La contesa centrista tra Calenda, Renzi e il PD

La teoria di Calenda, per dare una sorta di giustificazionismo alla sua rottura con l’alleanza siglata appena quattro giorni prima con il PD, poggia sulle contraddizioni del tutto evidenti...

La teoria di Calenda, per dare una sorta di giustificazionismo alla sua rottura con l’alleanza siglata appena quattro giorni prima con il PD, poggia sulle contraddizioni del tutto evidenti che una “ammucchiata” simile autogenera nel momento in cui si pone come e tale e, per l’appunto, ha come funzione ha quella della esclusiva contrarietà ad una coalizione alternativa piuttosto che un programma di governo strutturato, condivisibile, realizzabile.

Sostiene Calenda che Letta ha scelto, e questa scelta è caduta sul solito “fronte di salvezza nazionale” che mira a sbarrare la strada alle destre e che, nel nome di ciò, mette insieme tutto e il contrario di tutto.

C’è una qualche verità in questa speciosissima argomentazione.

Se al leader di Azione serve per smarcarsi dall’alleanza, rompere il patto e riconteggiare i collegi sicuri che avrebbe magari andando da solo o alleandosi con Renzi e dando vita ad un “terzo polo” spiccatamente centrista nel segno del neoatlantismo e del liberismo più sfrenato, è pur vero che, nonostante il Rosatellum, le alleanze sono sempre più difficili per tutti dopo l’avvento del draghismo come mare magnum di una politica disarticolata e tenuta insieme soltanto dal collante del necessitarismo indotto dalle più pragmatiche circostanze di stabilizzazione del regime imprenditoriale nella crisi economica crescente.

Sembrerebbe quasi di trovarsi davanti ad una induzione ad un ritorno indiretto, e non certo spontaneamente cercato e voluto, ad uno schema proporzionale per la politica italiana.

Le stesse destre, che, senza ombra di dubbio, ritrovano sempre un comune denominatore nei momenti in cui devono federarsi e ricomporsi in vista del voto, non si può dire che non abbiano avuto qualche difficoltà nella determinazione della cosiddetta “leadership” e che, tutt’oggi, il patto del tridente neonazi-onalista si regga sulla constatazione de facto della volontà popolare nello stabilire chi guiderà il governo in caso di vittoria: colei o colui la cui forza politica avrà un voto in più delle altre.

Il problema, però, diventa più politico se ci si intrufola nel campo centrista e in quello presuntamente progressista, certamente democratico. Qui i tecnicismi sono ridotti, ancor prima che alla ricerca di un capo politico, di un indicato probabile Presidente del Consiglio, alla quadra del tutto programmatica che fatica poi a combaciare con la suddivisione dei collegi uninominali, lì dove la battaglia si gioca molto più apertamente perché la sintesi esige tante piccole desistenze locali, tanti patti reciproci, tante fiducie che devono tenersi l’una legata all’altra entro un contesto di condivisione di una certa linea di governo.

I discorsi televisivi dei vari esponenti del PD mostrano tutto questo all’ombra della virtuosissima vicinanza del partito alle esigenze primarie degli italiani: sostengono i democratici che prima di badare alle spartizioni dei posti, primo fra tutti quello più alto di Palazzo Chigi, è l’interesse comune a prevalere, ad essere al centro delle animosità interne ed esterne alle singole forze politiche.

La retorica è parte integrante della campagna elettorale e, a ben vedere, è il male minore che la può condizionare e, forse, l’ultima responsabile della disaffezione dei cittadini che ancora una volta inciderà sulla percentuale del partito più non votato: quello dell’astensione.

Le difficoltà più evidenti che si riscontrano in questo teatrino dell’assurdo sulle alleanze e sul calcolo dei vittoriosi nei singoli grandi collegi uninominali, richiamano quindi alla mente uno schema di presentazione all’elettorato che sopporta sempre di meno le coalizioni e che spinge alla presentazione quasi singola, alla proposta politica che torna alla proporzionalità, all’idea di società italiana, di contesto europeo e di più ampia visione mondiale del tutto particolare e non riconducibile ad un sincretismo innaturale che, nella mai veramente consolidata alternanza tra i poli.

Frutto di una immaturità sociale, civile e culturale che ha alimentato una rappresentanza politica in cui ha prevalso l’interesse particolare rispetto a quello collettivo e dove il liberismo ha fatto breccia portando dalla sua quelle forze che pretendevano di essere ancora progressiste e che si sono invece, nel corso dei governi tecnici, trasformate nei migliori numi tutelari del profitto, della finanziarizzazione dell’economia e nel rapporto competitivo di di questi con il resto del mercato europeo e mondiale.

Nel nome dell’antiberlusconismo si sono fatte ammucchiate di partiti che non avevano in comune praticamente nulla (basti pensare a Mastella, Dini e Rifondazione Comunista ne “L’Unione“) ma che avevano il solo scopo di sbarrare la strada all'”impero del male“.

La conseguenza prima non è stato lo sviluppo di una coscienza popolare e nazionale in questa direzione, ma la percezione che a muovere il tutto fossero solo interessi specifici e che, alla fine, se il centrosinistra su muoveva politicamente sul terreno economico al pari quasi del centrodestra, tanto valeva preferire l’originale rispetto alla copia spacciata per garante della Costituzione e delle libertà civili e sociali che contiene.

Una legge elettorale proporzionale avrebbe contribuito a spezzare questo incantesimo malefico e avrebbe costretto partiti e movimenti a fare i conti con le proprie proposte e con un dialogo parlamentare che avrebbe consegnato alle Camere il loro vero, naturale ruolo di formazione dei governi dopo il voto e non prima che gli elettori si fossero espressi.

Il sovvertimento della volontà popolare è iniziato con il referendum che ha abolito la proporzionale quasi trent’anni fa ed proseguito con una serie di riforme politico-governative che hanno interpretato alla bisogna le necessità di una espansione liberista globale che ha raggiunto l’Italia nei primi anni ’80 e, proprio sul consolidamento della primazia del privato rispetto al pubblico, ha forgiato le nuove classi dirigenti del Paese.

Non esiste, a dire il vero, un approdo finale per un neocapitalismo mondiale e continentale che detta le regole alla politica italiana, perché la ricerca dei soggetti partitici in grado di interpretare prontamente quelle che sono le regolamentazioni delle banche centrali e dell’alta finanza è un tipo di esplorazione costante, che impegna imprenditori e grandi speculatori a condizionare sempre più gli scenari caotici dei sistemi nazionali.

La crisi della democrazia può provenire anche dalla minaccia fratellitaliana, dal neonazi-onalismo inveterato che si rivolge nostalgicamente alla durezza muscolar-istituazionale del fascismo entro una opportunistica cornice fintamente liberaleggiante; ma, in uguale misura (o quasi), questa minaccia è alimentata dall’instabilità sociale, dal disagio di milioni e milioni di famiglie che non sbarcano il lunario e che sono entrate nel paniere ISTAT alla voce “nuovi poveri“.

E’ una sterminata galassia di pauperismo che non verrà risolto dall'”agenda Draghi” cui Letta e il suo ormai ex alleato di poche ore Calenda caldeggiano come fondamento alternativo ai presupposti programmatici delle destre. Per cambiare davvero e per tornare a mettere paura a lor signori, ai padroni e ai finanzieri, serve una interconnessione che metta in relazione sindacati, partiti e associazioni sociali e culturali.

Bisogna ricostruire un nuovo “Paese nel Paese“. Non è facile sdoppiare una società e farne, per metà, la sua cattiva coscienza, e per l’altra quella critica che muova all’azione e che esca dal pulviscolo malevolo della rassegnazione impagante, frustrante e così bene accetta da chi ha interesse a far pesare i costi della crisi pandemica, economica e di guerra sulle spalle e le tasche della povera gente.

Per questo il compito che abbiamo rinviato, ripreso e abbandonato nuovamente molte volte ora, prescindendo dal risultato elettorale solo per la parte che riguarda l’effetto a lungo termine che potrebbe avere, più di carattere psico-politico che pratico e concreto, di costruire un nuovo partito della sinistra di alternativa in Italia non può essere rimandato di un centesimo di secondo.

Le difficoltà di questi giorni, che sono veramente tante, ci devono servire per testare la volontà di metterci in gioco, consci del voto che ci attende, ma consci del fatto che Unione Popolare è un principio di strada giusta. Disfarla immediatamente dopo una delusione elettorale sarebbe perseverare nell’errore macroscopicamente grossolano, indice di una immaturità politica, civile e sociale di non poco conto.

Conta ciò che vogliamo costruire per proteggere i moderni proletari, per tutelare i più fragili in ogni ambito della società e per aprire le porte ad una stagione critica dell’esistente che sia non solo enfasi simbolica di feticci del passato, ma tensione futura espressa nell’oggi con l’ottimismo di quella volontà che viene meno soltanto se lo si scinde dal sacrosantissimamente laico pessimismo della razionalità.

Prudenza e fiducia devono viaggiare di pari passo, sapendo che le nostre proposte di trent’anni fa, quelle delle comuniste e dei comunisti che si battevano contro la guerra, contro il nucleare, per l’internazionalismo dei temi sociali e per una pace fondata sul reciproco riconoscimento dei diritti universali dell’uomo e del cittadino, nonché del proletario democratico e socialista, ebbene quelle istanze non sono venute meno ma sono di tremenda attualità.

I Calenda passano. I problemi sociali restano. L’Unione Popolare faccia il primo passo. Se inciamperà nelle piccole percentuali del voto, si rialzi immediatamente dopo e lavori per costruire quel partito della sinistra di alternativa di cui l’Italia ha così tanto bisogno.

MARCO SFERINI

9 agosto 2022

Foto di Ludvig Hedenborg

categorie
Marco Sferini

altri articoli