La cavalcata liberista tra democrazie e nuovi autoritarismi

C’è un paradosso su cui si reggono le più alte istituzioni di tanti Stati: per governare e, quindi, gestire le crisi strutturali del capitalismo, servono donne e uomini che...

C’è un paradosso su cui si reggono le più alte istituzioni di tanti Stati: per governare e, quindi, gestire le crisi strutturali del capitalismo, servono donne e uomini che sappiano bene dove intervenire quando il sistema entra in cortocircuito. Intervenire, in questi casi, prende tutto il significato di utilizzare beni e fondi comuni per interessi strettamente privati.

Quindi, a fare gli interessi pubblici – si fa per dire, ovviamente – sono chiamati sempre e soltanto coloro che disprezzano l’intervento dello Stato nell’economia di mercato. I più strenui avversari della pubblicizzazione delle grandi reti di tutela delle masse e delle fasce più indigenti delle popolazioni, sono esattamente coloro che stanno al vertice delle istituzioni pubbliche medesime.

Un tempo la distinzione tra “Stato democratico“, quindi parlamentare, e “Stato assoluto“, quindi monarchico (con le dovute eccezioni), bastava a definire l’avanzamento di una serie di princìpi egualitari che, seppure contenuti nel perimetro del liberalismo, erano riusciti ad imporsi sugli strascichi anti-illuministi di restaurazioni e conservazioni di tanti status quo disseminati sia in Europa sia in altri continenti colonizzati dal Vecchio mondo.

Oggi questa distinzione, tra repubbliche e monarchie, non è più sufficiente per darci ad intendere quale sia uno Stato più avanzato in termini di diritti civili e sociali: esistono paesi che hanno presidenti più autoritari e autocratici di sovrani che siedono sui loro troni da decine di anni. Sempre facendo necessariamente ricorso alla paradossalità, sono proprio alcuni Stati monarchici ad avere governi di ispirazione socialista o socialdemocratica, mentre repubbliche come la nostra Italia si ritrovano degli esecutivi capitanati dai più acerrimi avversari del pubblico rispetto al privato.

Il liberismo odierno, involuzione evoluta del liberalismo novecentesco, ha iniziato la sua corsa globale a partire dagli anni ’70 del secolo scorso. L’idea fondante, quella dell’asse tatcheriano – reaganiano, risiedeva esattamente tutta sull’assunto per cui il fulcro regolatore della società, quindi il suo potenziale espansivo economico, sociale, culturale e politico, stesse nella più ampia libertà di azione del mercato, slegato dai condizionamenti pubblici, sempre meno vincolato quindi da leggi e normative che ne prevedessero in qualche modo gli eccessi e le ricadute sulla stragrande maggioranza della popolazione.

Questa concezione liberista è divenuta necessaria per i padroni e per la grande finanza internazionale al fine di arginare la critica anticapitalista che aveva assunto una certa importanza in ogni angolo del pianeta. Il riflusso del biennio 1968-1969,  gli sconvolgimenti politici, il mutare dell’asse di sviluppo di un mondo che mostrava già allora una certa insofferenza al bipolarismo USA-URSS, ce n’era abbastanza per allarmare FMI, Banca Mondiale e tutte quelle istituzioni a tutela del capitale che stavano crescendo velocemente e assumendo il ruolo di gendarmi della globalizzazione.

La cavalcata del liberismo moderno è una necessità del capitalismo non solo in chiave economica, essendo un suo evolversi, per così dire, “naturale“, in risposta alle dinamiche stabilite dalla mutazione dei rapporti di forza nelle singole nazioni e negli agglomerati come la futura Unione europea; di più ancora è una necessità cogente che spinge i liberisti ad ispirare nelle istituzioni cambiamenti radicali in senso protezionista da un lato, tutelandosi dalle tentazioni socialdemocratiche, ed in chiave espansionista dall’altro, influenzando i processi economici di intere aree del pianeta, aprendo ad una nuova fase imperialista soprattutto nelle regioni più fragili socialmente, interessate da conflittualità interne e preda di creditori pronti a battere cassa.

Se la fine della Seconda guerra mondiale aveva lasciato spazio a qualche speranza proprio per continenti come l’Africa, l’Asia e l’America Latina, chiamati ad una modernizzazione sociale che facesse rima con un aggiornamento democratico di istituzioni legate ad un passato coloniale privo di diritti civili, di libertà fondamentali per una grande maggioranza delle popolazioni, gli ultimi trent’anni del ‘900 sono invece propedeutici ad una espansione liberista che frena ogni anelito libertario, anche soltanto timidamente socialdemocratico.

Nessun patto è possibile per i liberisti: le istituzioni democratiche per loro puzzano già di socialismo, perché è la stessa democrazia ad esserne la precorritrice. E’ un giudizio avventato, sbagliato, miope e utile soltanto come pretesto per esportare nuove autocrazie e oligarchie laddove i popoli provano a risalire dalla miseria ad una vita dignitosa. Un livello che non viene concesso.

I tanti colpi di Stato messi in cantiere e portati avanti dalla CIA, con la collaborazione di forze armate golpiste e fascisti di ogni risma, sono la testimonianza più cruda di una fine del “secolo breve” tutta piegata ad una nuova ideologia che lega iniziativa privata a tutto spiano a conservatorismo antisociale e incivile, paramilitare e clericaleggiante.

Le storie dei popoli si possono scrivere continuamente, ma si possono comprendere solamente nei canti e controcanti che riecheggiano dal confronto di decenni con altri decenni: serve appunto del tempo per osservare le similitudine, per mettere a fuoco le differenze e per avere chiari quali siano gli scenari che si sono chiusi e quali siano invece quelli ancora assolutamente aperti.

Il liberismo è tutt’ora in piena espansione, perché l’idea della geopolitica legata esclusivamente agli interessi del mercato è una necessità di un capitalismo che, altrimenti, mostrerebbe ancora di più affanno da contrazione di una domanda che si restringe a causa (anche) della pandemia. Ma in realtà la vera crisi che minaccia maggiormente la pretesa di imperiturità del capitale è quella naturale, quella ambientale che non concede spazi di compromesso alcuno: perché lo sfruttamento della forza-lavoro è aumentabile e diminuibile a seconda di una serie di fattori concatenati e spesso indeterminati nell’immediatezza dei cicli produttivi, mentre invece lo sfruttamento delle risorse del pianeta è limitato per sua stessa natura… In tutti i sensi.

Tempo di vita, rapporto tra capitale costante e variabile, domanda e offerta, circolazione delle merci e concorrenzialità sono fra i fattori condizionanti lo sfruttamento capitalistico nei confronti prima di tutto degli esseri umani. Ma questo sfruttamento è a sua volta legato alle possibilità che la classe padronale ha di attingere a materie prime capaci di essere trasformate in qualcosa che abbia ancora un valore d’uso associato ad un valore di scambio.

Le risorse della Terra diminuiscono sempre più con l’aumentare del tempo e, parimenti, con l’aumentare delle necessità di una popolazione che si espande. L’esasperazione che ne deriva accentua l’aggressività di un liberismo che, per poter salvare sé stesso e il sistema che lo comprende, deve aggredire nuovi mercati e non può farlo se non avendo il pieno sostegno degli Stati che rappresentano questa economia bulimica, priva di qualunque etica, priva di qualunque freno davanti alla catastrofe climatica e ambientale.

L’incapacità del capitalismo liberista di fermarsi nella sua continua naturale ossessione accumulatrice sarà bloccata da due eventi, di cui uno possibile e l’altro certo: una trasformazione rivoluzionaria della vita degli esseri umani (e di tutti gli altri esseri viventi) che superi il regime del capitale, con la consapevolezza che una rottura immediata sarebbe dannosa prima di tutto per i miliardi di sfruttati che tutt’oggi sopravvivono sul pianeta; oppure lasciare alla natura il compito di mettere fine a questa autodistruzione.

Nella seconda ipotesi, è del tutto evidente che vi si arriverebbe a cose fatte, quindi oltre quel “punto di non ritorno” che eviterebbe la completa compromissione della qualità sufficiente di vita necessaria alla conservazione della nostra specie e di tante altre specie animali e vegetali.

Il capitalismo minaccia, in ogni momento della sua esistenza, quella di tutti gli esseri viventi. Il liberismo non fa che piegare alla continuità di un sistema perverso e controverso, disegualizzante e spregiudicato, praticamente ogni aspetto della nostra esistenza: la mutazione delle democrazie in democrazie autoritarie, l’indistinguibilità tra regimi repubblicani e monarchici, dittature presidenziali o autoritarismi principeschi e regali, è l’ultima preoccupazione liberale per un mondo che ha superato in poco tempo distinzioni su cui si fondavano stili di vita, cultura, diritto, arte e scienza.

Senza un cambiamento radicale cosciente, che non può essere chiesto ai capitalisti e agli affaristi di finanza e borsa, saremo costretti ad assistere ad una nemmeno tanto lenta distruzione di risorse umane, animali e di una miriade di ricchezze naturali per evitare che il pianeta imploda e diventi lo spettro di sé stesso.

L’autoriformabilità di questo sistema è insperabile, perché sarebbe prima di tutto un punto socio-etico-culturale da imporsi, rinunciando a privilegi di classe che la classe dominante non può “per natura” consentirsi. Il tema del cambiamento è e rimane, quindi, con una drammatica speranza all’ordine del giorno…

MARCO SFERINI

28 dicembre 2021

foto tratta da Pixabay

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