Le reti sociali: la nuova frontiera del consenso e del conformismo

“Tutta la vita delle società nelle quali predominano le condizioni moderne di produzione si presenta come un’immensa accumulazione di spettacoli. Tutto ciò che era direttamente vissuto si è allontanato...

Tutta la vita delle società nelle quali predominano le condizioni moderne di produzione si presenta come un’immensa accumulazione di spettacoli. Tutto ciò che era direttamente vissuto si è allontanato in una rappresentazione”.

(Guy Debord)

Nel corso degli ultimi cinque anni, lo sviluppo delle reti sociali, le quali, nate dapprima come prodotto “di nicchia”, sono divenute per larghissima fascia della popolazione il primo strumento di informazione e di socializzazione, ha determinato via via un mutamento dei comportamenti e dei processi cognitivi su cui sino ad ora non ci si è concentrati abbastanza.
Tale mutamento dei comportamenti e dei processi cognitivi, in quanto fattore sociale, lungi dal porsi come evento casuale e “neutro”, riveste, in quanto espressione di concreti rapporti di proprietà capitalistica quali quelli che dominano la rete (altro che libertario regno delle possibilità infinite!), una politicità da analizzare, decostruire e criticare, pena la non comprensione dei contemporanei meccanismi con cui le classi dominanti si assicurano egemonia e consenso.
In primis, occorre demolire una convinzione che, fattasi senso comune, veicola una narrazione tossica da cui anche una parte della sinistra non è stata immune: il capitalismo “digitale” non è affatto un regno “immateriale”, ma è quanto di più immanente le società umane abbiano prodotto: per far viaggiare in tempo reale i miliardi di bit che avvolgono la terra, occorrono in ordine: una rete elettrica che alimenta i calcolatori, fondata a sua volta sullo sfruttamento delle risorse energetiche; un cablaggio planetario che richiede immensi sforzi organizzativi da parte di imprese con milioni di salariati, umani in carne ed ossa che progettano, costruiscono e calano cavi negli oceani e sotto i nostri piedi; la produzione di macchine in grado di demodulare i bit, macchine assemblate con materie diverse, dai minerali, ai metalli, alle plastiche, per la cui produzione si richiede a sua volta un immenso quantitativo di risorse energetiche e infine, un quantitativo di salario tale da permettere alle masse dei fruitori di acquistare un calcolatore, un telefono intelligente o una tavoletta con cui, grazie ad un abbonamento a internet, collegarsi alla rete; tale salario, a sua volta, è il prodotto di un lavoro da parte degli utenti di internet.

Sgombrato dunque il campo sulla natura oppiacea della narrazione retorica sull’ “immaterialità” del mondo contemporaneo, narrazione che vuole semplicemente naturalizzare i rapporti di produzione e le diseguaglianze che essi generano, occorre ora concentrarsi sui prodotti “culturali” determinati da tale filiera produttiva, in primis su quelli che ho nominato all’inizio: le reti sociali.
Partiamo da un semplice, ma non semplicistico, sillogismo: una società composta da soggetti che non hanno mai avuto un’educazione collettiva e repubblicana, ma i quali, al contrario, sono sempre stati spinti a guardare solo a sé e, nella misura in cui sono stati chiusi nel privato, sono stati culturalmente de-privati, sarà una società di persone incapaci di organizzarsi in quanto soggetto collettivo, e dunque incapaci di rivendicare diritti collettivi.
In una società siffatta, la politica intesa come partecipazione pubblica e consapevole dei soggetti singoli entro una soggettività collettiva di liberi ed eguali (assioma condiviso tanto dal liberalismo che dal socialismo, ossia dalle due principali filiazioni dell’illuminismo) viene meno, sostituita da una “governance” neutra e neutralizzante, la quale naturalizza le diseguaglianze nell’eterno ed immodificabile presente della non narrazione distopica.

Orbene, il quadro sommariamente delineato da questo sillogismo corrisponde esattamente a quanto sta avvenendo negli ultimi anni: le generazioni nate fra gli anni Novanta del Novecento e gli anni Duemila hanno formato la loro identità esclusivamente sulle reti sociali, da Facebook ad Instagram, sino ad Ask, dove le “domande” che si possono porre in anonimato agli utenti (o utilizzati?) determinano veri e propri fenomeni di voyeurismo, narcisismo, bullismo e violenza, o a snapchat, sistema di messaggeria istantanea che cancella dopo pochi minuti i video e i messaggi inviati, involontaria metafora della natura transeunte ed illusionistica di quei “cinque minuti di celebrità” su cui si fondano la mediocrità e lo spirito gregario in quanto tipologie comportamentali funzionali alla distopia neoliberale, distopia la cui plastica incarnazione è offerta dalla figura del “fashion blogger” (non è un caso che tutte le parole della neolingua cibernetica siano inglesi- americane): questo personaggio non è altro che un individuo il quale, grazie alla propria capacità di “vendersi” meglio, di “apparire” meglio, diviene una sorta di guru, di arbiter elegantiae, di maestro seguito da milioni di giovani i quali ne idolatrano l’immagine, in un’edizione contemporanea e globalizzata del culto della personalità.
Seguendo alcuni di questi “fashion blogger”, si potrà notare come nel corso degli ultimi anni il fenomeno sia esploso, e come l’età di costoro sia sempre più bassa, tanto che attualmente in Italia una bambina di 12 anni, presente in tutte le reti sociali e proprietaria di un dominio internet proprio, ha addirittura creato una catena di zaini e abiti con la sua firma, ovviamente con la compiacenza dei genitori, dato che, in quanto minore, la bambina non potrebbe mai svolgere tale attività in maniera autonoma.
Il messaggio veicolato inconsciamente da queste giovanissime vittime- carnefici, e consciamente dalle classi dominanti che attraverso eserciti di comunicatori e di operatori dei media ne muovono pensiero ed azione (sino a quando il meccanismo si autoriproduce, facendo risparmiare al capitale tempo e denaro), è drammaticamente semplice, e dunque inconsciamente trasmissibile: nel mondo di oggi conta l’individuo, conta saper competere, conta apparire, conta l’eterna giovinezza, ormai divenuta eterna fanciullezza, conta il saper fare soldi, conta una mediocrità che, confusa con la democrazia (mediocrità e democrazia, essendo quest’ultima la forma di autogoverno degli individui pienamente realizzati, dovrebbero essere concetti opposti), permette a tutti, persino ad una bambina del 2004, di diventare “qualcuno” almeno per qualche minuto.
Ecco perché oggi la bontà di un’idea e il valore di una persona sono definiti in tale antimondo attraverso le “visualizzazioni”: “Tizio ha ottenuto x visualizzazioni, Caio ha ottenuto Y visualizzazioni”. Quante volte abbiamo sentito frasi simili?

I giovani e gli adolescenti, dunque, invertendo completamente il piano del “reale” (termine la cui scivolosità non deve impedirne l’utilizzo) con quello del “virtuale”, amano, odiano, fanno sesso, litigano, si confrontano per ore ed ore solo attraverso le reti sociali, e quando fanno gruppo, non fanno che riprodurre nella fisicità i rapporti virtuali, così da passare il tempo a fare video, foto, a stare connessi e a discutere di reti sociali, come può constatare chiunque esca in una qualunque strada di una qualunque città europea. E’ evidente che individui cresciuti e formatisi in questo modo sono pronti a diventare adulti eterodipendenti, psicologicamente e culturalmente fragili, schiacciati da un apparire che stravolge l’essere e soprattutto perfetti esempi di competitività, individualismo, manodopera da contrattazione individuale, assenza di sogni, utopie, ideali e conseguente mancanza di forza organizzativa; dei soggetti in cui il termine, da sostantivo, torna ad essere quel participio passato che due secoli di emancipazione delle masse avevano relegato nella storia: da soggetti di trasformazione sociale a soggetti alla trasformazione sociale, entro un quadro di diseducazione politica di massa la cui origine è forse da ricercare nei primi e pionieristici studi dei teorici neoliberali dei primi anni Settanta del Novecento, ai tempi della Trilateral, quando la democrazia veniva messa sotto accusa in quanto foriera di socialismo, e dunque di sovvertimento dei rapporti di classe, con conseguente caduta del saggio di profitto.

In questo senso, la categoria gramsciana di rivoluzione passiva può costituire un utile strumento di lettura della contemporaneità, se unita alle analisi foucaultiane dei dispositivi della biopolitica, e alle intuizioni dei processi psicopolitici acutamente individuati come costituenti di una nuova società dal dimenticato Guy Debord: “Tutta la vita delle società nelle quali predominano le condizioni moderne di produzione si presenta come un’immensa accumulazione di spettacoli. Tutto ciò che era direttamente vissuto si è allontanato in una rappresentazione”.

Individuare, conoscere, analizzare, decostruire e combattere la deriva individualistica ed alienante determinata dalla diffusione delle reti sociali, strumento principe di egemonia delle classi dominanti contemporanee, è per la sinistra un dovere repubblicano, ché la distruzione delle dimensione pubblica operata scientemente da tali mezzi è per prima cosa distruzione del contratto sociale su cui si fonda la democrazia, contratto sociale che, dunque, si pone come primo baluardo di una modernità che il capitalismo nella sua fase neoliberale e globalizzata sta superando non in direzione progressiva, ma radicalmente regressiva, sino a portarci ad un tempo di bellum omnium contra omnes in cui, entro una crisi ecologica senza eguali nella storia dell’umanità, rischiano di proliferare i peggiori avventurismi fascisti e totalitari, pronti a sacrificare le vite di miliardi di umani per garantirsi sempre più quote di ricchezza in un Pianeta ormai desertificato esausto ed incapace di reagire.

ENNIO CIRNIGLIARO

redazionale

24 agosto 2016

foto tratta da Pixabay

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Analisi e tesi

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