José Mujica, il mio Presidente

So che a lui non piacerebbe, ma io penso che dovremmo tutti inchinarci davanti alla nobile figura di José Mujica. Non ci sono poteri buoni. Lo sappiamo. L’ex Presidente...
Pepe Mujica

So che a lui non piacerebbe, ma io penso che dovremmo tutti inchinarci davanti alla nobile figura di José Mujica.

Non ci sono poteri buoni. Lo sappiamo. L’ex Presidente dell’Uruguay è l’eccezione che conferma la regola. Una goccia inedita nell’oceano delle illusioni; un rumore atipico che rimprovera il sistema e le persone che lo alimentano; un po’ di ossigeno nelle stanze fredde che ospitano cinismi ed egoismi sociali; un soffio di primavera nell’inverno che ci perseguita.

José è il nonno che ogni ragazzino vorrebbe avere, una persona di fiducia, l’incarnazione più attendibile dell’onestà, della pace interiore, del sentimento poetico che sorveglia una vita degna di essere vissuta. Di cultura libertaria e socialista, Mujica ha sposato fin da subito la causa della libertà. Negli anni ’70 è in prima fila, con il suo amore Lucía Topolansky, contro quelle dittature militari che hanno messo a soqquadro l’Argentina, il Cile, il Brasile e appunto l’Uruguay. Opta dapprima per la lotta armata e contribuisce a fondare il movimento dei tupamaros. Si fa 14 anni di prigione versando in condizioni disumane: non vede nessuno, non può leggere libri, si intromette nelle conversazioni fra gli animaletti che gli fanno visita la mattina. Un inferno. Quando esce, il suo ottimismo non si sposta di una virgola. Continua ad amare l’ovunque e intensifica il suo impegno in politica. Negli anni ’90 – la fase gloriosa della sinistra progressista in buona parte dell’America Latina – entra in Parlamento e qualche lustro più tardi diviene Presidente della Repubblica.

Il nuovo capo dello Stato non ha intenzione di mangiare e dormire nella residenza ufficiale, non vuole respirare l’atmosfera istituzionale, non usufruisce di alcun privilegio, anzi consegna il 90% del suo compenso a chi muore di fame. Preferisce abitare in campagna, in una fattoria situata nella periferia della capitale. La sua sobrietà non è decadentismo passivo. Pepe, infatti, realizza riforme importanti come l’innovativa legalizzazione della marijuana al fine di arginare il narcotraffico, e si impegna più in generale a risolvere il conflitto sociale pensando solo agli sfruttati. Il popolo lo adora perché lui, col sorriso dei giusti, ha scelto «la strada meno battuta». La sua lotta al consumismo capitalista non è pura teoria, non si tratta di una masturbazione intellettuale relegata nei circuiti dell’ozio. José s’interroga di continuo in attesa di una risposta laica da scambiare con chi, in egual misura, sogna il durevole.

Ecco un sano interprete della democrazia, quella vera. La democrazia che abita nel cuore di un contadino innamorato della terra. Ed è un repubblicano. Non allineato al falso repubblicanesimo oggi in voga, ma fedele a quella Repubblica che ha sconfitto i tappeti rossi attraversati dall’inganno aristocratico. La sua biografia affascina perché imperniata sul bisogno di sperimentare l’ideale. Incanta perché non investe la dimensione di un prete o di un soggetto quasi costretto d’ufficio. Mujica è un ateo sui generis che crede nella natura e nel «fanciullino».

In quella silenziosa fattoria qualcuno ci sta insegnando come vivere, ci sta dicendo che un altro mondo è ancora possibile, che il futuro inizia dentro di noi, che occorre darsi da fare per disegnare l’eguaglianza, che il bon ton è una scatola vuota, che il cambio generazionale è un obbligo fisiologico e morale, che in tempi di crisi non sono ammessi i super-ricchi, che non si può mentire per realismo machiavellico quando in gioco vi è la condizione esistenziale di un precario, che la violenza bianca non è più «pulita» di quella nera, e che – come ricorda il poeta Boris Pasternak − occorre saper «inciampare» per conoscere la bellezza della vita.

FRANCESCO POSTORINO

da L’Espresso – blog “Dio è morto”

foto tratta da Wikimedia Commons

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