L’esperienza sociale di una città e la sua rigorosa «disciplina»

«Un tocco di classe, l’occupazione delle Officine Reggiane 1950-51», una mostra a Reggio Emilia fino al 31 di ottobre
Dalla mostra «Un tocco di classe» (Ex Officine reggiane)

La «vacca di ferro» issata sul muro di cinta per mostrarla alla città, aggirando il controllo della polizia. L’incredibile lotta delle Officine Reggiane, la più lunga occupazione di una fabbrica in tutto l’occidente, ha come simbolo il trattore R60 prodotto dall’ingegno dei 4mila operai che si ribellarono ai licenziamenti e alla politica centrista che nel 1950 decise di chiudere quasi tutte le aziende pubbliche per dirottare i soldi del piano Marshall alla Fiat e a poche altre imprese.

E invece nel luogo in cui il 28 luglio 1943 furono uccisi 9 operai solo perché chiedevano la fine della guerra dopo la caduta di Mussolini, in quella Reggio Emilia che diventerà un modello sociale, partì una lotta che (ri)unì la città e la campagna. Solo la solidarietà assieme alle proverbiali «teste dure» dei reggiani poterono farla durare così a lungo – ben 368 giorni – , un’occupazione poi schiacciata sotto il peso di un sistema capitalistico che il mutualismo e cooperative – siamo nella città di Prampolini – non poteva correggere: per produrre trattori servivano milioni dell’epoca, i proventi raccolti a Reggio Emilia e non solo non sono bastati a evitare dieci anni di povertà ai licenziati.

Settant’anni dopo, gli scheletri ex industriali ora ospitano un «tecnopolo» ricco di start up. All’innovazione però mancava l’anima storica. Problema in parte ovviato dalla mostra Un tocco di classe, l’occupazione delle Officine Reggiane 1950-51 (fino al 31 ottobre alle Ex Officine reggiane, piazzale Europa, 1) che Valerio Bondi ha messo in piedi grazie a tre anni di lavoro storico e di mediazione politica.

Le circa cento foto d’epoca raccontano una piccola epopea proletaria, arricchita dal contributo in voce (tramite Qr) di un altro reggiano, quel Massimo Zamboni che in La trionferà ha già raccontato mirabilmente quel mondo di passioni e coerenza.
«Saper fare le cose, produrre senza padrone», questo dimostrano quegli operai. Attirando l’attenzione di gran parte degli intellettuali dell’epoca che vennero alle Reggiane ad ammirare le «vacche di ferro» e l’esperienza sociale di una città intera. Calvino vi trasse la lezione condensata nella frase contenuta nel manifesto della mostra: «La disobbedienza acquista un senso solo quando diventa una disciplina morale più rigorosa e ardua di quella a cui si ribella».

Una «disciplina» che oggi mostra il collettivo Fx che le Reggiane le ha riempite di graffiti e che dà il benvenuto alla mostra mettendo di fianco due gigantografie: l’operaio Quirino Salami «lo sconfitto» e Angelo Costa, il presidente di Confindustria «perdente» a dare il senso di una battaglia sindacalmente persa – solo 700 furono riassunti a fine occupazione – ma socialmente vinta.
«Volevamo mostrare come molti dei licenziati sono poi stati protagonisti negli anni ’70 del modello Reggio – spiega Valerio Bondi, appena eletto segretario regionale della Flai Cgil regionale – quell’esperienza è unica ma ancora oggi rimane nella battaglia della Fiom per la democrazia in fabbrica».

Ad allestire la mostra (inserita nel circuito off del festival Fotografia Europea che apre oggi) sui 180 metri del capannone 18 che era dedicato alle produzioni ferroviarie è stato lo Spazio Gerra. «Abbiamo deciso di usare molto la parola e di gestire gli spazi con un 23 immagini totem che sintetizzano cronologicamente la lotta e tre cortili tematici per approfondire i temi», spiega Lorenzo Immovilli. «Le Reggiane fanno parte di un’identità collettiva, seppur non condivisa da chiesa e patronato, hanno forgiatola Reggio dei diritti e della sinistra», sintetizza il segretario della Camera del lavoro Cristian Sesena.

MASSIMO FRANCHI

da il manifesto.it

foto: screenshot dalla mostra sulle “Reggiane”

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Arte e mostre

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