disturbanti, come la gelosia del padre verso il figlio, il gioco del doppio e delle simmetrie, lo scontro tra razionalità e irrazionalità, il ruolo del labirinto e della stanza 237 (217 nel libro) forse la camera dove Delbert Grady aveva ucciso moglie e figlie, in ogni caso il luogo proibito per eccellenza. Il tutto arricchito da una delle migliori prove per Jack Nicholson, folle, inquietante, dallo sguardo demoniaco, doppiato, nella versione italiana da Giancarlo Giannini.

Shining fu una lucida riflessione sulle radici del Male nascoste dentro l’essere umano. Quell’ultima inquadratura in cui si scopre che il protagonista era uno dei partecipanti sogghignanti ad una festa datata 1921, sottolinea la visione del regista: il male esiste, è sempre esistito ed esisterà sempre. Una visione non condivisa da Stephen King che prese le distanze dal film e sceneggiò una nuova versione nel 1997 per l’omonima mini serie TV prodotta dalla ABC, diretta dal modesto Mick Garris. Per farla King dovette accettare le richieste di Kubrick: lo scrittore non avrebbe potuto criticare il film e non avrebbe dovuto fare alcun paragone.

In tutta la sua carriera Stanley Kubrick accettò suggerimenti solo da tre attori, Malcolm McDowell, Ryan O’Neal e Jack Nicholson, che tuttavia realizzarono col grande regista solo un film ciascuno. Pochi furono gli interpreti che recitarono per lui in due film, su tutti Peter Sellers, ma solo due attori girarono ben tre film diretti da Kubrick: Joe Turkel e Philip Stone. Il primo comparve nel ruolo di un sicario in Rapina a mano armata, quindi divenne il soldato Arnaud, uno dei tre condannati a morte, in Orizzonti di gloria ed infine il sinistro barista in Shining. Il secondo interpretò il padre di Alex in Arancia meccanica, il ruolo secondario di Graham in Barry Lyndon e Delbert Grady in Shining.

28. Philip Stone e Joe Turkel, gli unici due attori ad aver realizzato tre film con Kubrick

Il film fu un successo al botteghino e convinse la Warner ad estendere il contratto con Kubrick, inizialmente previsto per tre film, a vita. Le offerte non mancavano. Nel 1981 circolarono le voci che Kubrick stesse per girare il seguito di 2001, tratto ancora una volta da un romanzo di Clarke intitolato “2010: Odyssey Two” (“2010: Odissea due”), ma non era vero. Quel libro venne portato sullo schermo da Peter Hyams col titolo 2010 (2010 – L’anno del contatto, 1984), e più che essere un seguito dell’odissea kubrickiana, era 2001 secondo le intenzioni di Clarke.

Kubrick stava in realtà pensando ad altri due altri libri da portare sullo schermo: “Das Parfum – Die Geschichte eines Mörders” (“Il profumo”) di Patrick Süskind, la storia di un fabbricante di profumi omicidi nella Francia del XVIII secolo, ma poi il regista pensò che aveva già realizzato Barry Lyndon e accantonò l’idea, e “Schindler’s Ark” scritto da Thomas Keneally, dedicato alla figura di Oskar Schindler, un industriale membro del Partito Nazista, che durante la seconda guerra mondiale riuscì a salvare circa 1.100 ebrei dai campi di concentramento. Quest’ultimo, tuttavia, era già stato opzionato dalla Universal per conto di Steven Spielberg che lo trasformò nel magnifico e pluripremiato Schindler’s List (1993).

Kubrick non si lasciò mai andare a dichiarazioni politiche, se non sull’assurda guerra in Vietnam. Era come molti contrario e festeggiò il ritiro delle truppe. Durante una proiezione privata di Shining a casa sua, Childwick Bury acquistata da Kubrick nel 1978, il regista conobbe Michael Herr corrispondente dal Vietnam autore di “Dispatches” (“Dispacci”), libro-denuncia sulla “sporca guerra”, che aveva contribuito alla sceneggiatura di Apocalypse Now (1979) di Francis Ford Coppola. Herr amava Kubrick e di ritorno dalla guerra era stato rapito dalle immagini di 2001: Odissea nello spazio. Sperava che il suo testo potesse essere portato sul grande schermo, ma il regista fu molto franco nel dirgli che quel libro non era il libro utilizzabile per un film perché non aveva una storia.

29. Gustav Hasford

La sua attenzione si soffermò su “The Short-Timers” (“Nato per uccidere”) scritto dal reduce del Vietnam Gustav Hasford. Il libro descriveva con dovizia di particolari l’addestramento dei marines che rendeva i ragazzi insensibili alla violenza e continuava in Vietnam dove i giovani, ormai soldati, erano fisicamente coinvolti nella guerra. Hasford, come molti reduci, era un uomo insicuro e disturbato. Il contatto con Kubrick gli fece credere che sarebbe diventato ricco.

Nello scrivere la sceneggiatura Kubrick seguì lo stesso metodo usato per 2001, Barry Lyndon e Shining, ovvero trasformare il libro in un lungo trattamento senza dialoghi. Coinvolse Michael Herr che, sebbene fosse stanco di scrivere solo del Vietnam, accettò. Ci furono, come sempre, dei cambiamenti rispetto al testo di partenza, Hasford andò su tutte le furie e minacciò di far saltare il progetto. Alla fine, per evitare la pubblicità negativa che sarebbe derivata da uno scontro con un reduce di guerra, Kubrick accettò alcune idee, in realtà solo una, di Hasford e lo inserì tra i crediti come co-autore della sceneggiatura.

Cambiò anche il titolo. Al regista The Short-Timers non piaceva e trovò ispirazione nelle riviste di armi che maniacalmente aveva acquistato per prepararsi al film. Una di queste celebrava la tecnologia militare americana e si soffermava sul alcune pallottole, coperte fuori da un metallo duro che avvolgeva un metallo più morbido all’interno. Quelle pallottole in gergo erano chiamate FMJ, Full Metal Jacket.

Gli scenografi Anton Furst (Londra, 6 maggio 1944 – Los Angeles, 24 novembre 1991) e Nigel Phelps (Lincolnshire, 16 marzo 1962) ricostruirono il Vietnam in studio, senza lasciare il Regno Unito.

30. Matthew Modine in Streamers

Per il casting la Warner e Kubrick, con una trovata pubblicitaria degna di nota, si dichiararono disponibili a visionare le videocassette contenenti i provini di chiunque si sentisse in grado di recitare la parte di un marine diciottenne. Tutto il mondo iniziò a parlare di Full Metal Jacket, il nuovo film di Stanley Kubrick. A rispondere furono in migliaia, alcuni di loro vennero utilizzati come comparse. Parallelamente, in modo più discreto, il regista inviò Leon Vitali a vagliare le proposte degli attori professionisti.

Per ruolo del protagonista chiamato Joker, il marine formato nella delicata fase dell’addestramento che diventa prima reporter di guerra e poi soldato al fronte, Kubrick scelse senza esitazione alcuna l’attore Matthew Modine (Loma Linda, 22 marzo 1959) che aveva una brillante parlantina e aveva già recitato due volte il ruolo del veterano del Vietnam, la prima volta in Streamers (1983) di Robert Altman con cui si aggiudicò, insieme agli altri protagonisti, la Coppa Volpi al Festival di Venezia e in Birdy (Birdy – Le ali della libertà, 1984) diretto da Alan Parker, pellicola che vinse il Grand Prix Speciale della Giuria al Festival di Cannes 1985. Adam Baldwin (Chicago, 27 febbraio 1962), che aveva cominciato la carriera recitando la parte di un ragazzo assoldato da uno studente come guardia del corpo nel film My Bodyguard (1980) diretto da Tony Bill, divenne il soldato Animal. Il canadese Kevyn Major Howard interpretò Rafter Man, il marine dalla faccia innocente, ma assetato di sangue. Dorian Harewood (Dayton, 6 agosto 1950), un altro semidebuttante, divenne Eightball. Ad Arliss Howard (Indipendence, 18 ottobre 1954) venne affidato il ruolo di Cowboy.

Una volta scelto, Modine suggerì al suo amico Vincent D’Onofrio (New York, 30 giugno 1959), un corpulento attore che era solito lavorare nei teatri off-Broadway, di inviare una videocassetta con un provino a Kubrick. D’Onofrio venne scelto. Ingrassò di più di trenta chili e divenne Gomer Pyle (personaggio di una serie TV americana), in Italia Palla di lardo, la recluta che non resiste al duro addestramento.

31. Ronald Lee Ermey divenne il sergente istruttore Hartman

Rimaneva da individuare, tra i ruoli principali, l’attore che avrebbe dato il volto al sergente istruttore Hartman (sergente Gerheim del libro). In un primo tempo Kubrick ingaggiò il trentaseienne Tim Colceri (Canton, 15 giugno 1951), un ex marine NCO (Non-Commissioned Officer, ovvero un membro dell’esercito diventato ufficiale di basso rango partendo dal grado di soldato semplice). Ma perfezionista come sempre, Kubrick, per preparare maggiormente gli attori, aveva assunto un ex sergente dei Marine che rispondeva al nome di Ronald Lee Ermey (Emporia, 24 marzo 1944 – Santa Monica, 15 aprile 2018). Colceri fu relegato alla parte del mitragliere che spara dall’elicottero. Ermey superò, invece, il provino da attore continuando a parlare ininterrottamente per quindici minuti, tra ordini e insulti, mentre Leon Vitali lo bersagliava con palline da tennis e arance. Tra le reali cadenze per far marciare le reclute (“La eschimese sempre al Polo sta, e la figa sempre fredda c’ha…”), insulti e improvvisazione, il sergente Hartman fu la vera scoperta del film, un personaggio paragonabile per incisività alla figura del dottor Stranamore.

La colonna sonora del film venne curata da Vivian Kubrick, sotto lo pseudonimo Abigail Mead, che registrò suoni generati da un sintetizzatore, che ricordavano scoppi di bombe, porte che si aprivano su cardini arrugginiti, sospiri, squilli e aggiunse sia la cantilenante e anticomunista “Goodbye Sweetheart, Hello Vietnam” sia le canzoni pop dell’epoca da “These Boots are Made for Walking” di Nancy Sinatra (figlia di “The Voice”) a “Surfin’ Bird” dei Trashmen per arrivare a “Paint it Black” dei Rolling Stones aperta da quell’intro da pelle d’oca suonata da Keith Richards.

Le riprese di Full Metal Jacket, programmate per durare diciotto settimane, cominciarono alla fine dell’agosto del 1985. La Warner sperava di far uscire il film nell’estate del 1986, ma ovviamente non ci riuscì. I costi salirono a 17 milioni di dollari e il film uscì solo il 16 giugno 1987 in anteprima a Beverly Hills e dal 26 giugno nel resto degli USA.

32. Full Metal Jacket (1987)

Nel campo di addestramento dei marine di Parris Island, diciassette giovani reclute seguono per otto settimane un corso intensivo guidati dal sergente istruttore Hartman (Ronald Lee Ermey) che ha affibbiato loro soprannomi dispregiativi. Tra essi Joker (Matthew Modine) così soprannominato per le sue battute e l’imitazione di John Wayne (“Però, senti senti, abbiamo tra noi un attore comico, il “Soldato Joker”!”); Cowboy (Arliss Howard) proveniente dal Texas (“Io ho sempre saputo che nel Texas ci nascono solo tori e checche, soldato Cowboy! Tu l’aria del toro non ce l’hai neanche un po’ e quindi il cerchio si restringe! Tu succhi i cazzi?”); Biancaneve (Peter Edmund) perché di colore e Gomer Pyle (Palla di lardo, interpretato da Vincent D’Onofrio) la corpulenta e ottusa recluta (“I tuoi genitori hanno anche figli normali?”). L’addestramento è duro i giovani devono diventare dei killer non dei robot, e Palla di lardo, dopo essere stato picchiato dai commilitoni e ripetutamente umiliato da Hartman, finisce per ribellarsi e spara a bruciapelo al sergente istruttore, prima di suicidarsi. Dopo l’addestramento Jocker si ritrova in Vietnam e, in compagnia di Rafter Man (Kevyn Major Howard), lavora come corrispondente per la rivista “Stars and Stripes”, il giornale dell’esercito americano incaricato di fornire all’opinione pubblica una visione addolcita e ottimistica del conflitto. Nei pressi della base aerea di Da Nang, incontrano alcune prostitute (tra cui la mitica Papillon Soo Soo) e un ladro. Jocker ritrova Cowboy e insieme al suo plotone formato, tra gli altri, dal massiccio Aminal (Adam Baldwin) e Eightball (Dorian Harewood), partecipano all’offensiva del Tet nei dintorni di Hue. Una cecchino vietcong (Ngoc Le) ferisce e uccide parecchi di loro, prima di essere colpita mortalmente. La donna supplica di essere finita e sarà Jocker, per compassione, a sparare. I superstiti ripartono tra le macerie in fiamme, cantando la “Mickey Mouse March” (“Marcia di Topolino”), mentre i pensieri di Jocker “… vanno di nuovo ai capezzoli eretti, alle eiaculazioni notturne, ai sogni bagnati di Mary-Jane-Fica-Rotta, alle fantasie dell’immensa scopata al ritorno a casa. Sono proprio contento di essere vivo, tutto d’un pezzo e prossimo al congedo… certo, vivo in un mondo di merda, questo sì, ma sono vivo… e non ho più paura” mentre partono le note di “Paint It, Black” dei Rolling Stones.

33. il Vietanam

Altro capolavoro. Uno dei migliori di film di guerra di sempre, astratta e agghiacciante rappresentazione di quella violenza che la collettività delega ai militari. Diviso un due parti, l’addestramento e la guerra, il film riassume la schizofrenia del militare Jocker che sull’elmetto ha scritto “Born to Kill” (“Nato per uccidere”), ma sulla divisa porta il simbolo della pace. “Full Metal Jacket ha lo spessore di una tragedia assoluta, dove la lacerante contraddizione fra ansia di vita e pratica di morte si traduce nel film nel continuo contrappunto fra partecipazione e straniamento (e giustifica così il ricorso costante ad un umorismo greve e osceno, necessario ai militari per mantenere il loro equilibrio di fronte alla paura e alla morte (Mereghetti). Una contraddizione evidenziata anche nella scena finale che vede i soldati cantare la “Mickey Mouse March” (“Marcia di Topolino”), una canzoncina per bambini che non molto tempo prima avevano cantato davanti alla televisione.

La Warner aveva sperato invano di far uscire Full Metal Jacket in tempo per la notte degli Oscar del 1987, non ci riuscì e i premi principali (film e regia) andarono al “rivale”, bello, ma inferiore, Platoon di Oliver Stone. La pellicola di Kubrick venne candidata l’anno seguente, senza successo, per la Migliore sceneggiatura non originale. Incassò quasi cinquanta milioni di dollari e la Warner fu ugualmente contenta.

34. Riccardo Aragno, uomo di fiducia di Kubrick in Italia

Dai tempi di 2001: Odissea nello spazio, Kubrick divenne praticamente un regista onnipotente, la sua aurea andava oltre la leggenda, e sceglieva personalmente anche i doppiatori per le edizioni straniere dei suoi film. Per l’Italia si affidò a Mario Maldesi, maestro del doppiaggio nel nostro Paese, e a Riccardo Aragno, suo autentico uomo di fiducia. I due italiani registravano le voce e poi le spedivano a Londra al regista che approvava o chiedeva nuovi approfondimenti. Per il sergente Hartman le cose non furono così semplici. Vennero provati diversi attori, ma tutti, dopo le prima battute diventavano afoni visto che il personaggio interpretato da Ronald Lee Ermey urlava sempre. Maldesi ebbe così un’idea. Si ricordò di un signore che, oltre ad essere un bravissimo attore e doppiatore, era anche un buon cantante lirico dilettante. Il suo nome era Eros Pagni (La Spezia, 28 agosto 1939) che pare si divertì molto ad urlare frasi tipo “Ti svito la testa e ti cago in gola!”. Proprio per la qualità e la varietà dei nostri insulti (gli americani dopo “fuck” e “shit” non sanno cosa dire…), la versione italiana di Full Metal Jacket venne considerata dallo stesso Stanley Kubrick la migliore di tutte. Un esempio? Nella versione originale durante l’addestramento i marine cantano nel cortile della caserma “Ho Chi Minh is a son of a bitch” (ovvero un semplice Ho Chi Minh è un figlio di puttana), nella versione italiana divenne un ben più beffardo “Ho Chi Minh / le pippe si fa / quattro volte al di / tutto il mondo lo sa”.

Dopo l’uscita di Full Metal Jacket nel 1987, Kubrick lavorò a svariati progetti. Nel 1989 Julia Philips, che aveva prodotto Close Encounters of the Third Kind (Incontri ravvicinati del terzo tipo, 1977) diretto da Steven Spielberg, provò a stimolare l’interesse del regista per il fantastico proponendogli la lettura di “Interview with the vampire” (“Intervista col vampiro”) della scrittrice Anne Rice. Il libro venne portato anni dopo sullo schermo da Neil Jordan come Interview with the Vampire: The Vampire Chronicles (Intervista col vampiro, 1994), ma la lettura ravvivò davvero l’interesse di Kubrick per il fantastico. Nel 1990 telefonò nuovamente a Brian Aldiss.

35. A.I. Artificial Intelligence, film a lungo pensato da Kubrick, ma realizzato da Spielberg

L’idea di trarre un film dal racconto “Supertoys Last All Summer Long” di Aldiss, abbandonata alla fine degli anni settanta, tornò a farsi avanti con forza. Il progetto venne ribattezzato AI Artificial Intelligence e per la sceneggiatura vennero coinvolti sia Aldiss, continuamente prelevato da casa e portato da Kubrick dall’autista tuttofare del regista Emilio D’Alessandro (Cassino, 28 ottobre 1941) che dai tempi di Arancia meccanica lo supportava (da segnalare il libro “Stanley Kubrick e me”), Bob Shaw, un autore inglese suggerito da Arthur Clarke, e Ian Watson, di fatto lo scrittore rivale di Aldiss. Il film sarebbe stato ambientato in un futuro in cui i robot intelligenti erano utilizzati per la maggior parte dei lavori quotidiani. La vicenda era incentrata su un giovane robot che vuole diventare un essere umano. Kubrick ne parlava come di un moderno Pinocchio. Ma le immagini pensate dal regista erano oltre la tecnologia digitale dell’epoca e il progetto si fermò nuovamente. L’idea venne portata sul grande schermo nel 2001 da Steven Spielberg che ne fece un film tutto suo, ignorando l’inquieta razionalità di Kubrick.

Negli anni novanta il bisogno di anonimato e di privacy di Kubrick divenne sempre più oggetto di leggende. In Gran Bretagna si moltiplicarono i falsi “Kubrick” in cerca di pubblicità, tra questi Alan Conway, un truffatore accusato di frode in Australia, Francia, Svizzera, Irlanda, che non assomigliava per nulla al regista, ma tale era la voglia di vedere un Kubrick “umano” che Conway continuò a fingersi il regista per anni, ottenendo soldi, inviti, regali.

Per Aldiss, Kubrick era uno “schizzato” come Cartesio, ma se il motto del matematico era “Cogito, ergo sum”, quello di Kubrick non poteva che essere “Filmo, ergo sum”. Il regista viveva per filmare e filmava per vivere. Dopo aver preso nuovamente in considerazione “Profumo” e una biografia di Colette, scrittrice e attrice teatrale francese, considerata fra le maggiori figure della prima metà del XX secolo, Kubrick si concentrò sulla prima opera dello scrittore Louis Begley intitolata “Wartime Lies” (“Bugie di guerra”). Ambientato durante la Seconda guerra mondiale, raccontava la storia di Maciek, un giovane ragazzo ebreo rimasto organo e della sua bella zia Tania che cercavano di sopravvivere nella Polonia occupata dai nazisti fingendosi ariani. La relazione tra zia e nipote diventava così intima, da alterare il resto della vita del giovane. La Warner annunciò il progetto nell’aprile del 1993 col titolo provvisorio di Aryan Papers (Documenti ariani), il termine con cui venivano indicati i documenti necessari nell’Europa occupata per evitare la deportazione.

36. Schindler’s List di Steven Spielberg, fece “saltare” Aryan Papers di Kubrick

Kubrick scelse Joseph Mazzello, uno dei bambini intrappolati dai dinosauri in Jurassic Park (1993) di Steven Spielberg, per il ruolo di Maciek, mentre per la zia venne ipotizzate Uma Thurman, Julia Roberts e Jodie Foster. Il regista inviò i suoi collaboratori in Polonia, Ungheria, Slovacchia, Danimarca per trovare le location giuste. Il periodo nazista aveva sempre affascinato Kubrick, basti pensare ai progetti mancati quali The German Lieutenant, Inside the Third Reich: The Secret Diaries (dedicato ad Albert Speer) e a Schindler’s Ark. Proprio quest’ultimo fu il motivo dell’abbandono anche di questo. I ritmi di lavorazione di Kubrick erano lenti e metodici, quelli di Steven Spielberg assai più veloci. Quest’ultimo aveva il primo marzo del 1993 a Cracovia iniziato a girare Schindler’s List. Il film uscì per Natale, mentre Kubrick aveva appena scritto al Sindaco di Aarhaus in Danimarca, per ringraziarlo di aver trovato nella sua cittadina la base operativa per il film.

Alcuni scrissero di un nuovo interessamento di Kubrick verso AI Artificial Intelligence, ma un po’ a sorpresa nel dicembre del 1995 la Warner rilasciò uno scarno comunicato in cui si diceva che il regista avrebbe girato Eyes Wide Shut. Un viaggio a “occhi spalancati”, tratto da una sceneggiatura di Frederic Raphael, premio Oscar nel 1996 per Darling, che nel 1971 aveva scritto una sorta di versione moderna del “Doppio sogno” di Arthur Schnitzler. Già annunciati anche i protagonisti, i divi Tom Cruise (Syracuse, 3 luglio 1962), e la moglie australiana Nicole Kidman (Honolulu, 20 giugno 1967). Per la Warner, un autentico “Dream team”. Nel cast anche Harvey Keitel e Jennifer Jason Leigh.

37. Arthur Schnitzler

Kubrick e Raphael iniziarono a lavorare sulla sceneggiatura e trasportarono “Doppio sogno” nella moderna New York, che venne ricostruita in studio a Pinewood. I nascenti siti Internet si sbizzarrirono. Secondo alcuni Tom Cruise avrebbe recitato vestito da donna, altri segnalarono nel cast la presenza di John Malkovich, altri ancora scrissero che Kubrick aveva licenziato l’intera troupe a seguito di battute poco eleganti su rapporti sessuali, ovviamente inesistenti, tra il regista e la Kidman. Ma quelle che oggi chiameremmo “fake news” continuavano senza sosta. Le stesse malelingue suggerirono che Keitel era stato licenziato dopo aver eiaculato sull’abito della Kidman. Tutte fandonie. Ieri come oggi Internet è uno straordinario strumento, ma solo se si sa usare.

Un unico episodio venne confermato. Stanco del novantesimo ciak per una scena (Scatman Crothers in Shining era arrivato a quota 148!) Tom Cruise voleva abbandonare set e film. Kubrick lo fermò e sorridendo gli disse: “Resta con me, Tom, e farò di te una star”. Una star Cruise lo era già (Top Gun, Rain Man, Nato il quattro luglio), ma quella di Eyes Wide Shut rimane la sua migliore prova.

Le riprese di Eyes Wide Shut hanno tutt’ora il record di essere state le più lunghe della storia, dal 7 novembre del 1996 al febbraio del 1998 e, come prevedibile, durante la lavorazione il “Dream team” perse pezzi. Harvey Keitel se ne andò per davvero, sostituito dal regista Sydney Pollack (Lafayette, 1 luglio 1934 – Pacific Palisades, 26 maggio 2008), autore di Tootsie e Out of Africa (La mia Africa) e tutte le scene con Keitel vennero girate nuovamente, facendo andare su tutte le furie Cruise e Kidman. Anche Jennifer Jason Leigh lasciò il film, stanca dei metodi di lavoro di Kubrick e venne sostituita dalla sconosciuta Marie Richardson (Ljusdal, 6 giugno 1959). Ugualmente fece lo sceneggiatore Frederic Raphael che disse: “Non ho idea se parlerò ancora a Stanley”.

38. Sydney Pollack e Stanley Kubrick sul set del film

Nel frattempo al regista arrivarono i sempre tardivi premi alla carriera. Nel 1997 ricevette il D. W. Griffith Award, mandò Jack Nicholson a ritirarlo e nel suo intervento scritto elogiò apertamente Griffith come grande innovatore, sottolineando altresì che Hollywood l’aveva abbandonato in miseria. Lo stesso anno, ad agosto, gli venne conferito il Leone d’Oro alla carriera al Festival di Venezia.

Kubrick continuò a lavorare su Eyes Wide Shut per tutto l’inverno 1998 e i primi mesi del 1999. Scelse la colonna sonora, dominata dal bellissimo “Valzer n.2” di Dmitrij Šostakovic, dalla ritmica “Baby Did a Bad Bad Thing” di Chris Isaak e dalla snervante “Musica ricercata n. 2” del solito György Ligeti. Nella prima settimana di marzo, il regista spedì la versione definitiva del film a Cruise, Kidman e ai dirigenti della Warner Robert Daly e Terry Semel. La Warner programmò l’uscita per il 16 luglio del 1999, dodici anni dopo Full Metal Jacket! Kubrick confessò “è il miglior film che io abbia mai girato”.

La notte tra il 7 e l’8 marzo 1999 Stanely Kubrick morì nel sonno, stroncato da un arresto cardiaco. Avrebbe compiuto settantuno anni a luglio. Lasciò le figlie e la moglie Christiane, che, dopo l’indimenticabile apparizione in Orizzonti di gloria, era divenuta una pittrice di un certo successo. Alcune sue opere vennero utilizzate in Arancia meccanica e in Eyes Wide Shut. L’ultimo film del regista come programmato giunse nella sale 16 luglio, anticipato dal trailer che si chiudeva con le parole “Cruise, Kidman, Kubrick”.

39. Eyes Wide Shut (1999)

Nei giorni prima di Natale, il medico William “Bill” Harford (Tom Cruise) e la moglie Alice (Nicole Kidman) si vestono nel loro lussuoso appartamento a Central Park per recarsi ad un ricevimento, offerto dal ricchissimo amico Victor Ziegler (Sydney Pollack). Giunti da lui, Alice respinge le avance dell’ungherese Sandor Szavost (Sky du Mont), mentre Bill si intrattiene con due giovani modelle (Louise Taylor e Stewart Thorndike). Il medico viene chiamato d’urgenza da Victor per rianimare una giovane donna nuda Amanda “Mandy” Curran (Julienne Davis) che Ziegler aveva fatto salire nella sua stanza. Tornati a casa, Bill e Alice, dopo essersi fumati una canna, hanno una discussione sugli incontri della serata e sulle voglie di tradimento, fino a quando lei gli rivela che, durante le ultime vacanze, per poco non lo aveva lasciato per un ufficiale di marina. La confessione di Alice viene interrotta dalla telefonata della figlia di un paziente appena morto. Inizia l’odissea ad “occhi spalancati” di Bill. Si reca a casa del defunto dove la figlia Marion (Marie Richardson) gli dichiara tutto il suo amore, ma il medico declina poco prima dell’arrivo del futuro sposo Carl Thomas (Thomas Gibson, volto noto della TV per aver interpretato le serie Dharma & Greg e Criminal Minds). Quindi Bill inizia a vagare di notte per Greenwich Village prima di incontrare Domino (Vinessa Shaw), una prostituta, lo invita invita a casa sua. I due vengono interrotti quando Alice chiama il marito al telefono. Ma il viaggio notturno di Bill continua. In un locale ritrova il suo vecchio amico Nick Nightingale (Todd Field), già salutato alla festa di Ziegler, divenuto un pianista jazz che gli confessa di avere un altro impegno nel corso della notte, in un festino privato a base di sesso, dove è costretto a suonare bendato. Una telefonata informa Nick sul luogo e sulla parola d’ordine “Fidelio” (opera di Beethoven che si conclude con un inno all’amore coniugale, dopo aver esaltato l’idea di libertà) per entrare alla festa (mentre i due parlano nel bar alle loro spalle un consumatore sembra proprio essere Stanely Kubrick in quello che sarebbe il suo unico cameo). Per partecipare Bill deve recuperare un vestito elegante, una maschera e un mantello che trova, a caro prezzo, nel negozio del signor Milich (Rade Šerbedžija) che, durante la vendita, scopre la figlia (Leelee Sobieski) in atteggiamenti inequivocabili con due uomini giapponesi (Togo Igawa, Eiji Kusuhara). Bill si fa accompagnare in taxi nella stupenda dimora fuori Manatthan segnalatagli da Nick dove si svolge, come in una cerimonia rituale, un’orgia. Viene scoperto e minacciato dal “supremo prelato” che presiede il cerimoniale orgiastico (Leon Vitali), ma una bellissima donna (Abigail Good), mascherata come tutti gli invitati, si offre di salvarlo sacrificandosi al suo posto. Bill torna a casa, nasconde maschera e mantello e trova Alice in preda ad un incubo nel quale confessa di aver vissuto intense e violente esperienze sessuali. Determinato a capire cos’era accaduto la notte prima, Bill prova a ripercorrere i suoi passi. Cerca Nick, ma il portiere dell’albergo (Alan Cumming) dove l’amico risiedeva, lo informa che l’uomo, col volto tumefatto e accompagnato da due energumeni, aveva lasciato l’hotel all’alba. Quindi il dottor Harford riporta l’abito preso a noleggio senza la maschera, pensa di averla persa, e scopre che Milich fa prostituire la giovanissima e irrequieta figlia. Dopo aver provato a contattare Marion, Bill torna alla villa dove un uomo, senza parlare, gli recapita dal cancello un messaggio che lo intima a non occuparsi più della vicenda. Passa quindi a salutare Domino e scopre, da un’amica prostituta, che la donna è sieropositiva. Bill continua il suo viaggio a ritroso e scopre di essere pedinato. In un bar legge la notizia di una giovane donna morta di overdose. Si precipita all’obitorio perché pensa che sia la donna che gli ha salvato la vita nell’orgia. Riceve quindi una telefonata di Victor che lo invita a casa e gli confessa di sapere tutto perché la sera prima, all’orgia, c’era anche lui e gli rivela altri dettagli del festino decadente. Bill, visibilmente turbato, torna a casa e trova la maschera sul letto accanto ad Alice. Scoppia a piangere e le confessa tutto. La mattina seguente i due accompagnano la figlia Helena (Vinessa Shaw) a comprare i regali di Natale con una rinnovata fiducia nell’avvenire della loro coppia perché come dice Alice: “Sono sicura che la realtà di una sola notte, senza contare quella di un’intera vita, corrisponde alla verità” mentre Bill afferma: “Nessun sogno è mai soltanto un sogno”. Ora i due sono svegli e coscienti.

40. Kubrick terminò Eyes Wide Shut, ma il film uscì postumo

Uscito dopo la sua morte, ma nella versione approvata da Kubrick (Steven Spielberg, amico e rivale, contribuì a sistemare i titoli, la messa a punto del suono e la qualità del colore), Eyes Wide Shut è un lucido viaggio dentro le contraddizioni della morale e della vita di coppia. “Il film più lavorato e complesso che sia dato di vedere, un film che richiede espressamente un di più di uno sguardo attento” (Ghezzi).

Un grande film sull’inquietudine, sulla paura del sesso anziché sul sesso di per sé, attraversato, come spesso in Kubrick, da una vena grottesca e da humour nero. Eyes Wide Shut sconcertò parecchie aspettative e dopo finali apocalittici (Il dottor Stranamore), misteriosi (2001: Odissea nello spazio), cinici (Arancia meccanica), malinconici (Barry Lyndon), tragici (Shining) e nichilisti (Full Metal Jacket), Kubrick poco prima di morire ci regalò questa visione positiva, una luce fuori dal tunnel con quella meravigliosa battuta, tenera e dura al tempo stesso, che chiuse la carriera di uno dei più grandi cineasti di sempre. Alice chiede al marito “C’è una cosa molto importante che noi dobbiamo fare prima possibile…”. “Cosa?” domanda Bill e Alice risponde senza mezzi termini “Scopare”.

Se Kubrick viene spesso, e giustamente, ricordato per la sua trilogia fantascientifica (Stranamore, 2001, Arancia meccanica) è altrettanto vero che il tema della coppia era già apparso in Lolita e in tre dei suoi ultimi quattro film (Barry Lyndon, Shining, Eyes Wide Shut), ma per la prima volta è la donna a dettare i tempi. Nicole Kidman interpretò il più alto ruolo femminile nella filmografia del regista. Le donne nei suoi film, fino ad allora, erano oggetto del desiderio (Feard and desire, Il bacio dell’assassino, Orizzonti di gloria, Lolita, Full Metal Jacket), vittime predestinate (Arancia meccanica, Barry Lyndon, Shining) o del tutto assenti (Il dottor Stranamore, 2001: Odissea nello spazio), in Eyes Wide Shut è la donna, Alice, ad essere protagonista a scatenare l’odissea del marito, ed è anche quella che alla fine chiude la storia e il film con quella straordinaria battuta. Ovviamente unico personaggio femminile a chiudere un film di Kubrick.

41. Nicole Kidman interpretò il principale ruolo femminile di tutta la filmografia del grande regista

L’orgia, censurata nella versione statunitense del film (per evitare che il film venisse vietato), è quanto di meno erotico si possa vedere all’interno di tutta l’opera di Kubrick. Le immagini più sensuali sono di gran lunga quelle di inizio film, quando la Kidman è ripresa di schiena, completamente nuda con addosso solo dei tacchi vertiginosi.

Nel novembre del 1999 la Warner dichiarò pubblicamente che con un guadagno globale di 155655000 dollari, Eyes Wide Shut aveva superato gli incassi di 2001: Odissea nello spazio ed era diventato il maggiore successo commerciale del regista.

Se Kubrick avesse potuto scegliere il momento di andarsene, qualcuno ipotizzò addirittura il suicidio, ipotesi poi smentita, probabilmente avrebbe scelto quel 7 marzo 1999 quando era ormai un regista talmente affermato da diventare una leggenda. Aveva aspri metodi di lavoro e una personalità difficile, ma la sua reputazione era straordinaria. Sarebbe stato difficile immaginarsi un Kubrick invecchiato che si presenta alla notte degli Oscar per ricevere un premio alla carriera da parte di chi i suoi film non li aveva visti e di sicuro non li aveva capiti.

Fin da giovane prese la decisione di vivere e lavorare secondo i suoi termini, scelta che valeva il prezzo dell’ostracismo di Hollywood e di un mondo del cinema che lo aveva sempre un po’ invidiato. Altri provarono a seguire il suo esempio, ma Stanley lo fece contro tutti, quando non c’erano modelli da seguire e rimase Kubrick fino alla fine.

Con i suoi tredici lungometraggi ci ha lasciato alcune delle immagini più iconiche della storia in generale e non solo di quella del cinema. Lo sguardo di Lolita con occhiali da sole e lecca lecca, il pilota Kong che cavalca la bomba in Stranamore e la scena finale dello stesso film con lo scienziato che riesce a camminare, l’ominide di 2001, il valzer delle astronavi, il feto che “galleggia” sopra la Terra, lo sguardo di Alex al Korova Milk Bar, la “cura Ludovico” in Arancia meccanica, Danny che pedala col suo triciclo nei corridoi dell’Overlook hotel, le gemelle di Shining, il volto di Jack Torrence che spunta dalla porta appena distrutta a colpi d’ascia, l’addestramento dei marine in Full Metal Jacket, le maschere nell’orgia di Eyes Wide Shut, sono immagini patrimonio dell’umanità.

42. Stanley Kubrick

Le citazioni e gli omaggi ai suoi film sono infinite vanno dalla musica, allo sport (i “Drughi” sono i tifosi della Juventus, la nazionale olandese di calcio venne ribattezzata “Arancia meccanica”) passando, ovviamente, al cinema (Rapina a mano armata ispirò Tarantino). Senza dimenticare, per gli amanti della serie, le continue citazioni presenti nei Simpson.

L’ammirazione e l’invidia che suscitava tra i colleghi era tale che su di lui circolava una barzelletta. Spielberg era morto ed era andato in Paradiso, ma ai cancelli dei Cielo gli viene impedito di entrare perché a Dio non piacciono i registi. In quel momento passa un uomo in bicicletta, quasi calvo e con la barba, pantaloni di tela e scarpe da ginnastica. “Ma quello è Stanley Kubrick” urla Spielberg. San Pietro guarda il ciclista e risponde “No quello è Dio. Solo che è convito di essere Stanley Kubrick”.

LA PRIMA PARTE

LA SECONDA PARTE

MARCO RAVERA

redazionale


Bibliografia
“Stanley Kubrick. La biografia” di John Baxter – Lindau
“Tutti i film di Stanley Kubrick” di Paul Duncan – Lindau
“Kubrick” di Michel Ciment – Rizzoli
“Invito al cinema di Kubrick” di Ruggero Eugeni – Mursia
“L’Arancia meccanica” di Giorgio Cremonini – Lindau
“Barry Lyndon” di Philippe Pilard – Lindau
“Shining” di Giorgio Cramonini – Linduau
“Full Metal Jacket” di Roy Menarini e Claudio Bossi – Lindau
“Arancia meccanica” di Antonhy Burgess – Einaudi
“Doppio sogno” di Arthur Schnitzler – Adelphi
“I Simpson e il cinema” di Michele Galardini – Felici Editore
“Storia del cinema” di Gianni Rondolino – UTET
“Il Mereghetti. Dizionario dei film 2017” di Paolo Mereghetti – Baldini & Castoldi

Immagini tratte da: immagine in evidenza da it.wikimedia.org e Screenshot del film Orizzonti di gloria, foto 1, 3, 4 da pinterest.com, foto 2 da ru.wikimedia.org, foto 5 da it.wikimedia.org, foto 6, 7 Screenshot del film Day of th Fight, foto 8 Screenshot del film Fliyng Padre,

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Corso Cinema

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