La democrazia ibrida ungherese: un problema tutto europeo

Orbán e la lunga trattativa sui cinquanta miliardi di finanziamenti da assegnare all’Ucraina. Orbán e una giustizia subordinata al potere esecutivo, roba da Argentina di Videla, roba che non...
Viktor Orbán

Orbán e la lunga trattativa sui cinquanta miliardi di finanziamenti da assegnare all’Ucraina. Orbán e una giustizia subordinata al potere esecutivo, roba da Argentina di Videla, roba che non dovrebbe avere alcuna cittadinanza nella tanto liberaldemocratica Unione Europea. Orbán e i suoi rapporti politici con la destra di governo italiana, con una Giorgia Meloni che è alla guida del gruppo dei Conservatori e Riformisti al parlamento di Strasgburgo (come si possa poi essere al contempo l’uno e l’altro, rimane un mistero delfico.

Insomma, il primo ministro magiaro è al centro della scena tanto italiana quanto europea e internazionale, perché somiglia sempre di più ad un leader autoritario che magari vorrebbe avere le sembianze della Thatcher ma, invece, si ritrova cucito addosso più l’abito da autocrate che ha portato l’Ungheria dall’essere una democrazia integrata in Europa ai tratti fisiognomici della democratura, dove i diritti sono garantiti solo per gli ungheresi che abbracciano dio, la patria e la famiglia eterosessuale. E, naturalmente, il partito del presidente: Fidesz.

Nemmeno a dirlo, così come in Italia un tempo la destra berlusconiana, che negava qualunque principio egualitario in tema di riconoscimento universale dei diritti costituzionali, si faceva chiamare “popolo delle libertà“, il partito di Orbán è una “unione civica“, la cui organizzazione giovanile prende addirittura il nome di “giovani democratici“.

Il camaleontismo delle forze conservatrici e reazionarie non dovrebbe stupire: la storia del Novecento è ricchissima di artifizi di questo tipo e, del resto, fascisti, nazisti, nazionalisti di ogni risma hanno sempre prosperato sulla diffusione delle peggiori menzogne che, oggi, chiameremmo “fake news“.

L’ex giovane che mosse i suoi primi passi con la crisi del socialismo reale, abbagliato dalle magnificenze del capitalismo e cresciuto dentro un alveo politico dai tratti liberaleggianti, oggi è uno dei punti saldi di riferimento per tutta una serie di forze politiche e movimenti che si radunano proprio nella sua Ungheria ogni anno per celebrare la lotta delle SS e delle Croci frecciate contro quell’Armata Rossa che liberava l’Europa dal nazifascismo.

Orbán ha strutturato un paese in cui l’informazione, la magistratura, l’amministrazione della giustizia e i servizi essenziali dipendono totalmente dal governo. Se davvero la maggioranza meloniana avesse a cuore lo spirito democratico costituzionale della Repubblica Italiana, dovrebbe non andare oltre il galateo istituzionale con quello che, in tutta evidenza, si può definire il “regime ungherese“.

Invece la cordialità empatica che mostrano Meloni e Orbán è il manifesto dei conservatori reazionari per un’Europa che metta fine al governo di liberali e socialdemocratici che, pure, ha concesso fino ad oggi a Budapest tutta una serie di finanziamenti che hanno consentito al democrazia autoritaria del leader di Fidesz di mettere solide radici.

Il copione di Orbán ormai lo conosciamo in anticipo, perché recita sempre la parte di chi batte i pugni sul tavolo, sbatte i tacchi e tiene al tavolo delle trattative i leader europei per ore e ore, soprattutto su soldi e guerra, poi, per sembrare in patria e nel continente il risoluto che non cede se non ottenendo comunque qualcosa, condiscende alla volontà dei Ventisette: una volta uscendo dall’aula, un’altra volta, come nel caso dei cinquanta miliardi per Kiev, ottenendo una serie di controlli annuali sulle modalità di impiego dei fondi comunitari. Tutto qui.

La terribile vicenda giudizia di Ilaria Salis, pur prendendo il via un anno fa nel silenzio assordante praticamente generale, ed in particolare del nostro governo, delle nostre istituzioni, ha avuto il pregio, proprio approssimandosi le elezioni europee, di mostrare al mondo come il regime ungherese tratta i detenuti.

Orbán sostiene che in quel modo si trattano tutti i carcerati nelle prigioni magiare. Peggio ci sentiamo. Se fosse stata una crudele eccezione dimostrativa urbi et orbi, sarebbe stata enormemente grave, ma pur sempre un caso fatto vivere sulla pelle di una insegnante italiana antifascista, condannata a trascinarsi al guinzaglio prima ancora di avere un processo.

Ma è lo stesso primo ministro ungherese ad affermare e confermare che così, in quel modo degradante e svilente, si umiliano i diritti umani nel suo paese; una terra in cui l’etnocentrismo si accompagna al dirigismo governativo a tutto tondo e in cui la giustizia obbedisce ai valori della maggioranza al potere.

Un consenso popolare indirizzato mediante una occupazione pressoché totale del panorama informativo da parte del partito di Orbán e dei suoi alleati minori. Basti solo pensare che le opposizioni sono ridotte a trasmettere i loro eventi non in finestre anche minime delle tv pubbliche e private, ma soltanto attraverso i canali You Tube, le dirette social su Facebook e Instagram.

L’Ungheria di Orbán è, nel suo piccolo, la dimostrazione di quello che potrebbe diventare l’Europa domani se a prevalere nel voto di giugno dovesse essere una maggioranza di forze di estrema destra, molto conservastrici e razionarie, per niente riformiste e liberali, tanto meno sociali come pretendono di apparire a far data dai movimenti nazionalisti di inizio Novecento, innestati sul dualismo tra identità entica e superiorità razziale.

L’Europa di oggi, vivendo di rendita per quanto concerne una tuttavia incerta stabilità delle sue istituzioni democratiche, frutto del processo integrativo partito dalla fine della Seconda guerra mondiale ad oggi, sottovaluta questa possibilità.

Si pensa, nonostante si avverta il pericolo di una maggioranza parlamentare europea spostata sempre più a destra, che esistano quegli anticorpi nei singoli stati nazionali capaci di essere argine, diga, fronte e veto istituzionale (e morale) contro il riemergere di nazionalismi in grado, non tanto di rompere la composizione fallace della UE, quanto di trasformarla nel suo uguale e contrario.

Da confederazione un po’ singolare e anomala nel diritto internazionale a federazione di Stati in cui valga il principio associativo del potere pubblico forte, dei governi forti, dei Parlamenti ridotti a ratificatori delle leggi e non a formulatori delle basi continuative della democrazia.

Perché Orbán ha puntato i piedi con ancora maggiore virulenza sulla questione dei finanziamenti all’Ucraina? Anche perché questa è la sua linea di consenso in patria; ma soprattutto perché l’asse che lo lega al putinismo è anche un asse politico.

Autocrazie riconoscono altre autocrazie e l’Europa dei capitali e dei profitti non ha né la forza e nemmeno l’autorità morale, politica e civile per smentire il teorema che la vede parte del problema globale e non soluzione alternativa, in alleanza con l’atlantismo nordamericano, all’avanzare di una parte di mondo illiberale. Se Orbán è oggi l’unità di misura del nazionalismo saldato al peggiore liberismo, von der Leyen, Michel, Macron e Scholz non sono gli alfieri di un progressismo che gli si contrappone.

L’Europa di Orbán e quella di Christine Lagarde, della BCE e della Commissione sono due facce contrapposte e non necessariamente opposte di una medesima medaglia. I particolarismi si fanno sentire nel momento in cui il sistema complesso dei regolamenti UE viene addomesticato alle esigenze del blocco più occidentale dell’Unione e la parte Est viene, in qualche modo, considerata come marca orientale, come colonia che supporta il vero cuore di un Vecchio continente che sta a Bruxelles e che viene fatto pulsare degli interessi di Parigi e Berlino.

La comprimarietà italiana è ancora al di sotto degli standard che si possono riconoscere ad un governo che tenti la parte della mediazione tra le due (tre, quattro…) anime dell’Unione Europea. Basterebbe solo pensare ancora una volta al ruolo dei cosiddetti “paesi frugali“: a quel rigorismo liberistico impositivo che tuonava fino a poco tempo fa dal paradiso fiscale olandese o dall’intransigenza nordica e un po’ anche baltica.

Il problema dell’uscita da una economia di guerra, che sta sfiancando tanto i bilanci statali quanto la tenuta politica delle istituzioni comunitarie (e non poco anche quelle transoceaniche della Repubblica stellata) e che, non di meno, tiene sotto scacco le relazioni internazionali degli assi portanti della UE, oggi si riverbera principalmente nel confronto che hanno le cosiddette “democrazie occidentali” con quei regimi che si richiamano ad un rapporto formale e de iure con l’alternanza delle coalizioni e dei partiti al governo, ma che, nella sostanza, ricalcano i peggiori istinti di oligarchie piuttosto vicine a noi.

Il “dilemma Orbán” è un arzigogolante rompicapo per un’Europa economica che non può rompere con il vecchio asse di Visegrad, pena la frantumazione dell’intero settore est dell’Unione, e che, al contempo, per far valere i presupposti del liberismo su cui verte la politica europea non può non stigmatizzare le torsioni autoritarie che l’orbanismo ha messo in pratica a Budapest.

Sono anche questi gli effetti contraddittori di uno sviluppo diseguale, di una frantumazione sociale che conduce all’irriconoscibilità delle differenze tra autoritarismi conclamati e democrature moderne. Nazionalismo e populismo convergono in una mescolanza di disvalori antisociali che vengono supportati da una propaganda fatta di muri contro i migranti, di tradizionalismo eterosessualista e familistico, di fanatismo religioso che porta la nazione ad essere benedetta da domeniddio e, quindi, ci rimette nel solco dell’esclusività e dell’esclusivismo.

In un comunicato stampa del settembre del 2022, il Parlamento europeo definiva quello ungherse “un regime ibrido di autocrazia elettorale“, quindi non una piena democrazia pur stando entro il contesto democratico dell’Unione. In particolare, si tendeva a sottolineare come Orbán fosse stato aiutato in tutto questo da una inazione tanto del Consiglio quanto della Commissione europea e paventava l’apertura della procedura prevista dall’articolo 7 del Trattato dell’Unione: sospendere quindi l’adesione dell’Ungheria alla UE medesima.

Indipendenza della magistratura, corruzione dilagante e piena espressione delle libertà umane, dei diritti civili e del rapporto tra questi e la socialità dell’individuo, erano i punti in cui il governo di Orbán aveva dato il peggio di sé stesso nell’allontanare il suo paese dall’Europa, pur pretendendo sempre di ottenere tutti i finanziamenti comunicati. Comprese le esorbitante cifre del PNRR, prodotto del biennio pandemico.

Con una mano Orbán intendeva quindi sempre prendere e con l’altra percuotere le opposizioni, relegarle nell’apatia politica, renderle innocue mediante un sempre maggiore distacco dall’accesso ai mezzi di comunicazione che è, non di meno delle prerogative che spettano costituzionalmente a deputate e deputati, un diritto equanime previsto in tutte le democrazia tanto formali quanto sostanziali.

L’Ungheria di oggi non è, purtroppo, diversa da quella di un anno e mezzo fa. Quella in cui l’Europa non si riconosceva e che doveva, soprattutto per preservare gli interessi economici continentali, far rientrare il recalcitrante presidente magiaro che guardava, e tutt’ora guarda, verso la Russia di Putin.

Il problema ungherese è, in questo momento, unico in Europa. Ma è il campanello d’allarme di una insufficienza democratica interna all’Unione Europea stessa. E’ la dimostrazione che la ricattabilità non è un fattore estemporaneo dentro i Ventisette ma può, al contrario, prodursi e riprodursi nel momento in cui le crisi internazionali si riversano su un Occidente incapace di pensarsi dentro il multipolarismo, seppure in chiave capitalistica e liberista.

E’ la dimostrazione evidentissima che la solidità politica magnificata dai presidenti delle istituzioni europee è un gigante di gesso, una tigre di cartone, un complesso federativo dai piedri di argilla. La tenuta dell’Unione fondata quasi esclusivamente sul monetarismo ha aperto le contraddizioni tra Stato e Stato, tra paese e paese e ha amplificato il potenziale esplosivo dei particolarismi piuttosto che sedarli.

Le destre sono riuscite in alcuni Stati dell’Unione a modificare così tanto i rapporti politici da influenzare quelli sociali e cambiare radicalmente l’originaria base valoriale per cui era stato possibile farli aderire all’Europa confederativa moderna.

Il problema rappresentato da Orbán, dunque, è tutto tranne che qualcosa di estemporaneo, fugace, transitorio e sottovalutabile in questo senso. E’ la dimostrazione che le mutazioni genetiche delle democrazie possono avvenire anche laddove, dopo le cadute di regimi che avevano fatto parte dei satelliti sovietici fino al 1989-90, si era troppo presto e troppo facilmente pensato ad una impossibile riedizione di autoritarismi.

Avranno imparato la lezione, si disse alla caduta del socialismo (ir)reale dell’Est. Invece il capitalismo non ha fatto altro se non rieditare, con altre forme e con altri mezzi, le stesse idiosincrasie tra diritti individuali e collettivi, perché ha sostituito alla satrapia degli amici di Mosca quella degli amici del mercato e delle grandi economie globalizzate.

Il risultato è sotto gli occhi di tutti e rischia di far implodere quell’esperimento di unità post-bellica che avrebbe dovuto scongiurare le guerre in futuro, dal 1945 in avanti. Una di queste guerre è, nemmeno a dirlo, ai confini dell’Ungheria, quindi ai confini dell’Europa.

MARCO SFERINI

3 febbraio 2024

foto: screenshot tv

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